SVEVO (schede)

Lettura de La coscienza di Zeno
 

Narratore e autore

 
Sappiamo che il narratore (Zeno stesso, che scrive la propria autobiografia, su consiglio del dottor S.) è inattendibile, che mescola verità e bugie (ce lo dice lo stesso dottor S. nella Prefazione, ma del resto sappiamo che l’inetto sveviano mente a se stesso, pur di non ammettere la propria debolezza; vieppiù lo farà il nevrotico Zeno, che porrà in atto ogni resistenza per non lasciare emergere dal passato verità scomode). E dunque tocca al lettore una faticosa opera di decifrazione (a differenza di quel che succedeva in Senilità, dove il narratore svelava, in vari modi, le menzogne del protagonista).
Ma nella Coscienza mi pare che si ponga anche il problema della distanza (dello scarto) non avvertibile fra autore e narratore (quello scarto che invece è evidente, ad esempio, in Manzoni e Verga). In altre parole, qual è il punto di vista dell’autore rispetto a quello del narratore? Non è possibile capirlo, talché il romanzo sembra essere autobiografico (malgrado quel che dice Svevo stesso in una lettera a Montale; ma Svevo ha vissuto un problema del fumo come quello di Zeno, Svevo ha espresso la stessa sfiducia di Zeno nei confronti della psicanalisi, ecc.). A questo proposito, mi pare che si possa addurre un argomento decisivo: la famosa prefazione del dottor S. (che, in quanto pre-testo, è precedente ed esterna rispetto alla narrazione di Zeno, dunque attribuibile esclusivamente all’autore) tradisce, inaspettatamente, lo stesso punto di vista di Zeno, di decisa antipatia, nei confronti dei medici. Il dottor S. è uno dei tanti medici messi alla berlina nel romanzo, ma che si ridicolizzi da solo (la pubblicazione fatta “per vendetta”, i “lauti onorari” che si prefigge di ottenere) è incredibile: l’autore si è tradito (è lui che ha inventato la finzione della prefazione), quell’antipatia è la sua, e dunque lui, almeno in questo, si identifica con Zeno. E in questa ambiguità (dove finisce l’autobiografia di Svevo e comincia l’invenzione letteraria?) risiede molto del fascino del romanzo, perché il lettore si sente sollecitato a decifrare non tanto le menzogne del narratore Zeno, quanto quelle dell’autore Svevo (come se ci fossero cose che l’autore vuole nascondere anche a se stesso: vedi con che insistenza, e buone argomentazioni, si difende dalla colpa, presunta, di aver voluto la morte del padre).
 

Il vizio del fumo

 
Alla ricerca dell’origine del vizio del fumo, Zeno risale a quando era bambino e rubava i soldi e i mezzi sigari al padre. Dapprima sembra essere un modo di gareggiare, di farsi bello, con i coetanei, poi sempre più chiaramente diventa rifiuto di obbedire sia al medico che al padre (a quest’ultimo soprattutto, che, col sigaro in bocca, lo esorta ad attenersi alle prescrizioni del medico se vuole guarire dal mal di gola). Dunque anche il fumo è una manifestazione dell’odio verso il padre, secondo il modello freudiano del complesso edipico. E questo sembra essere confermato dall’episodio della clinica in cui, già adulto e sposato, Zeno si fa rinchiudere per guarire dal vizio del fumo: l’odio (e il sentimento di rivalità) che Zeno concepisce per il dottore, bello ed elegante, è ancora una volta odio contro il padre, visto che nella sua fantasia immagina che il dottore gli sottragga la moglie (cosiccome il padre gli sottraeva la madre). Nell’occasione, di grande comicità è la vicenda della seduzione di Giovanna, l’infermiera che dovrebbe fargli da guardiana: non solo la ubriaca con del cognac, ma la convince che, se fuma una decina di sigarette, diventa incontenibile con le donne; quindi Giovanna si ritira nella sua stanza, lasciandogli la porta aperta e un pacchetto con dieci sigarette; naturalmente Zeno ne approfitterà per fuggire (non resiste alla cura della reclusione, ma anche vuole accertarsi che la moglie non lo stia tradendo con il dottore). Tornando al vizio del fumo, a ben guardare si tratta anche di altro, e cioè dell’alibi con cui Zeno può giustificare la sua incapacità di affrontare la vita (la sua inettitudine): pensa di essere inetto perché avvelenato dalla nicotina, e dunque, contro tutti i propositi, continua a fumare (altrimenti dovrebbe constatare di essere inetto a prescindere dalla nicotina). Accetta di farsi rinchiudere in clinica perché l’Olivi, l’amministratore dei suoi beni, gli ha detto che intende smettere di lavorare per ragioni di salute; ma, a parte il fallimento della terapia, Zeno è ben contento di non avere smesso di fumare, visto che l’Olivi si è ripreso (quindi lui non è costretto a dar prova delle proprie “attitudini” lavorative).
 

Il rapporto con il padre

 
La morte del padre è l’evento centrale, piscanaliticamente, perché determina un forte sentimento di colpa: Zeno si porta dietro (nel subconscio, perché al livello conscio della memoria e della scrittura difende ostinatamente la propria assoluta innocenza e buona fede) il pensiero di aver desiderato la morte del padre, ed odia il dottor Coprosich perché costui, nell’episodio delle mignatte, lo ha “smascherato”, rimproverandolo di non volere il prolungamento della vita del padre. Ed è una colpa fortemente rilevata, in conclusione, dall’episodio dello schiaffo, che Zeno sente come una meritata e terribile punizione (in obbedienza agli ordini del medico, Zeno non vuole che il padre si alzi dal letto; lo trattiene con una mano, ma il padre si alza lo stesso e, trovandosi davanti il figlio che gli toglie l’aria e la luce, alza il braccio forse solo per scansarlo; ma il braccio ricade pesantemente sulla guancia del figlio e sembra uno schiaffo intenzionale).
Ma più che sulla morte, l’accento va messo sul motivo della incomprensione fra padre e figlio, incomprensione che si manifesta in varie occasioni, particolarmente in quella della cena la sera precedente l’entrata in coma. La morte chiude definitivamente la possibilità di sanare quella incomprensione, quella mancanza di comunicazione. Il padre vorrebbe il figlio forte e sicuro, costui si rivela invece debole e insicuro (inetto, lo dimostrano i continui cambiamenti di facoltà universitaria); pensa che il figlio sia “pazzo”, perché non sa prendere sul serio le cose concrete della vita, e costui, con poca serietà, gli porta un certificato medico di sanità mentale; il padre ha pensieri sulla morte e sul dopo, chiede un parere al figlio, e questi gli paragona la morte al piacere sessuale; il padre, infine, pensa al conforto della religione, e cerca l’appoggio del figlio, ma questi gli dice che per lui la religione è solo un oggetto di studio. La sera che precede la catastrofe, il padre vorrebbe dire al figlio una parola decisiva, ma quella parola non gli viene e non gli verrà mai più: resta dunque un non detto fra di loro, un fallimento di comunicazione. E’ questa la vera colpa che Zeno sente, e la volontà di espiarla si rivela alla fine, laddove ammette di essere tornato alla religione (intesa come pratica interiore e non pubblica), di far pregare per il padre e di pregare anche lui qualche volta (adesso, ma è troppo tardi, potrebbe intendersi con il padre).
 

Un secondo padre

 
L’idea del matrimonio è associata all’idea di un rinnovamento, di una svolta, quindi di una guarigione. Di fatto, non è altro che un modo per diventare figlio di colui che Zeno ha scelto come nuovo padre, cioè Giovanni Malfenti, commerciante di poca cultura ma di grande determinazione, della specie dei lottatori, della specie insomma che Svevo ammira e a cui vorrebbe appartenere. Ma in maniera contraddittoria, perché il vecchio Malfenti è anche il solito rivale dell’inetto, invidiato e odiato, il rivale che deride l’inetto con argomenti simili a quelli usati da Macario in Una vita (“Conosce i classici a mente. Sa chi ha detto questo e chi ha detto quello. Non sa però leggere un giornale!”). L’odio si manifesta, ad esempio, nell’episodio del pranzo in onore degli sposi Guido e Ada, quando Zeno, con scandalo generale, sfida il suocero (cui il medico ha impedito rigorosamente di bere) a vuotare il bicchiere che gli ha riempito (anche se è vero che Zeno era stato provocato dal suocero, che gli aveva dato del maiale perché beveva e mangiava senza ritegno). Ma nell’ultimo capitolo ci verrà detto che lo stesso psicanalista ha visto nel vecchio Malfenti un secondo padre per Zeno, talché quest’ultimo ha cercato di “sfregiarne” la casa (cercando di sedurne le figlie e tradendo la figlia sposata).
 

Zeno fra Ada e Augusta

 
La fanciulla scelta per il matrimonio, Ada, non è solo quella ritenuta più bella fra le figlie di Malfenti, ma anche quella che sembra somigliare di più al padre. Questo è il punto di partenza, ma il desiderio di avere Ada diventa sempre più forte man mano che Zeno si accorge che la ragazza non ne vuol sapere di lui (se ne accorge, anche se mette in atto una serie di autoinganni per nasconderselo, dilaziona continuamente il proposito di dichiararsi, perché ha paura della verità). Del resto in quel salotto tutti si accorgono della sua inettitudine (le gaffes sono continue, anche se solo la piccola Anna ha il coraggio innocente di dargli ripetutamente del pazzo), e la mamma Malfenti ne approfitta per indurlo a chiedere la mano della maggiore, e più brutta, delle figlie, Augusta, proprio quella che Zeno aveva escluso di poter scegliere sin dal primo incontro. E così succederà quando Zeno (prima addolorato perché invitato dalla madre a frequentare di meno il salotto Malfenti, in quanto sta “compromettendo” Augusta, poi umiliato da Guido Speier che in quel salotto miete successi di simpatia, soprattutto in quanto abilissimo a suonare il violino, ed è chiaramente prediletto da Ada) chiederà la mano di Ada; rifiutato, ci proverà con la diciassettenne Alberta; quindi, terrorizzato dall’idea di non poter più frequentare quel salotto, si butta su Augusta; costei, che pure sa del suo amore per Ada (Zeno le si era dichiarato al buio, pensando che fosse Ada, la sera in cui Guido aveva organizzato una seduta spiritica), accetta e la vicenda si conclude secondo quelli che erano, sin dall’inizio, i progetti della signora Malfenti.
 

Le diagnosi sulla malattia

 
Guardarsi vivere (riflettere sulla vita, invece di vivere abolendo il pensiero sulla vita) paralizza. Emblematico l’episodio dell’incontro con Tullio, in cui questi, malato di reumatismi, spiega a Zeno che per fare un singolo passo in mettono in moto ben cinquantaquattro muscoli. Allora Zeno comincia a zoppicare, perché, pensando alla “macchina mostruosa” che si mette in moto, non riesce più a camminare; pensare al meccanismo che consente l’atto del camminare, invece di lasciare che l’atto fluisca naturalmente, inibisce l’atto stesso (dopo di allora, lo zoppicamento diventa il sintomo fisico della sua nevrosi, la somatizzazione del disagio: zoppicherà tutte le volte che si sentirà umiliato e sconfitto, in particolare da Guido nel suo rapporto con Ada). Ma ancora più chiara è la riflessione che Zeno fa sulla propria incapacità di suonare il violino. Dice che in lui le note, invece di succedersi distinguendosi l’una dall’altra, si “appiccicano” in modo che la precedente “sforma” la successiva; e questo è il segno della sua malattia, talché imparare a suonare equivale a guarire. Nella vita, significherà che il passato si appiccica al presente, impedendogli di fluire liberamente.
 

Il trattamento del tempo

 
E’ evidente l’adozione del cosiddetto “tempo misto”, sia perché più volte c’è il ritorno al presente del narratore che valuta i comportamenti passati, sia perché ci sono riferimenti a tempi passati rispetto allo stesso passato di cui si narra (ad esempio, quando Zeno racconta di una donna corteggiata precedentemente all’ingresso in casa Malfenti, ed è un racconto che arriva fino al presente, perché Zeno dice di averla incontrata ed avere parlato con lei recentemente; o quando racconta alle ragazze Malfenti le storie di “scapigliatura studentesca”, cioè del proprio passato di studente universitario) ed a tempi intermedi fra il passato di cui si narra e il presente (ad esempio, sempre a proposito delle proprie avventure goliardiche, dice di avere saputo successivamente da Augusta che nessuna delle sorelle le aveva ritenute vere). Ma, di più, è lo stesso Zeno che riflette sulla nozione di tempo. Dice, ancora in merito alle storie di “scapigliatura studentesca” che raccontava alle sorelle Malfenti (episodio dunque esemplare), di non sapere nemmeno lui quale e quanta fosse la verità e quale e quanta la menzogna, perché le ha raccontate altre volte e ormai anche a lui sembrano più vere che false. Dice inoltre che per lui il tempo avrebbe ripreso a camminare regolarmente solo quando avesse avuto una risposta chiara da Ada: prima di allora, il tempo è angosciante attesa, non passa mai, è deformato (dunque non è un’entità oggettivamente misurabile, ma è un vissuto soggettivamente nella coscienza, come per Bergson).
 

La salute di Augusta

 
Augusta, la donna non voluta, si rivela poi un’ottima moglie, la moglie “sana” che può finalmente mettere ordine nella vita di Zeno, guarire la sua malattia. Senonché, quella salute, analizzata, si “converte in malattia”: sia perché, come sappiamo, la salute è un vivere immediato, senza riflessione, ed ogni riflessione, in quanto diventa un “guardarsi vivere”, inibisce la naturalezza della vita; sia perché quella salute si fonda su sicurezze superficiali, sull’accettazione a-critica delle tradizioni, delle convenzioni e dell’autorità (civile, religiosa, medica: si indossa l’abito da casa e quello da passeggio, si va alla messa la domenica, ci si fida della scienza dei medici, ecc.): tutte cose che invece rendono problematica la vita dell’inetto, portatore, dunque, di una coscienza critica superiore.
 

L’adulterio

 
L’adulterio è perseguito da Zeno secondo una logica simile a quella dell’ultima sigaretta. Carla gli piace, ma non la stima, la maltratta, ha sempre il sospetto che lo faccia per denaro (anche se, con uno dei tipici giudizi dati a posteriori dal narratore, riconosce che la ragazza era fondamentalmente onesta e sincera con lui). Vive il rapporto con grandi sensi di colpa, sempre, dall’inizio alla fine, ha sempre in mente il proposito di chiudere e in tasca la busta con i soldi per liquidarla. Ma ogni volta si vuole godere il piacere dell’ultimo amplesso (cosiccome si gode il piacere dell’ultima sigaretta; analogamente, in un certo giorno, ha scritto sul vocabolario alla lettera C “ultimo tradimento”), dopo di che sente la repulsione e il pentimento, ciò che gli consente di ritornare a casa sereno, rigenerato dal proposito di essere un marito fedele. Ma il giorno dopo siamo daccapo, al punto che, quando è proprio Carla a chiudere il rapporto (commossa alla vista della bella e triste moglie di Zeno, che peraltro le ha indicato Ada e non Augusta, decide di accettare la proposta di matrimonio del maestro di canto), Zeno si ostina a volere un ultimo incontro, che, ovviamente, non sarebbe mai l’ultimo. 
 

La società con Guido

 
E’ il capitolo della rivincita. Zeno si affanna a spiegare, in tutte le occasioni in cui il suo comportamento poteva sembrare colpevole, che lui ha sempre voluto bene a Guido e che lo ha sempre consigliato per il meglio. Anzitutto fa notare che lui non aveva responsabilità nell’azienda, aiutava Guido come contabile per puro affetto, senza compenso, dunque tutti gli errori furono colpa esclusiva di Guido. Poi, in occasione del disastroso acquisto di sessanta tonnellate di solfato di rame, dice di essere stato assente dall’ufficio e quindi di non avere visto la lettera con cui gli inglesi concedevano la possibilità di revocare l’ordine. Quando chiude il bilancio di fine anno e scopre la gravità della situazione, dà il consiglio giusto (chiudere l’azienda e magari riaprirla “su nuove basi”), ma Guido vuole fare di testa sua (e infatti la sua iniziativa sarà quella di convincere Ada, tramite un finto suicidio, a prestargli parte della somma perduta). Consiglia Guido di prendere come direttore il giovane Olivi, ma Guido rifiuta sdegnato. Quando Guido comincia a giocare in borsa, lui era l’unico a sconsigliarlo, mentre la famiglia lo appoggiava. E quando si arriva alla catastrofe della perdita in borsa, è lui che mette a disposizione di Guido un quarto della somma, ma sono le Malfenti (Ada e la madre) che non vogliono sostenerlo (può fallire senza andare in prigione, secondo la loro morale borghese). Ma tutto questo non vale niente, se è vero che Ada lo smaschera quando Zeno la va a trovare dopo la mancata partecipazione al funerale di Guido (ha seguito un funerale sbagliato): “Tu non gli hai mai voluto bene”, gli dice con durezza, quando lui si aspetterebbe complimenti e ringraziamenti, perché, giocando in borsa, ha ridotto di tre quarti la perdita di Guido.
Del resto, Zeno continua anche a negare di provare ancora amore per Ada, che, malatasi del morbo di Basedow, ha perso la sua bellezza; ma continua a cercare i suoi elogi, vuole apparire ai suoi occhi migliore di Guido, anzi, tutto quello che fa ha questo fine (fine, peraltro, apparentemente raggiunto: “sei il migliore uomo della famiglia”, gli dice Ada quando gli chiede di vigilare su Guido, dopo il primo tentativo di suicidio). A proposito del morbo di Basedow, Zeno dichiara di averlo studiato e di avere scoperto il segreto della vita: tutti gli organismi si distribuiscono su una linea che ha ad una estremità il morbo suddetto (è una malattia della tiroide che provoca il cosiddetto “gozzo”, una sporgenza del globo oculare ed un aumento notevole delle pulsazioni cardiache), che implica una vitalità eccessiva, un consumo sfrenato di energia; all’altra estremità stanno gli organismi apatici, poveri di vitalità (una malattia che si manifesta con l’edema); in mezzo dovrebbe starci la salute, in realtà il mezzo è soltanto un punto di passaggio, perché si va o verso il gozzo o verso l’edema. Tali considerazioni ricordano chiaramente la teoria espressa nel racconto Lo specifico del dottor Menghi.
Tornando al rapporto con Guido, certo è che l’inetto ha qui la sua rivincita, visto che sia nella vita privata, dei rapporti famigliari, che in quella lavorativa, degli affari, è il rivale a soccombere. Ma come per la scelta di Augusta (che, non voluta da Zeno, si rivela poi un’ottima moglie), così per il successo commerciale si può dire che non è lui che determina la realtà, ma è la realtà che gira a suo favore. Gioca in borsa (contrariamente a quello che suggeriva a Guido) e vince, ma non per particolare accortezza, ma perché segue i consigli del Filini (proprio quello che aveva indicato come il cattivo consigliere di Guido) e ha fortuna.. Ma infine, che Guido non fosse del tutto un incapace e che Zeno ci abbia nascosto qualcosa, lo si capisce nel capitolo successivo, quando ci viene detto che il dottore ha scoperto che esisteva un “grandioso deposito di legnami” di proprietà di Guido. Dunque c’era un magazzino (sulla cui assenza Zeno aveva ironizzato) e c’erano degli acquisti ben fatti (risibile il modo in cui Zeno giustifica il suo silenzio: chi deve scrivere in italiano, avendo più familiarità con il dialetto, è portato a trascurare episodi che richiedono conoscenza di terminologie specifiche: nella fattispecie, dei diversi tipi di legname)
 

I dottori

 
Sulle figure dei medici si appunta particolarmente l’ironia del narratore. E’ un topos letterario (dal Malato immaginario al Mastro don Gesualdo), ma nel caso della Coscienza bisognerà pensare ad un altro travestimento della figura paterna. E dunque, il dottor S. è quell’inattendibile psicanalista che pubblica per vendetta e pensa ai guadagni (v. la Prefazione; ma in questo caso, come s’è visto, l’ironia è dell’autore che, almeno per questo aspetto, non si distingue dal narratore). Il dottor Coprosich (sbeffeggiato già nel nome: dovrebbe lavarsi ben altro che il viso e le mani, diceva Joyce) è il saccente che rimprovera Zeno di volere la morte del padre, inculcandogli un complesso di colpa perenne. Il dottor Muli (il proprietario della clinica dove Zeno dovrebbe essere richiuso per guarire dal vizio del fumo) è troppo bello ed elegante (“la venere dei medici”) per essere professionalmente credibile. Il dottor Mali (forse anche lui sbeffeggiato nel nome) è quello che, quando è chiamato con urgenza dalla fantesca per Guido moribondo, depreca di essere medico e di dovere uscire anche con la pioggia; quando poi sa che Guido ha già simulato un suicidio, non si premura certo di tornare a casa a prendere gli strumenti per una lavanda gastrica, ma rassicura Ada e se ne va. Invece il dottor Paoli, dall’occhio indagatore, fa prognosi sempre attenuate dal dubbio, cosicché non può sbagliare (a pochi giorni dalla morte del vecchio Malfenti, tranquillizza gli sposi Ada e Guido che devono mettersi in viaggio, assicurando che il malato starà meglio, “salvo complicazioni imprevedibili”).
 
I sogni
 
I sogni del protagonista-narratore sono ricorrenti e sono quasi sempre interpretabili in chiave edipica. Si comincia con quello che Zeno, come racconta nel preambolo, per adeguarsi al metodo psicanalitico, fa nel dormiveglia con tanto di matita in mano (ed è già ridicola la pretesa di forzare e controllare il sogno in questo modo): vede una locomotiva che sbuffa in salita e poi un “fantolino” che dovrebbe essere lui stesso bambino (ma più probabilmente, come suggerisce il narratore stesso che manifesta così sfiducia nella psicanalisi, è il figlio appena nato della cognata, che Zeno, con sottile ironia, compiange perché indifendibile da un futuro nevrotico che si determina già nella culla, e poi perché imparentato con  certe “persone ch’io conosco”).
Quando poi narra della morte del padre, racconta di un sogno, fatto nel presente, in cui pretendeva gridando che fossero applicate le mignatte al padre, mentre il dottor Coprosich si rifiutava (il sogno è rivelatore del persistere del complesso di colpa, e dunque anche della menzogna di Zeno che dichiara che ormai non prova alcun rimorso e guarda alla traumatica vicenda con superiore distacco).
Ricorda quindi un sogno fatto al tempo della relazione con Carla: aveva sognato di mangiarle il collo, senza però provocarle dolore; ne soffriva invece Augusta, e Zeno, per tranquillizzarla, le offriva un po’ di quel collo (sembra espressione del desiderio di conservare ambedue le donne, in armonia, eliminando la contraddizione).
C’è poi il sogno fatto quando Ada si era ammalata del morbo di Basedow: lui, Augusta ed Ada (ancora bella) guardavano da una finestra e vedevano un vecchio “timoroso e minaccioso” con la chioma bianca e un mantello stracciato (Basedow, appunto) che fuggiva inseguito dalla folla urlante; quindi si trovava su una scala con Ada (ora imbruttita dalla malattia) che lo invitava a precederlo mentre scendeva; in alto si apriva una botola e si intravedeva il vecchio Basedow, al che Zeno cominciava a fuggire (Basedow sembra dunque essere il padre-rivale che gli sottrae la donna amata; del resto l’associazione con il padre è data non solo dall’aspetto, ma anche da quel suo essere impaurito e minaccioso, come è appunto il vecchio padre nel ricordo di Zeno).
Infine, nel capitolo Psicanalisi, il narratore racconta, con lo scetticismo che lo caratterizza nei confronti della terapia, di sogni o visioni avute su sollecitazione del dottor S.: rivede se stesso bambino, che deve andare a scuola mentre il fratello più piccolo può restare a casa (quindi godere dell’amore della madre); poi vede se stesso in una stanza luminosa, beve caffelatte da una tazza, quindi cerca di prenderne fuori lo zucchero con un cucchiaino, ma non ci riesce; anche il fratellino sta bevendo caffelatte, ma non ha il cucchiaino, quindi lo chiede a Zeno che dice di darglielo in cambio del suo zucchero; arriva Catina (la governante) e lo rimprovera aspramente dandogli dello strozzino (la tazza e il cucchiaino sono elementi tipici della simbologia onirica: il cucchiaio rappresenta la virilità, che però non gli consente di possedere la madre o Ada; e quindi rifiutare lo strumento al fratello – o al padre o a Guido – vuol dire desiderarne la castrazione); quindi vede ancora se stesso bambino che sogna una gabbia ben chiusa sul tetto della casa; il bambino è felice perché sa che quella gabbia giungerà a lui; in essa c’è una donna vestita di nero, bionda e con gli occhi azzurri; il bambino sogna di possederla, ma mangiandone pezzettini (ricorda il sogno in cui mangiava il collo di Carla; qui Zeno sogna l’incesto).
 

Psico-analisi, ovvero l’ultimo capitolo

 
Il manoscritto autobiografico è stato consegnato allo psicanalista, ora la narrazione diventa diaristica, sono riflessioni (sulla psicanalisi, sulla malattia, sulla società) fatte nel presente dei giorni che precedono l’entrata in guerra dell’Italia. E’ il capitolo in cui, proprio laddove Zeno esprime tutta la sua diffidenza nei confronti del medico e della terapia (dichiara di avere abbandonato la cura), vengono svelati i significati nascosti (anche se, ovviamente, da Zeno derisi) di ricordi, sogni, eventi. Soprattutto, qui si dà atto di una pratica psicanalitica più ortodossa, perché, su sollecitazione del dottore, vengono rievocati ricordi della lontana infanzia (la rivalità col fratello minore, che può restare a casa quando Zeno deve andare a scuola; ma anche sogni che dimostrano il desiderio di possedere la madre). Si tratta quindi, anzitutto, del complesso di Edipo, e quindi Coprosich aveva avuto ragione, lo schiaffo era meritato, anche il vecchio Malfenti era stato odiato, in quanto sostituto del padre (e quindi Zeno aveva “sfregiato” la sua casa, tradendo la moglie e aspirando a sedurre anche Ada e Alberta) e naturalmente sempre odiato era stato Guido.
Poi la guerra travolge tutto e Zeno dichiara trionfalmente: io sono guarito, senza la psicanalisi, io sono sano e ne è prova il mio successo nel commercio. E infatti ha comprato ed accaparrato in tempo di guerra (oro, anzitutto), quando i prezzi erano bassi, facendo ottimi affari, proprio come i cosiddetti “pescecani”. Dunque la salute è integrazione in quel mondo, con quella morale spregiudicata, del successo economico, del profitto, quel mondo cui invece era estraneo lo Zeno malato. Ma infine (e qui la voce del narratore si confonde con quella dell’autore: si riprendono infatti tesi sostenute nei famosi tre saggi) malata è la vita dell’uomo che, a differenza degli animali che hanno un progresso naturale (la rondine, la talpa), ha inventato gli “ordigni” fuori di sé, gli ordigni che hanno ormai il sopravvento su di lui, impedendogli la naturalità. Da tale malattia solo la catastrofe di una “esplosione enorme che nessuno udrà” potrà liberare la terra.
 
 
Leopardi e Svevo: una diagnosi ante litteram
 

Con il titolo del suo primo romanzo – Un inetto, poi cambiato, come noto, per volontà dell’editore, in Una vita – Svevo indicava una condizione esistenziale che, a ben guardare, si rivela una efficace chiave interpretativa di tanta letteratura del Novecento, e non solo italiano. Svevo lo nomina alla fine dell’Ottocento (Una vita è del 1892), ma la figura dell’inetto attraversa, in maniera davvero caratterizzante, tutto il secolo successivo e sta ad indicare, pur nelle diverse forme in cui si presenta, un tipo umano estraneo – appunto, incapace di adattarsi – alla concretezza pragmatica e all’efficienza produttiva della moderna società industriale. Dunque un anti-eroe, i cui precedenti sono senz’altro riconoscibili in certi personaggi del grande romanzo russo dell’Ottocento: in Oblomov, ad esempio, ma anche – e citeremo due autori notoriamente cari a Svevo – nell’"uomo del sottosuolo" di Dostoevskji e nell’"uomo superfluo" di Turgenev. E certo, in questa galleria ideale non può mancare l’albatro che Baudelaire ha cantato in una delle più celebri Fleurs du mal: quel grande uccello marino, re dell’azzurro e principe dei nembi, che, simile al poeta esiliato sulla terra, impacciato dalle sue ali di gigante, appare goffo e ridicolo sulla tolda della nave dove i marinai ne fanno oggetto di scherno, ha connotati che lo rendono dell’inetto sveviano l’antenato più illustre e credibile.

Ma se non è sorprendente incrociare, in questa breve ricognizione, un maestro riconosciuto, quale Baudelaire, del Novecento letterario, più sorprendente sarà, risalendo a ritroso, scoprire che già Leopardi aveva individuato la specificità di quella condizione umana e ne aveva effettuato una diagnosi quanto mai precisa. Più sorprendente, ma solo per chi non sappia riconoscere a quel pensatore poetante la straordinaria capacità di vedere, con largo anticipo di tempo, temi e problemi che diventeranno attuali più di un secolo dopo.

 

I. Leopardi: l’anima

 
Nel Dialogo della Natura e di un’Anima Leopardi ribadisce quell’associazione fra grandezza e infelicità, già enunciata nello Zibaldone (1) e rintracciabile in altre Operette morali (2): quanto più l’individuo è dotato di intelligenza e sensibilità (quanto più si eleva sopra il torpore degli "animali bruti"), tanto più è destinato all’infelicità, giacché più intensamente avverte la distanza incolmabile fra il desiderio del piacere (proprio di ogni uomo) e la miseria della realtà. Ma più interessante, in questa Operetta, è lo sviluppo del ragionamento per cui, dalle suddette premesse, la Natura giunge ad indicare per l’anima grande alcune conseguenze sul piano pratico della vita quotidiana:

 
Gli animali bruti usano agevolmente ai fini che eglino si propongono ogni loro facoltà e forza. Ma gli uomini rarissime volte fanno ogni loro potere; impediti ordinariamente dalla ragione e dalla immaginativa; le quali creano mille dubbietà nel deliberare e mille ritegni nell’eseguire. I meno atti e meno usati a ponderare seco medesimi sono i più pronti al risolversi, e nell’operare i più efficaci. Ma le tue pari, implicate continuamente in loro stesse, e come soverchiate dalla grandezza delle proprie facoltà, e quindi impotenti di se medesime, soggiaciono il più tempo all’irresoluzione, così deliberando come operando: la quale è uno dei maggiori travagli che affliggano la vita umana. Aggiungi che, mentre per l’eccellenza delle tue disposizioni trapasserai facilmente e in poco tempo quasi tutte le altre della tua specie nelle conoscenze più gravi, e nelle discipline anco difficilissime, nondimeno ti riuscirà sempre impossibile o sommamente malagevole di apprendere o di porre in pratica moltissime cose menome in sé, ma necessarissime al conversare cogli altri uomini; le quali vedrai nello stesso tempo esercitare perfettamente ed apprendere senza fatica da mille ingegni, non solo inferiori a te, ma spregevoli in ogni modo.(3)

 
Si dice dunque che le qualità umane più alte (tali sono per Leopardi la "ragione" e l’"immaginativa") sono fonte di dubbi ed esitazioni sia nel decidere che nell’agire (creano mille dubbietà nel deliberare, e mille ritegni nell’eseguire) e quindi condannano l’individuo intelligente e sensibile ad una perpetua irresolutezza, laddove invece prontezza nel decidere e determinazione nell’agire sono proprie degli ingegni mediocri (i meno atti o meno usati a ponderare seco medesimi); e mentre tali ingegni mediocri (anzi, spregevoli in ogni modo) saranno sempre capaci di praticare con naturalezza quei comportamenti che risultano apprezzati in società (nel conversare con gli altri uomini), l’individuo di talento apparirà, al contrario, goffo ed impacciato. Insomma, il privilegio della profondità di pensiero e immaginazione si sconta con l’incapacità di decidere e, su un piano più basso, con la mancanza di disinvoltura nella vita sociale. La riflessione sulla prima di queste conseguenze ritorna con chiarezza in alcune pagine dello Zibaldone:

 
E’ cosa evidente e osservata tuttogiorno, che gli uomini di maggior talento sono i più difficili a risolversi tanto al credere quanto all’operare; i più incerti, i più barcollanti, e temporeggianti, i più tormentati da quell’eccessiva pena dell’irresoluzione: i più inclinati e soliti a lasciar le cose come stanno; i più tardi, restii, difficili a mutar nulla del presente, malgrado l’utilità o necessità conosciuta. E quanto è maggiore l’abito di riflettere, e la profondità dell’indole, tanto è maggiore la difficoltà e l’angustia di risolvere.(4)
 

Il secondo motivo, ovvero quello della incapacità "di rendersi nella conversazione tollerabili", si ritrova anche in un’altra Operetta, nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri, nella quale peraltro sembrano confluire le articolate considerazioni svolte nello Zibaldone a proposito della "invincibile timidità" di Rousseau e di altri come lui: costoro, si dice, a differenza di un’altra categoria di persone (cui è riconducibile Alfieri), non è che disprezzino le cose piccole e basse che servono per risultare piacevoli in società, ma, al contrario, vi si dedicano con un eccesso di attenzione; il che

 
togliendo loro la possibilità della disinvoltura, del riposo d’animo, della facilità, dell’abbandono, della sicurezza, della confidenza in se stessi [...] impedisce a quei rari ingegni di mai, se non imperfettissimamente, di mai, se non con grandissima difficoltà e stento, adoperare ed esercitare le qualità che nel mondo si apprezzano ed amano e premiano.(5)

 
Altrove si parla invece di un eccesso di "amor proprio", riconducibile alla "soprabbondanza della vita interna dell’anima":

 
La cagione si è l’eccesso dell’amor proprio, inseparabile dalla soprabbondanza della vita e forza dell’animo; ed insieme la vivacità dell’immaginazione [...] Sì, Rousseau e gli altri tali uomini sensibili e virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da un’invincibile e irrepugnabile timidità, anzi mauvaise honte ed erubescenza, non furono e non son tali se non per un eccesso di amor proprio e di immaginazione. Altro danno e infelicità somma della soprabbondanza della vita interna dell’anima (oltre i tanti da me altrove notati), della sensibilità, della squisitezza dell’ingegno, della natura riflessiva, immaginosa, ec.(6)

 
In conclusione:
 

[...] gli uomini di questa seconda specie, non essendo di volontà punto alieni dal conversare cogli altri [...] dolendosi nel proprio cuore della disistima in cui si veggono essere, e di parere da meno di uomini smisuratamente inferiori a sé d’ingegno e d’animo; non vengono a capo, non ostante qualunque cura e diligenza vi pongano, di addestrarsi all’uso pratico della vita, né di rendersi nella conversazione tollerabili a sé, non che altrui.(7)

  

II. Svevo: l’inetto

 
Leopardi non figura nell’elenco degli autori che Svevo, nel Profilo autobiografico, indica come significativi per la sua formazione. E tuttavia è difficile non riconoscere nelle idee sopra esposte una sorta di diagnosi ante litteram della malattia patita dai protagonisti dei romanzi dello scrittore triestino. Che si tratti della "inettitudine" di Alfonso, della "senilità" di Emilio o della "malattia" di Zeno (8), la condizione che accomuna i tre personaggi, al di là delle differenze che ovviamente esistono, sembra essere quella della inadeguatezza alla vita pratica; inadeguatezza determinata da un eccesso di pensiero (una ipertrofia della coscienza) che inibisce (paralizza) la capacità di decidere e di agire. E per loro sembrano appropriati anche i corollari conseguenti cui fa riferimento Leopardi: l’inadatto alla vita pratica (l’inetto) è anche goffo fino al ridicolo nei rapporti interpersonali; gli "adatti", al contrario, oltre che capaci di decidere e di agire, sono anche brillanti nella vita sociale; ma lo sono, inevitabilmente, a prezzo (o in virtù) della loro mediocrità intellettuale.

In Una vita c’è un passo interessante, che consente di mettere meglio a fuoco questa affinità di pensiero fra Svevo e Leopardi. Si tratta del discorso con cui Macario (l’antagonista di Alfonso) intende dare una lezione di vita all’amico-nemico. I due stanno rientrando in porto dopo una gita in cutter, durante la quale Macario ha già avuto modo di mostrare la sua perizia e sicurezza a fronte del disagio, psichico e fisico, di Alfonso. Attorno alla barca volano gabbiani, che ogni tanto si precipitano rapidissimi in mare, ad afferrare la preda. Macario invita Alfonso ad osservarli, quindi così "filosofeggia":
 

– Fatti proprio per pescare e per mangiare. Quanto poco cervello occorre per pigliare pesce! Il corpo è piccolo. Che cosa sarà la testa e che cosa sarà poi il cervello? Quantità da negligersi! Quello ch’è la sventura del pesce che finisce in bocca del gabbiano sono quelle ali, quegli occhi, e lo stomaco, l’appetito formidabile, per soddisfare il quale non è nulla quella caduta così dall’alto. Ma il cervello! Che cosa ci ha da fare il cervello col pigliar pesci? E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile! Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più. Chi non sa per natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà giammai e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare. Si muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani organi per afferrare o anche inabili a tenere.(9)

 
È evidente che Macario contrappone, servendosi dell’esempio del gabbiano, due tipi umani: l’adatto a vivere (al quale, per afferrare la preda, non occorre cervello) e l’inetto (il quale, invece, non sa afferrare la preda e passa la vita a nutrire un essere inutile, il cervello appunto). Davanti a tanta sicurezza, Alfonso si ritrae intimidito, anzi peggio, con una domanda quanto mai ingenua ("E io ho le ali?"), presta il fianco alla battuta conclusiva e liquidatoria di Macario ("Per fare dei voli pindarici, sì").

E certo, il "letterato ozioso" (così viene chiamato Emilio in Senilità), che coltiva l’immaginazione e il sentimento, la fantasia e l’intelletto ("nutre" il cervello, come dice Macario), sempre fuori fase rispetto alla realtà, non può che apparire un ridicolo sognatore all’uomo di successo, orgogliosamente privo di cervello (entità "da negligersi"), ma ben dotato delle qualità necessarie per afferrare la preda: e sono, queste ultime, qualità quasi animalesche (lo dice già il paragone con il gabbiano) che hanno a che fare con la rapidità di decisione e la spietatezza di esecuzione; qualità rispetto a cui il cervello è di ostacolo, in quanto, implicando la facoltà di concepire il possibile, immaginare l’alternativa, pensare l’inesistente, rallenta l’azione fino a bloccarla.

Ma ciò che nella filosofia di Macario appare come il negativo, è proprio il positivo indicato da Leopardi. Quel cervello "essere inutile", di cui parla Macario, è la stessa grande anima di cui Leopardi dice che, "soverchiata dalla grandezza delle proprie facoltà", "per l’abito di riflettere e la profondità dell’indole", si rivela d’impaccio quando si tratta di decidere e di agire. E poiché il cervello–anima è proprio ciò che distingue – privilegio e maledizione – l’uomo dagli animali bruti, rinunciarvi vorrebbe dire rinunciare alla essenza dell’umanità. Da questo punto di vista, l’inetto sveviano perde ogni connotazione negativa per acquisire quella positiva, anzi titanica, dell’uomo che, a prezzo di una diversità che lo emargina dal consorzio civile, ma anche lo distingue dalla massa dei mediocri, non rinuncia al pensiero, ovvero non rinuncia all’essenza del proprio essere uomo.

Del resto, se leggiamo certi saggi sveviani, quali L’uomo e la teoria darwiniana e La corruzione dell’anima (10) non possiamo che trovare riscontri a questa teoria che fa dell’inadatto a vivere l’uomo per eccellenza. Vi si sostiene anzitutto che la superiorità dell’uomo sull’animale è data dal fatto che, mentre quest’ultimo perde l’anima (e con essa il "malcontento", ovvero l’insoddisfazione) nel momento in cui adatta il proprio organismo alle necessità ambientali, l’uomo è l’essere che conserva l’anima – e l’inquietudine vitale che le è propria – proprio perché non c’è adattamento che lo soddisfi. L’uomo dunque, pur a prezzo dell’infelicità (è "torvo e malcontento"), mantiene integre le potenzialità di sviluppo ed è sempre disponibile ad affrontare il mutamento ambientale, laddove l’animale vive, sì, soddisfatto della funzionalità del proprio organismo, ma rimane "identico a se stesso, definitivamente cristallizzato", "non accorgendosi di aver perduto la vera vita" (la "vera" vita: non sfugga il giudizio di valore).

Ne consegue paradossalmente che, rovesciando l’assunto darwiniano, il vero vincitore nella lotta per la sopravvivenza è l’uomo in quanto animale che non si adatta, e cioè l’uomo in quanto inetto (etimologicamente in-aptus, ovvero "non-atto", "che non si adatta"); ma, di più, trasponendo questa verità sul piano della vita sociale, si ha un corollario altrettanto paradossale, perché si conclude che l’uomo di successo è il mediocre che ha perduto l’anima (e con essa la vera vita), assimilando, con istinto quasi animalesco, i valori dominanti (appunto, adattandovisi) (11), laddove l’inetto, in quanto incapace di far propri quei valori (in quanto renitente ad adattarvisi), è l’uomo che vive la vera vita, l’uomo in senso pieno, dotato di anima, dunque eternamente insoddisfatto, straniero in ogni tempo e in ogni luogo, mai in pace con se stesso e con gli altri. E che questa sia l’ottica giusta con cui guardare i protagonisti dei suoi romanzi, ce lo conferma lo stesso autore quando, nella lettera a Valerio Jahier del 27 dicembre 1927, parla del "contemplatore" (12) come dell’"uomo più umano che sia stato creato", quindi si chiede:

 
E perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere all’umanità ciò che essa ha di meglio? (13)

 
Per altro, il confronto fra la condizione dell’animale, naturalmente felice, e quella dell’uomo, tormentato dalle contraddizioni del pensiero, torna in altri momenti dell’opera sveviana. Oltre al passo sopra citato, in cui – a contrasto con l’inettitudine di Alfonso – è descritta la perfetta attitudine alla vita del gabbiano, è ben nota la pagina finale de La coscienza di Zeno, dove alla salute della rondine (ma anche della talpa e del cavallo), che non conosce altro progresso che "quello del proprio organismo", si contrappone la malattia dell’ "occhialuto uomo" che "inventa ordigni fuori del suo corpo", sottraendosi così alla selezione naturale. Il fatto è che la rondine – lo apprendiamo da una delle favole, Rapporti difficili (14) – non ha "spazio nel cervello per contenere due concezioni della vita": questa è la sua fortuna, ma anche il suo limite. Viceversa, dobbiamo intendere, la sfortuna (ma anche la superiorità) dell’uomo è proporzionale allo spazio che c’è nel suo cervello, uno spazio che può contenere due (o più, ovviamente) concezioni della vita: è, insomma, lo spazio "della ragione e della immaginativa" che condanna i più dotati fra gli uomini alla "irresoluzione", per dirla con parole leopardiane; alla inettitudine (alla senilità, alla malattia) per dirla con Svevo.

 

NOTE

 

1) La questione è connessa con la cosiddetta “teoria del piacere”, su cui Leopardi ritorna più volte, ma che elabora in maniera più sistematica nelle riflessioni del 12 febbraio 1821 (Zibaldone, pp. 646-50) e del 2 maggio 1822 (Zibaldone, pp. 2410-14).

2) Vedi Storia del genere umano, Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, Dialogo di Marcabruno e Farfarello (anche se qui è posta l’equazione vita-infelicità, anziché quella grandezza-infelicità).

3) G. Leopardi, Dialogo della Natura e di un’Anima, in Tutte le opere di Giacomo Leopardi. Le poesie e le prose, vol. I, Milano 1968 [1940], p. 848.

4) Zibaldone, pp. 538-39 (21 gennaio 1821); ma si veda anche p. 3040 (26 luglio 1823).

5)  Zibaldone, pp. 3188-89 (18 agosto 1823).

6) Zibaldone, pp. 4038-39 (3 marzo 1824).

7) G. Leopardi, Detti memorabili di Filippo Ottonieri, in Tutte le opere, cit., vol. I, p. 942.

8) Qualcosa di simile si può ritrovare anche nei protagonisti di opere minori: ad esempio, in Giorgio de L’assassinio di via Belpoggio o nel dottor Menghi de Lo specifico del dottor Menghi.

9) I. Svevo, Opera omnia, vol. II, Milano 1969, pp. 207-8.

10) Più che di saggi veri e propri, si ha l’impressione di studi rimasti allo stato di abbozzo. Si tratta di testi di poche pagine, formalmente poco curati, a volte incompiuti, non databili con precisione, ma collocabili alla fine del primo decennio del Novecento. Si possono leggere in I. Svevo, Opera omnia, vol. III, Milano 1968 (p. 637 e p.641)

11) In questa tipologia umana saranno da riconoscere, pur con le debite differenze, gli antagonisti dell’inetto nei diversi romanzi: Macario, Stefano Balli, Guido Speier.

12) Si tratta, come è noto, del termine (contrapposto a “lottatore”) che Svevo desume da Schopenhauer per indicare il tipo umano dell’inetto.

13) I. Svevo, Opera omnia, vol. I, Milano 1966, p. 860.

14) I. Svevo, Opera omnia, vol. III, Milano 1968, pp. 755-9.

 

Schopenhauer e Darwin in Svevo


Renato BARILLI, La linea Svevo-Pirandello (Mursia, 1972)
in Leggere Svevo  di L. Nanni, pp. 45-48 (Zanichelli, 1974)
 
Partendo dalla constatazione che autori letti (e prediletti) da Svevo sono Schopenhauer e Darwin, si arriva a vederne l'influenza (più o meno pretestuosa).

L'inetto è colui che ha preso coscienza dell’esistenza, al di sotto della "rappresentazione" (della realtà fenomenica), della cieca "volontà", di cui si rifuta di essere esecutore: sarebbe quindi una sorta di eroe della noluntas (o comunque un rivelatore dei limiti del vitalismo non mediato dalla riflessione) , un "contemplatore", antitetico ai "lottatori" (esecutori della voluntas ).

Più acuto il rilievo dell'influsso di Darwin (del resto sancito da due saggi dello stesso Svevo, scritti fra il 1907 e il 1909: L'uomo e la teoria darwiniana e La corruzione dell'anima ). L'uomo, dice Svevo, in quanto il più debole fra gli animali, è il vincitore dello "struggle for life"; gli animali adeguano necessariamente i propri organi alle necessità ambientali, l'uomo invece, in quanto colpito dalla malattia dell'anima (che è la riflessione, l'ipertrofia della coscienza) è per eccellenza "malcontento", e quindi sempre insoddisfatto (sempre allo stato di "abbozzo"), mai adattato (alla lettera, "inetto" è colui che non si adatta), e quindi in grado di sopravvivere a tutti i cambiamenti di ambiente (adattarsi è cristallizzarsi; la "corruzione" dell’anima è proprio quella per cui l’anima perde il proprio "malcontento", la propria inquietudine vitale, inseguendo, e raggiungendo, il successo, "grande seduttore"). Paradossalmente l'inettitudine è sì tormento, insoddisfazione (sconosciuti agli animali), ma anche garanzia di sopravvivenza: è rovesciato l'assunto di Darwin.

E' questo un modo per leggere in positivo l'inetto sveviano. Ma è fondato? Il discorso sul gabbiano, cosiccome il finale della Coscienza di Zeno sembrano celebrare la naturalità assoluta (il vero progresso è quello della rondine, che adatta il muscolo al volo migratorio...) e non invece la capacità di sopravvivenza dell' "occhialuto uomo".


Inettitudine ed ebraismo in Svevo

G. DEBENEDETTI, Svevo e Schmitz (1929),
in Personaggi e destino,
ed. Il Saggiatore (1977), pp. 49-92.

 
L'inetto è generato da uno scompenso fra l'orientamento (il progetto) che l'individuo dà alla propria vita e la curva che poi effettivamente la vita descrive: incarna questo difetto, questo errore di calcolo; agisce come i bambini, ai quali il meccanismo associativo non ancora esercitato impedisce di raggiungere col tatto gli oggetti percepiti con la vista. E' una tara congenita e di cui non si è responsabili, ma rimorde e fa soffrire come una colpa.

Zeno contraddice questa figura solo apparentemente; il successo gli arride senza merito; anche lui non sa cogliere l'oggetto, ma in compenso se ne trova tra le mani un altro, non cercato, che è proprio quello buono.

Le due caratteristiche di fondo dell'inetto sono queste:

1) è un eterno adolescente (vedi Zeno che non si è mai laureato) per il quale la vita resta sempre un indecifrabile enigma, incapace di acquisire una reale esperienza (sentimentale, non solo mentale) dagli smacchi subiti;

2) per sopravvivere, malgrado questa impossibilità di vivere come gli altri, si è creato un rifugio dove nascondere il capo: la presunzione di valere di più nell'ambito della produzione spirituale (così si rivalgono i "letterati" Alfonso ed Emilio; meno chiaro per Zeno).

Tale figura di inetto non è altro che la proiezione (inconfessata) della diversità ebraica. Weininger definisce infatti l'ebreo come il diseredato (privo) di ogni felice istinto del vivere; femminilmente passivo (analogamente, del resto, è definito Emilio rispetto al Balli).

 

La tecnica narrativa in Senilità


G. BALDI, ecc., Dal testo alla storia, dalla storia al testo, vol. III**
Paravia, 1994, pp. 279-281; pp. 296-298.

 
La narrazione è in terza persona, ma il romanzo è focalizzato sul protagonista, i fatti sono filtrati sistematicamente attraverso la sua coscienza. Ma poiché costui è portatore di una falsa coscienza (e il suo punto di vista è inattendibile), il narratore esterno interviene più volte, anche con modi provocatori, per correggerlo, smentirlo, smascherarlo.

Abbiamo quindi due prospettive: quella di Emilio, che mente a se stesso, e quella del narratore, che denuncia la menzogna. A volte lo dice apertamente (egli mentiva...), a volte lo smascheramento è affidato all’ironia, a un semplice aggettivo od avverbio rivelatore (In passato egli aveva vagheggiato delle idee socialiste, naturalmente senza mai muovere dito per attuarle: quel naturalmente denuncia l’inettitudine di Emilio). Un altro procedimento usato è quello di riportare, senza commenti, il pensiero di Emilio (ad esempio, attraverso il discorso indiretto libero), lasciando che sia lo stridente contrasto con la realtà oggettiva a svelarne la ridicola inadeguatezza (In compenso dell’amore che ne riceveva, egli non poteva darle che una cosa soltanto: la conoscenza della vita, l’arte di approfittarne. Anche il suo era un dono preziosissimo, perché con quella bellezza e quella grazia, diretta da persona abile come era lui, avrebbe potuto essere vittoriosa nella lotta per la vita: la convinzione di Emilio di essere abile ed esperto della vita, si scontra con l’immagine che già abbiamo di lui, quella di un uomo, al contrario, timoroso della vita, tutt’altro che vincente).

Questi procedimenti sono in atto nelle pagine iniziali. Anzi, proprio nell’incipit, ci scontriamo con due livelli di menzogna da parte del protagonista: uno consapevole (dice di desiderare una relazione non compromettente per amore di lei; ma il narratore ci avverte che, se fosse stato sincero, avrebbe detto: “per me non sarai che un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera, la mia famiglia”) ed uno inconsapevole (ma subito brutalmente svelato dal narratore, che ironizza sia sulla famiglia sia sulla carriera, anche attraverso diminutivi sprezzanti: impieguccio, famigliuola, riputazioncella). Successivamente, nella rappresentazione di Angiolina, riconosciamo ancora il punto di vista deformante di Emilio (come discorso indiretto libero); idealizza secondo schemi letterari la figura della donna (il volto illuminato dalla vita..., tanto oro..., raggiante di gioventù e bellezza..., quel profilo sorprendentemente puro..., ecc.), che certo non corrisponde a quella idealizzazione, come si preoccupa di farci capire il narratore (non solo con un giudizio secco - ai retori corruzione e salute sembrano inconciliabili - ma anche lasciandoci intravedere nell’occasione dell’incontro - l’ombrellino caduto ed impigliatosi nel suo vestito - la malizia della donna navigata).
 

Il finale di Senilità
 

G. BALDI, ecc., Dal testo alla storia, dalla storia al testo, vol. III**
Paravia, 1994, pp. 306-308.

 
Conclusa l’avventura con Angiolina, Emilio ritorna alla stato di “senilità” (“ne visse come un vecchio del ricordo della gioventù”), cioè ritorna al punto di partenza, alla sua inettitudine di “letterato ozioso”: al contrario di quel che succede nei romanzi di formazione, Emilio non ha imparato nulla. La stessa “metamorfosi strana” che Angiolina subisce nel ricordo di Emilio indica la realizzazione di un desiderio che percorre tutto il romanzo: la donna-sesso (Angiolina) e la donna-madre (Amalia) sono ora unite (ora che sono l’una morta e l’altra fuggita con il cassiere infedele di una banca), assecondando la volontà di Emilio di idealizzare una realtà volgare, di trasfigurare in un’immagine di purezza ciò che invece appartiene alla materialità del sesso (come ha sempre fatto, da inetto che, incapace di fronteggiare la realtà, si risarcisce con il sogno).

Peraltro, Angiolina che guarda verso l’orizzonte rosseggiante, diventa anche simbolo del socialismo: ma anche in questo caso è evidente che Emilio continua a mentire a se stesso (a risarcirsi con il sogno), visto che la ragazza si era dimostrata assolutamente estranea ed ostile alle idee socialiste, quando Emilio aveva cercato di spiegargliele.

La tecnica narrativa rivela anche qui la distanza critica del narratore (ovvero, dell’autore) rispetto al suo personaggio: la metamorfosi è definita “strana” e propria della mente di un “letterato ozioso”; del resto lungo tutto il romanzo il narratore ha ironizzato sul “pedante solitario” che chiama Ange quella donna ignorante, amante dei piaceri sessuali, dei formaggi, delle mortadelle e del buon vino (e che il Balli, che se ne intende, più appropriatamente chiama Giolona); e quindi, ancora, non può non essere risibile l’immagine di lei con “l’occhio limpido e intellettuale”, collocata “come su un altare, la personificazione del pensiero e del dolore” .

Rivelatrice è infine la frase conclusiva: il tempo presente dei verbi dimostra che si tratta di un intervento della voce narrante e non di un indiretto libero (ci sarebbe voluto l’imperfetto); ed è quindi l’autore che si prende gioco dell’ultima mistificazione di Emilio, fa la parodia del suo pensiero: già con gli esclamativi (“Sì! Angiolina pensa e piange!”), poi con l’immagine di lei che piange “come se nel vasto mondo non avesse più trovato neppure un Deo gratias qualunque”, alludendo maliziosamente al fatto che la ragazza tuttalpiù può piangere perché non trova neppure un’avventura occasionale (così lei aveva definito un tale incontrato per strada e da cui si era fatta accompagnare).

 
 
La crisi d’identità del personaggio in alcuni scrittori e opere del ’900

 
1) La crisi d’identità del personaggio (che troviamo rappresentata in tanta narrativa del Novecento) non è altro che uno dei modi in cui si esprime quella più vasta crisi di certezze (politiche, morali, filosofiche) che investe l’Europa nella cosiddetta "età del decadentismo";

2) Sul piano filosofico, più che il pensiero di Nietzche o Bergson (che pure sono significativi, perché rompono il modo tradizionale di concepire, ad esempio, la morale o il tempo), è la psicanalisi di Freud che pone in termini nuovi la questione dell’identità dell’individuo: la psicanalisi, in quanto scopre che la coscienza è spezzata fra conscio e inconscio, fra Es, Io e Super-io, spezza anche l’illusione che i comportamenti dell’individuo siano univoci e coerenti, che ci sia perfetta corrispondenza fra quel che si pensa e quel che si fa, fra quel che si fa e quel che si vorrebbe fare (la parte conscia rispetto a quella inconscia è come la punta di un iceberg rispetto al suo corpo sommerso; gli istinti, pulsioni - Trieb - sono mostri paurosi che sfuggono ad ogni controllo morale e razionale; ecc.);

3) la letteratura europea, o perché influenzata direttamente o perché respira la stessa aria, non può non risentirne: le Memorie del sottosuolo di Dostojevskij, del 1864, sono un’anticipazione clamorosa della scoperta che accanto a un "io" tranquillo e conformista esiste un "io" distruttivo ed autodistruttivo; Proust, Joyce, Kafka non sono comprensibili senza riferimenti alla scoperta dell’inconscio da parte della psicanalisi; ed opere come The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde di Stevenson (1886) e Heart of darkness di Conrad (1906) sono perfettamente leggibili entro queste categorie;

4) sul versante italiano, Svevo e Pirandello, in modi diversi ma accostabili, esprimono questa stessa condizione: è vero per ambedue che il personaggio non si sente più "uno" (ma si sente "nessuno" e "centomila"), ed è vero per ambedue che la "malattia" consiste in un eccesso di sviluppo (una ipertrofia) della coscienza che inibisce irrimediabilmente naturalità ed immediatezza ("ma il cervello... cosa ci ha a che fare il cervello col prendere pesci?" dice Macario commentando il volo del gabbiano in Una vita);

5) più precisamente, in Pirandello il personaggio inizia la ricerca della propria identità, dal momento in cui scopre di non essere autenticamente se stesso (scopre la dissonanza fra le "forme", entro cui è costretto a vivere, e la "vita", che scorre altrove; si accorge di indossare delle "maschere", attore suo malgrado, mentre il vero "volto" è sconosciuto; ecc.): così è per Mattia Pascal (che diventa Adriano Meis, per sbarazzarsi di una "forma" o "maschera", quella di Mattia, nella quale non si riconosce più); per Vitangelo Moscarda (che paga con l’emarginazione e la "pazzia" il tentativo di conoscersi al di sotto della "maschera" di usuraio che ha ereditato dal padre); e così è per i protagonisti di tante novelle (il professore de La carriola, Belluca de Il treno ha fischiato, ecc.); d’altra parte, proprio in certe pagine del saggio su L’umorismo Pirandello chiarisce come sia proprio dell’arte il compito di svelare questa "doppiezza" della condizione umana (ed è emblematica l’immagine dell’erma bifronte che da una faccia ride del pianto dell’altra); il che equivale a dire che l’arte demistifica l’apparenza convenzionale della realtà e rivela l’emergenza del contrario per eccellenza: l’esigenza di una vita autentica che, ovviamente, si manifesta come il contrario della presunta normalità;

6) analogamente, in Svevo il personaggio è alla ricerca della "salute" perduta, della ricomposizione dell’unità originaria fra coscienza e vita: e questo è vero non solo per Zeno (per il quale la malattia è il punto di partenza; e per il quale è evidente che si tratta di compiere un viaggio attraverso la propria coscienza, con l’aiuto della psicanalisi - salvo poi ricredersi nel finale, quando riconosce che la malattia appartiene alla società tutta, e non all’individuo singolo), ma anche per un "inetto" come Alfonso Nitti o un "senile" come Emilio Brentani (non è difficile riconoscere nella "inettitudine" e nella "senilità" nomi diversi per una stessa malattia). E’ interessante notare come l’alternativa malattia-salute si manifesti, in maniera ricorrente nei diversi romanzi, come sdoppiamento fra il protagonista ed una sorta di alter-ego, che è rappresentato da un personaggio che è contemporaneamente, e non a caso, amico e rivale del protagonista: così è per le coppie Alfonso-Macario in Una vita, Emilio-Balli in Senilità, Zeno-Guido ne La coscienza di Zeno (e qualcosa di analogo si potrebbe riscontrare per le coppie femminili: Annetta Maller-Lucia Lanucci; Amalia-Angiolina; Ada-Augusta);

7) dal punto di vista sociale tale crisi d’identità può essere interpretata come il riflesso di una crisi che investe la piccola e media borghesia fra la fine dell’’800 e i primi decenni del ’900 (tale è la condizione sociale dei personaggi sveviani e pirandelliani: impiegati, professionisti, piccoli proprietari, piccoli imprenditori): una classe schiacciata fra le elites del potere da una parte e l’emergere delle grandi masse operaie e contadine dall’altra; una classe, quindi, che soffre di una vera e propria crisi d’identità sociale, che non ha più certezze sul proprio ruolo e sulla propria funzione. Tale interpretazione può essere legittimata da un romanzo come I vecchi e i giovani di Pirandello o da certe pagine (ad es. quelle finali de La coscienza di Zeno) di Svevo, ove il male di cui si soffre è visto non come un dato esistenziale-metafisico, ma come il prodotto di una ben determinata evoluzione storica.

 



 

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