giovedì 30 aprile 2015

Traduzione da Sallustio (De coniuratione Catilinae, XXXIX-XL)

I congiurati prendono contatto con gli Allobrogi
 
Poiché gli ambasciatori degli Allobrogi (una popolazione gallica) si trovavano a Roma, Catilina, tramite suoi uomini (Lentulo e Umbreno), li contatta per averli come alleati nella congiura.
 
Iisdem temporibus Romae Lentulus, sicuti (1) Catilina praeceperat, quoscumque moribus aut fortuna novis rebus idoneos credebat, aut per se aut per alios sollicitabat, neque solum civis (2) sed cuiusque modi genus hominum, quod modo bello usui foret (3). Igitur P. Umbreno cuidam negotium dat, uti legatos Allobrogum requirat eosque, si possit, impellat ad societatem belli, existumans publice privatimque aere alieno oppressos, praeterea quod natura gens Gallica bellicosa esset, facile eos ad tale consilium adduci posse. Umbrenus, quod in Gallia negotiatus erat, plerisque principibus civitatium notus erat atque eos noverat. Itaque sine mora, ubi primum legatos in foro conspexit, percontatus pauca de statu civitatis et quasi dolens eius casum, requirere coepit quem exitum tantis malis sperarent.
 
Sallustio, De coniuratione Catilinae (XXXIX-XL)
 

NOTE
 
1) Sicuti equivale a sicut (come più sotto uti equivale a ut)
2) Sta per cives
3) Foret è arcaismo per esset
Traduzione
 
Contemporaneamente (lett.: negli stessi tempi) Lentulo a Roma (genitivo locativo), come Catilina (gli) aveva ordinato, sollecitava, o da solo o tramite altri, tutti quelli che per costumi o per condizioni patrimoniali (fortuna) riteneva disponibili alla rivoluzione (lett.: idonei alle novità), e non solo cittadini ma qualunque genere di uomini (lett.: il genere di uomini di qualunque tipo), purché fossero di utilità alla guerra (lett.: che soltanto fosse di utilità alla guerra, con bello usui in doppio dativo). Pertanto dà a un certo P. Umbreno l'incarico di cercare (che cerchi) gli ambasciatori degli Allobrogi e, se può, di spingerli (li spinga) ad una alleanza di guerra, ritenendo che facilmente potevano essere coinvolti in un tale progetto (indotti ad una tale iniziativa), (in quanto) gravati da debiti personali e di Stato (lett.: privatamente e pubblicamente) e inoltre poiché per natura la gente gallica era (ma anche "è") bellicosa. Umbreno, poiché (quod è la congiunzione causale, non il pronome relativo) aveva commerciato in Gallia, era noto alla maggior parte dei capi delle popolazioni (non "città", come dovreste avere imparato) e li conosceva (noverat è il piuccheperfetto indicativo di novi-novisse e si traduce con l'imperfetto). Perciò senza indugio, non appena (ubi primum) vide gli ambasciatori nel foro, dopo aver chiesto poche informazioni (lett.: poche cose) sullo stato della popolazione e quasi dolendosi (dolere regge l'accusativo) della sua condizione (cioè, della condizione in cui si trovava la popolazione degli Allobrogi), cominciò a domandare quale esito (soluzione) sperassero per così grandi (non "tanti", perché tantus in latino indica intensità, non quantità - come dovreste avere imparato) mali (cioè, i loro debiti).

Traduzione da Valerio Massimo (Facta dictaque memorabilia, VII, 3)

Astuzia di Bruto

Il Tarquinio di cui si parla è l’ultimo re di Roma, il quale, temendo che qualcuno gli sottraesse il regno, aveva fatto uccidere tutti quelli che riteneva pericolosi avversari. Bruto (nipote di Tarquinio) è colui che lo caccerà, fonderà la repubblica e sarà console. Nel testo si parla poi di Apollo Pizio: così si chiamava il dio a cui era dedicato un famoso santuario a Delfi, in Grecia; là si usava andare da tutto il mondo, non solo per rendere omaggio al dio, ma anche per interrogarlo sul futuro.

Iunius Brutus, cum a rege Tarquinio avunculo suo animadvertisset inter ceteros etiam fratrem suum, quod vegetioris ingenii erat, interfectum esse, obtusi se cordis esse simulavit eaque fallacia maximas virtutes suas texit. Profectus Delphos cum Tarquinii filiis, quos rex ad Apollinem Pythium muneribus sacrificiisque honorandum miserat, aurum deo, nomine doni, clam cavato baculo inclusum tulit; nam timebat ne sibi caeleste numen aperta liberalitate venerari tutum non esset. Peractis deinde mandatis patris, Apollinem iuvenes consuluerunt quisnam ex ipsis Romae regnaturus videretur. Atque is penes eum summam urbis potestatem futuram respondit, qui ante omnes matri osculum dedisset. Tum Brutus, perinde atque casu prolapsus, de industria se abiecit terramque, communem omnium matrem existimans, osculatus est.
 
Valerio Massimo, Facta et dicta memorabilia (VII, 3)
Traduzione
 
Giunio Bruto, essendosi accorto che, fra gli altri, anche suo fratello, poiché era alquanto intelligente (lett.: di ingegno alquanto vivo), era stato ucciso da suo zio il re Tarquinio, finse di essere sciocco (lett.: di mente ottusa) e con quest’inganno nascose le sue grandissime capacità. Partito per Delfi con i figli di Tarquinio, che il re aveva mandato ad onorare Apollo Pizio con doni e sacrifici, portò di nascosto al dio, a titolo di dono, dell’oro racchiuso in un bastone cavo; infatti temeva che non fosse sicuro per lui venerare la divinità celeste con manifesta generosità. Quindi, eseguito l’incarico (lett., plurale) del padre, i giovani chiesero ad Apollo chi mai fra loro (gli) sembrasse che avrebbe regnato a Roma. Ed egli rispose che il sommo potere sulla (lett.: della) città sarebbe stato nelle mani di (lett.: presso) colui che avesse dato prima di tutti un bacio alla madre. Allora Bruto, scivolato come per caso, si lasciò cadere intenzionalmente e baciò la terra, ritenendo(la) comune madre di tutti.

mercoledì 29 aprile 2015

Traduzione da Livio (Ab urbe condita, XXXIV, 1)

Una rivolta delle donne
 
Inter bellorum magnorum aut vixdum finitorum aut imminentium curas intercessit res parva dictu sed quae in magnum certamen excesserit (1). M. Fundanius et L. Valerius tribuni plebis ad plebem tulerunt (2) de Oppia lege abroganda. Tulerat eam C. Oppius tribunus plebis in medio ardore Punici belli, ne qua mulier plus semiunciam auri haberet neu vestimento versicolori uteretur neu iuncto vehiculo (3) in urbe, nisi sacrorum publicorum causa, veheretur. M. et P. Iunii Bruti (4) tribuni plebis legem Oppiam tuebantur nec eam abrogari se passuros aiebant; Capitolium (5) turba hominum faventium adversantiumque legi complebatur. Matronae nulla nec auctoritate nec verecundia nec imperio virorum contineri poterant, omnes vias urbis aditusque in forum obsidebant, viros descendentes ad forum orantes ut, florente re publica, crescente in dies privata omnium fortuna, matronis quoque pristinum ornatum reddi paterentur.
 
Livio, Ab urbe condita (XXXIV, 1)
 
NOTE
 
1)   Congiuntivo caratterizzante (o consecutivo).
2) Il verbo fero (qui, come subito dopo) ha il significato tecnico di “proporre una legge”.
3)  Il vehiculum iunctum è un segno di lusso, come gli altri due appena elencati.
4)   Sono due tribuni della plebe (imparentati tra di loro, visto che si chiamano tutti e due “Giunio Bruto”, uno Marco e l’altro Publio) che evidentemente, da quel che si dice qui,  non sono d’accordo con gli altri due tribuni della plebe citati sopra.
5) Qui evidentemente si teneva l’assemblea nella quale si discuteva della questione.
 
Traduzione
 
Fra le preoccupazioni di grandi guerre o appena terminate o imminenti venne ad inserirsi una questione di poco conto (lett.: piccola a dirsi; dictu è un supino passivo), ma che sfociò in un grande contrasto. I tribuni della plebe Marco Fundanio e Lucio Valerio proposero al popolo l’abrogazione della legge Oppia (lett.: proposero una legge riguardo all’abrogare la legge Oppia). L’aveva promulgata il tribuno della plebe Caio Oppio, in mezzo all’ardore (al divampare) della guerra punica, affinché nessuna donna (lett.: affinché alcuna donna non…; qua è un aggettivo indefinito, equivale ad aliqua) possedesse più di mezza oncia d’oro, indossasse vesti variopinte, girasse in città (lett.: fosse trasportata) su un cocchio (lett.: carro aggiogato), se non per pubbliche cerimonie religiose. I tribuni della plebe Marco e Publio Giunio Bruto difendevano la legge Oppia e dicevano che non avrebbero permesso che fosse abrogata;  il Campidoglio era affollato da una massa di cittadini favorevoli e contrari (lett.: favorenti e avversanti) alla legge. Le matrone non potevano essere trattenute da nessuna autorità, né dal pudore né dal comando dei mariti, assediavano tutte le vie della città e gli accessi al foro, pregando gli uomini che vi (al foro) si dirigevano di consentire che anche alle matrone fosse restituito l’antico decoro, visto che lo Stato era fiorente e che la fortuna privata (il patrimonio) di tutti cresceva di giorno in giorno (sono due ablativi assoluti, che si rendono bene con valore causale).

Traduzione da Livio (Ab urbe condita, V, 4-5)


Non si deve interrompere l’assedio contro Veio
 
I Romani stavano assediando la città etrusca di Veio da circa un anno, e quindi c’era a Roma chi sosteneva che si dovesse desistere e ritirarsi. Quello che si riporta qui, è un passo del discorso con cui Appio Claudio cerca di convincere i suoi concittadini che è stato giusto intraprendere la guerra e che è bene concluderla vittoriosamente al più presto, se non si vuole subire il contrattacco dei Veienti.
 
Aut non suscipi bellum oportuit, aut geri pro dignitate populi Romani et perfici quam primum oportet. Decem quondam annos tam procul a domo urbs oppugnata est ob unam mulierem ab universa Graecia (1); nos autem in conspectu prope urbis nostrae (2) annuam oppugnationem perferre piget? Fuerit sane levis huius belli causa, at superiores illas iniurias (3) quis vestrum, Quirites, oblivisci potest? Septies rebellarunt (4); in pace nunquam fida fuerunt; Etruriam omnem adversus nos concitare voluerunt hodieque id moliuntur. Cum his molliter et per dilationes bellum geri oportet? (5) Si reducimus exercitum, quis dubitet illos, non cupiditate solum ulciscendi sed etiam necessitate praedandi, cum sua amiserint, agrum nostrum invasuros? Utinam nunquam illum diem populus noster videat! Ne differamus igitur bellum neve bellum intra fines nostros ferri sinamus.
 
Livio, Ab urbe condita, V, 4-5
 
NOTE
1) Si riferisce alla guerra che i Greci combatterono contro Troia per dieci anni.
2) Veio distava da Roma circa venti miglia.
3) Le iniuriae sono quelle che elenca subito dopo.
4) E’ una forma "sincopata".
5) E’ una domanda retorica.
 
Traduzione
O sarebbe stato opportuno (indicativo con valore di condizionale; ma è accettabile anche l'indicativo italiano, meglio l'imperfetto: era opportuno, bisognava) non intraprendere la guerra (lett.: che la guerra non fosse intrapresa), o sarebbe opportuno (come sopra) condurla (lett.: che sia condotta) secondo la dignità del popolo romano e portarla a termine (lett.: che sia portata a termine) quanto prima. Un tempo per dieci anni (accusativo di tempo continuato) tanto lontano dalla patria una città (non "la" città, che non ha senso) fu assediata dall'intera Grecia a causa di una sola donna; a noi invece rincresce di portare a termine l'assedio di un anno quasi (prope) in vista della nostra città (cioè, talmente vicini a Roma che quasi possiamo vederla)? Ammettiamo pure che sia stato (fuerit è congiuntivo concessivo) di poco conto il motivo di questa guerra, ma chi di voi, o Quiriti, può dimenticare quelle precedenti (antiche) offese (non "ingiurie", che in italiano significa insulti, offese verbali)? Per sette volte si sono ribellati; non sono mai stati affidabili in pace (lett.: non sono mai stati in una pace fidata); hanno voluto sollevare tutta l'Etruria contro di noi, e oggi ci provano (lett.: tentano, ordiscono ciò). E' opportuno condurre la guerra contro questi fiaccamente e in maniera inconcludente (lett.: attraverso dilazioni, rinvii)? Se riportiamo indietro l'esercito, chi potrebbe dubitare (dubitet è congiuntivo dubitativo) che quelli invaderanno la nostra terra, non solo per desiderio di vendicarsi, ma anche per necessità di fare bottino, dato che hanno perso (cum più congiuntivo, con valore causale) tutti i loro beni (lett.: le loro cose)? Voglia il cielo che il nostro popolo non veda mai (videat è congiuntivo desiderativo) quel giorno! Dunque non dilazioniamo (non rinviamo, non portiamo per le lunghe) la guerra e non permettiamo (differamus e sinamus sono congiuntivi esortativi) che la guerra sia portata dentro il nostro territorio.
 

Traduzione da Livio (Ab urbe condita, I, 6-7)


Morte di Remo
 
 
Romulum Remumque cupido cepit in iis locis, ubi expositi ubique educati erant, urbis condendae. Quoniam gemini essent (1) nec aetatis verecundia discrimen facere posset, ut di, quorum tutelae ea loca essent, auguriis legerent qui (2) nomen novae urbi daret, qui conditam imperio regeret, Palatium Romulus, Remus Aventinum ad inaugurandum templa (3) capiunt. Priori Remo augurium venisse fertur, sex vultures; iamque nuntiato augurio, cum duplex numerus Romulo se ostendisset, utrumque regem sua multitudo (4) consalutaverat: tempore illi praecepto, at hi numero avium regnum trahebant. Inde cum altercatione congressi, ad caedem vertuntur; ibi in turba ictus, Remus cecidit. Vulgatior fama est ludibrio fratris Remum novos transiluisse muros; inde (5) ab irato Romulo, cum verbis quoque increpitans adiecisset (6): "Sic deinde (7), quicumque alius transiliet moenia mea", interfectum.
 
Livio, Ab urbe condita (I, 6-7)
 
NOTE
 
1)      E’ un congiuntivo obliquo, come i successivi posset ed essent (si tratta di ciò che pensano Romolo e Remo).
2)       Il termine a cui si riferisce è un eum sottinteso.
3)      Templum è propriamente lo spazio di cielo ritenuto sacro (e quindi entro cui si manifestano segni divini).
4)       Sua multitudo: si tratta del gruppo dei seguaci di ciascuno dei due fratelli.
5)      La frase che segue è, come la precedente, un’infinitiva retta da “vulgatior est fama”, e sottintende lo stesso soggetto della precedente.
6)      Nella traduzione bisognerà che sia chiaro qual è il soggetto di questo verbo.
7)      Sottinteso un verbo, del tipo “finirà”, “sarà ucciso”.
 
Traduzione
 
Romolo e Remo furono colti dal desiderio (lett. la costruzione è attiva: il desiderio colse Romolo e Remo) di fondare una città in quei luoghi in cui (lett.: dove) erano stati abbandonati ed allevati. Poiché erano gemelli e il rispetto dovuto all’età (lett.: il rispetto dell’età) non poteva fare la differenza, affinché gli dei, sotto la tutela (lett.: alla tutela) dei quali erano quei luoghi, scegliessero (legerent) con degli auspici chi dovesse dare (lett.: chi desse) il nome alla nuova città, chi la dovesse governare (regeret imperio) una volta fondata, scelgono Romolo il Palatino e Remo l’Aventino come luoghi sacri (templa è predicativo dell'oggetto) per prendere gli auspici. Si tramanda che l’auspicio giungesse a Remo per primo, sei avvoltoi; e poiché, dopo che l’auspicio era già stato annunciato, un numero doppio di uccelli apparve (lett.: si mostrò)  a Romolo, i rispettivi seguaci (lett.: la propria moltitudine) avevano acclamato l’uno e l’altro come re: quelli (cioè, i seguaci di Remo) per il tempo anticipato, ma questi (cioè, i seguaci di Romolo) per il numero di uccelli rivendicavano il regno. Quindi, dopo essersi scontrati a parole (lett.: con un litigio), impugnano le armi (lett.: si volgono all’uccisione); allora, colpito tra la folla, Remo cadde. E’ fama più diffusa che Remo abbia attraversato con un salto (transiluisse) le nuove mura per scherno del fratello; quindi fu ucciso (interfectum, sottinteso esse) dall’irato Romolo, dopo che (quest’ultimo), insultandolo anche a parole, ebbe aggiunto: “Così in futuro (finirà) chiunque altro attraverserà le mie mura”
 

Traduzione da Cornelio Nepote (Hannibal, XII)


Morte di Annibale
 
I Romani sono venuti a sapere che il loro grande nemico, Annibale, è ospitato da Prusia, re di Bitinia. Dunque, si presentano da quest’ultimo e gli chiedono la consegna di Annibale. Prusia, per quanto di mala voglia, non può rifiutare (è un piccolo re, mentre Roma è una superpotenza), quindi indica ai Romani dove si trova il cartaginese.
 
Hannibal uno loco se tenebat, in castello quod ei a rege datum erat muneri, idque sic aedificaverat, ut in omnibus partibus aedificii exitus haberet, scilicet verens (1) ne eveniret quod accidit. Huc cum legati Romanorum venissent ac multitudine armatorum domum eius circumdedissent, puer (2) ab ianua prospiciens Hannibali dixit plures praeter consuetudinem armatos apparere. Qui (3) imperavit ei ut omnes fores aedificii circumiret ac propere sibi nuntiaret, num eodem modo undique obsideretur (4). Puer cum celeriter, quid vidisset (5), renuntiasset omnesque exitus occupatos ostendisset, sensit Hannibal id non fortuito factum, sed se peti (6) neque sibi diutius vitam esse retinendam. Quam (7) ne alieno arbitrio dimitteret, memor pristinarum virtutum, venenum, quod semper secum habere consueverat, sumpsit.
 
Cornelio Nepote, Hannibal, XII
 
NOTE
 
1)      E’ un verbo che significa “temere”, dunque regge la costruzione tipica dei verba timendi.
2)      Puer = schiavo
3)      Nesso relativo.
4)      E’ retto da num, che è una particella interrogativa (dunque, la proposizione è una interrogativa indiretta).
5)      E’ retto da quid, che è un pronome interrogativo (dunque, la proposizione è una interrogativa indiretta).
6)      Petere = cercare, prendere di mira.
7)      Nesso relativo.
 
 
Traduzione
 
 
Annibale risiedeva in un solo (questo è il significato di unus, non il semplice articolo "un") luogo, in un castello (lett.: luogo fortificato) che gli (ei) era stato dato in dono (muneri; insieme ad ei forma la costruzione detta del doppio dativo) dal re, e lo aveva disposto (lett.: costruito) in modo tale che aveva (ma anche: avesse) uscite in ogni parte dell’edificio, evidentemente temendo che succedesse quello che (poi) successe. Essendo giunti qui gli ambasciatori romani ed avendo circondato la sua casa con una moltitudine di armati, uno schiavo guardando dalla porta, disse ad Annibale che si vedevano più armati del solito (lett.: apparivano parecchi armati, oltre la consuetudine). Costui (cioè, Annibale) gli (cioè, allo schiavo) comandò di ispezionare (o che ispezionasse, ma non affinché, perché è una completiva, non una finale) tutte le porte dell’edificio e di riferirgli immediatamente se era assediato allo stesso modo da ogni parte. Dopo che (ma anche: poiché) lo schiavo gli ebbe riferito celermente che cosa aveva visto e gli ebbe spiegato che tutte le uscite erano (state) bloccate, Annibale capì che questo non succedeva per caso (lett.: non era stato fatto casualmente), ma che cercavano lui (lett.: lui era cercato) e che la sua vita era ormai alla fine (lett.: che non doveva conservare più a lungo la vita). (Allora), per non affidarla all’arbitrio altrui, memore dell’antico valore (lett. è plurale), bevve il veleno che era solito tenere sempre con sé. 
 
 
 
 
 

 

Livio: la vita e l'opera


Livio, ovvero un repubblicano alla corte di Augusto


 

Secondo il Chronicon  di Gerolamo (IV sec. d. C.), nacque a Padova nel 59 a. C. e sempre a Padova morì nel 17 d. C.. A Roma godette dell’amicizia di Augusto (anche se in un libro andato perduto aveva evidentemente esaltato Pompeo - vale a dire, l’ultimo difensore della libertà repubblicana, e delle prerogative del senato - se è vero che il principe lo chiamava affettuosamente “pompeianus [1]). Da Seneca sappiamo che scrisse anche dialoghi filosofici. Dal 27[2] fino alla morte si dedicò alla monumentale opera storica, Ab urbe condita libri (o Annales, o Historiae ): 142 libri[3], dalla venuta di Enea nel Lazio alla morte di Druso in Germania nel 9 a. C.

Di tanta mole, ci restano solo 35 libri[4]: I-X (dalle origini alla terza guerra sannitica, e precisamente al 293 a. C.); XXI-XLV (dagli inizi della seconda guerra punica, nel 219 a. C., alla vittoria di Paolo Emilio nella terza guerra macedonica, nel 167 a. C.). Pochi i frammenti delle parti perdute, i cui argomenti però conosciamo grazie alle perìochae, ovvero a dei sommari (epitomi, riassunti) composti da un ignoto professore del IV sec. d. C. ad uso della scuola.

Lo schema è quello tradizionale della storiografia annalistica (si narra la storia anno per anno, cominciando con il nome dei consoli e dei pretori). Livio non conduce ricerche d’archivio, né propone una discussione delle fonti: per lui la storia non è una disciplina scientifica (come la intendiamo noi moderni), ma opus oratorium, in cui si fa uso degli artifici retorici e ci si propone un insegnamento morale (nella fattispecie, si insegna che la grandezza di Roma è stata raggiunta grazie alla virtus del suo popolo[5]; quella virtus, fondata sul mos maiorum, che ora si rischia di perdere a causa della cupidigia trionfante).

Le fonti sono gli antichi annalisti (Fabio Pittore e Cincio Alimento; o i più tardi Valerio Anziate e Claudio Quadrigario) per la prima decade; Celio Antipatro[6] e Polibio per la terza decade, Polibio per il resto (ovvero per le guerre d’oriente).

Il confronto con Polibio (unica fonte per noi disponibile) è illuminante: laddove il greco era attento alla valutazione delle cause politiche e sociali, distaccato dagli avvenimenti, obiettivo, Livio seleziona i fatti, e li amplifica, alla luce della sua concezione patriottica e provvidenziale della storia[7]. Tale concezione ha per protagonista il popolo romano, quasi popolo eletto, nella prima decade, e poi, via via, prendono corpo i grandi personaggi, quali Scipione l’Africano, nei quali si incarna la virtus  romana.

Racconta le imprese, ma anche i sogni e i prodigi: non perché (così lo spiega in XLIII, 13, 1-2) non sappia, nella smaliziata e scettica età in cui vive, che queste cose sono poco credibili (Non sum nescius ab eadem neglegentia, qua nihil deos portendere vulgo nunc credant, neque nuntiari admodum ulla prodigia in publicum neque in annales referri), ma perché - dice lui stesso - narrando la storia antica, si immerge in quell’atmosfera e ritiene doveroso riferire quei prodigi e quegli eventi soprannaturali in cui credettero gli uomini di allora (Ceterum et mihi vetustas res scribenti nescio quo pacto antiquus fit animus, et quaedam religio tenet, quae illi prudentissimi viri publice suscipienda censuerint, ea pro indignis habere quae in meos annales referam”; e dunque quei sogni e prodigi vanno riportati perché, in quanto agirono sui protagonisti, agirono sulla storia[8].

La concezione provvidenziale lo accomuna a Virgilio (le parole che Romolo, dopo la sua morte, rivolge a Giunio Proculo, ricordano quelle di Anchise ad Enea[9]), ma di questi non condivide la celebrazione della pax Augusti e del principato come acme della fortuna di Roma (anche se, ovviamente l’opera di Augusto è apprezzata, sia perché ha posto fine alle guerre civili, sia perché si propone di restaurare gli antichi valori).

 

 




[1]Ce lo dice Tacito: Pompeium tantis laudibus tulit ut pompeianum eum Augustus appellaret (Annales, IV, 34, 3).
[2]Lo si capisce da un passo della sua opera (I, 19, 3), dove si accenna ad Ottaviano con il nome di Augusto (accordatogli dal senato nel 27).
[3]Probabilmente venivano pubblicati a gruppi di dieci (decadi) o di cinque (pentadi): lo si arguisce dal fatto che ci sono delle prefazioni, all’inizio del VI libro, del XXI e del XXXI.
[4]Si deve pensare che fosse difficile contenere un’opera così grande nelle biblioteche (ce lo attesta Marziale: Livius ingens, quem mea non totum bibliotheca capit, 14, 190-191) e troppo impegnativo ricopiarla.
[5]E dunque, in nome di tale grandezza, è legittimo riportare, le origini leggendarie e divine che il popolo romano si attribuisce (senza accettarle né respingerle, come si dice nel proemio).
[6]Alla fine del II sec. a. C. aveva scritto una monografia sulla seconda guerra punica (di cui ci restano pochi frammenti).
[7]Si può vedere, come esempio, l’episodio della conquista di Cartagéna, in Spagna, da parte di Scipione, il futuro Africano, nel 209: Livio è evidentemente attento ad allontanare dal suo eroe l’accusa di crudeltà (XXVI, 46, 7-10).
[8]Memorabile il racconto della sconfitta del Trasimeno: Flaminio viene sconfitto non per errori tecnici nella conduzione della battaglia (come è per Polibio), ma per empietà verso gli dei, per aver trascurato i riti; e dopo di ciò Fabio Massimo richiamerà il senato alla pietas (XXII, 9, 7-8).
[9]“Abi, nuntia Romanis caelestes ita velle, ut mea Roma caput orbis terrarum sit; proinde rem militarem colant sciantque et ita posteris tradant nullas opes humanas armis Romanis resistere posse” (I, 16, 7).

martedì 28 aprile 2015

Traduzione da Livio (Ab urbe condita, V, 46)


Un episodio singolare durante l’occupazione dei Galli
I Galli avevano occupato Roma (390 a. C.) e i Romani resistevano assediati sul Campidoglio, quando si verificò l’episodio che qui si narra
Romae plerumque obsidio segnis et utrimque silentium erat, ad id tantum intentis Gallis ne quis hostium evadere inter stationes posset, cum repente iuvenis Romanus admiratione in se cives hostesque convertit. Sacrificium erat statum in Quirinali colle genti Fabiae (1). Ad id faciendum C. Fabius Dorso (2), sacra manibus gerens, cum de Capitolio descendisset, per medias hostium stationes egressus, in Quirinalem collem pervenit; ibique omnibus sollemniter peractis, eadem revertit via similiter constanti vultu graduque, satis sperans propitios esse deos, quorum cultum ne mortis quidem metu prohibitus deseruisset (3); denique in Capitolium ad suos rediit, seu attonitis Gallis miraculo audaciae seu religione etiam motis, cuius haudquaquam neglegens gens est.
Livio, Ab urbe condita (V, 46)
 
NOTE
1) Genti Fabiae è dativo d'agente. La cerimonia religiosa, di cui si parla, era stata istituita dal pontefice Fabio.

2) Dorso, Dorsonis = Dorsone, nome di persona.

3) E' un congiuntivo obliquo.
 
Traduzione
A Roma l'assedio era per lo più fiacco e c'era silenzio da entrambe le parti, essendo i Galli attenti (ablativo assoluto) soltanto a ciò, (cioè) che (la proposizione che segue è una completiva, che spiega quell' id che precede)  nessuno dei nemici potesse fuggire (passando) fra le postazioni di guardia, quando improvvisamente un giovane romano attirò su di sè (l'attenzione di) concittadini e nemici per l'ammirazione (o anche, per la meraviglia). Un sacrificio era stato istituito sul colle Quirinale dalla gente Fabia. Per compierlo (il sacrificio), C. Fabio Dorsone, portando in mano le cose sacre (cioè, paramenti, strumenti per compiere il sacrificio), essendo sceso dal Campidoglio, dopo essere passato in mezzo alle postazioni dei nemici, giunse sul colle Quirinale; e dopo avere lì compiuto ogni cosa (rito) solennemente, tornò per la stessa strada con passo e volto sempre uguali (lett.: ugualmente costanti, cioè, con volto impassibile e senza accelerare o rallentare il passo), sperando con qualche ragione (lett.: sufficientemente) che (gli) fossero propizi gli dei, il culto dei quali non aveva abbandonato neppure trattenuto dalla paura della morte; infine tornò dai suoi sul Campidoglio, sia che i Galli fossero attoniti per il miracolo di audacia, sia anche che fossero commossi (colpiti) dallo spirito religioso (lett., ablativo assoluto: sia essendo i Galli attoniti..., sia essendo commossi...), a cui quel popolo è particolarmente sensibile (lett.: nei confronti del quale è gente nient'affatto indifferente).
 

Traduzione da Livio (Ab urbe condita, I, 57)


L’onestà di Lucrezia e la bassezza di Sesto Tarquinio
Forte potantibus his (1) apud Sex. Tarquinium, ubi et Collatinus Tarquinius (2) cenabat, incidit de uxoribus mentio. Suam quisque laudare (3) miris modis; inde, certamine accenso, Collatinus negat verbis opus esse; paucis id quidem horis posse sciri (4) quantum ceteris praestet Lucretia sua. "Quin (5), si vigor iuventae inest, conscendimus equos invisimusque praesentes nostrarum ingenia?" Incaluerant vino; citatis equis avolant Romam. Quo cum pervenissent, pergunt Collatiam (6), ubi Lucretiam haudquaquam ut regis nurus, quas in convivio luxuque cum aequalibus viderant tempus terentes, sed nocte sera deditam lanae inter lucubrantes ancillas sedentem inveniunt. Muliebris certaminis laus penes (7) Lucretiam fuit. Adveniens vir Tarquiniique excepti (8) benigne; victor maritus comiter invitat regios iuvenes. Ibi Sex. Tarquinium mala libido Lucretiae per vim stuprandae capit: cum forma tum spectata castitas incitat.
Livio, Ab urbe condita (I, 57)
NOTE
1) Sono i giovani nobili romani all’assedio di Ardea, durante la guerra mossa dal re Tarquinio il Superbo (padre di Sesto Tarquinio).
2) Si tratta di Tarquinio Collatino, che sarà poi, proprio a seguito della vicenda qui raccontata, il promotore della rivolta popolare che porterà alla cacciata del re e all’inizio della repubblica.
3) Laudare è un infinito storico.
4) L’infinitiva è retta da un verbo sottinteso, del tipo "dicit".
5) Quin = perché non…?
6) E’ la città d’origine di Tarquinio, detto appunto "Collatino".
7) Penes = apud.
8) Sottinteso "sunt".
 
Traduzione
Trovandosi questi a bere (potantibus his, ablativo assoluto = bevendo questi) presso Sesto Tarquinio, dove cenava anche (et = etiam) Tarquinio Collatino, il discorso cadde per caso (forte = per caso) sulle mogli. Ciascuno lodava (non "lodò": l'infinito storico o descrittivo corrisponde in italiano ad un imperfetto, non ad un passato remoto) la propria in modo straordinario (lett.: plurale); quindi, infiammatasi la contesa, Collatino dice che non c’è bisogno di parole; in poche ore si può sapere questo, (cioè) di quanto la sua Lucrezia superi le altre. "Se è vero che siamo giovani e forti (lett.: se c’è vigore nella giovinezza), perché non montiamo a cavallo e andiamo a verificare di persona i comportamenti delle nostre (mogli)?" Si erano scaldati per il vino; spronati i cavalli, volano a Roma. Una volta giunti là, si dirigono a Collazia, dove trovano Lucrezia niente affatto come le nuore del re, che avevano visto passare il tempo nel banchetto e nel lusso con le loro amiche (lett.: le loro "pari", o "coetanee"; ma va bene anche il maschile), ma a tarda notte dedita a lavorare la lana (lett.: alla lana), seduta (lett.: sedente, che sedeva) fra le ancelle che vegliavano. La vittoria (lett.: la lode) della gara delle mogli (lett.: femminile) fu di Lucrezia. Il marito che giungeva e i Tarquini furono accolti benevolmente; il marito vincitore invita gentilmente i giovani reali (non "re"; sono i Tarquini, figli e i nipoti del re). Allora una malsana bramosia di stuprare Lucrezia con la forza invade Sesto Tarquinio: lo eccitano sia la bellezza sia (cum… tum = sia… sia) la provata castità.