venerdì 16 marzo 2018

Ulisse in Saba


Saba

20) Nella poesia di Saba (Ulisse) è il poeta stesso che si identifica con Ulisse. Ricorda gli isolotti pericolosamente affioranti quando da ragazzo navigava lungo le coste dalmate: insidiosi, ma “al sole / belli come smeraldi”. Ora riconosce in quei luoghi l’autenticità della vita: “il porto / accende ad altri i suoi lumi”, ma per sé il poeta vuole ancora quella vita, l’unica degna di essere vissuta, quella che richiede “non domato spirito” e che si ama “con doloroso amore”:


Nella mia giovanezza ho navigato

lungo le coste dalmate . Isolotti

a fior d’onda emergevano, ove raro

un uccello sostava intento a prede

coperti d’alghe, scivolosi, al sole

belli come smeraldi. Quando l’alta

marea e la notte li annullava, vele

sottovento sbandavano più al largo,

per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno

 è quella terra di nessuno. Il porto

accende ad altri i suoi lumi; me al largo

sospinge ancora il non domato spirito,

e della vita il doloroso amore.

Ulisse in Gozzano


Gozzano


19) Non stupirà di ritrovare in Gozzano il rovesciamento ironico di quella figura. Non stupirà, perché l’anti-eroico ed anti-dannunziano Gozzano, così come ha rivisitato in maniera ironica le immagini del super-uomo (Totò Merumeni è appunto un super-uomo fallito, un inetto che ha rinunciato ad ogni aspirazione eroica ed ora, appartato dal mondo, si consola con un “esile fiorita di versi consolatori”) e della donna fatale (La signorina Felicita, nella sua semplicità ed ignoranza campagnola è il rovescio della donna di lusso, della “intellettuale gemebonda”, che appartiene al mondo, reale e letterario, di D’Annunzio), così in un delizioso componimento (L’ipotesi, pubblicato fra le Poesie sparse, ma composto prima de La signorina Felicita) propone in chiave ironico-parodistica quell’Ulisse esaltato da D’Annunzio nei modi suddetti. Il poeta immagina di avere sposato la signorina Felicita, di avere avuto con lei una vita felice e di ritrovarsi, loro due ormai settantenni (“un giorno d’estate, nel mille e… novecento… quaranta”), a discutere con amici di vari argomenti; e siccome il discorso cade sul “Re di Tempeste” Odisseo, il poeta immagina di raccontarne la storia “ad uso della consorte ignorante”. Il racconto si risolve in una straordinaria dissacrazione della figura di Ulisse, che investe non solo D’Annunzio ma risale fino al canto di Dante (il testo è fitto di citazioni letterali delle espressioni dantesche): l’eroe omerico è infatti rappresentato come uno scapestrato, marito infedele, “che visse a bordo d’un yacht / toccando tra liete brigate / le spiagge più frequentate / dalle famose cocottes…”; decise poi di andare in America a cercar fortuna, ma sbagliò rotta e, invece di giungere in California o Perù, si trovò davanti il monte del Purgatorio, dove la nave fece naufragio “e Ulisse piombò nell’inferno dove ci resta tuttora”:


Il Re di Tempeste era un tale

che diede col vivere scempio

un bel deplorevole esempio

d’infedeltà maritale,

che visse a bordo d’un yacht

toccando tra liete brigate

le spiaggie più frequentate

dalle famose cocottes...

Già vecchio, rivolte le vele

al tetto un giorno lasciato,

fu accolto e fu perdonato

dalla consorte fedele...

Poteva trascorrere i suoi

ultimi giorni sereni,

contento degli ultimi beni

come si vive tra noi...

Ma né dolcezza di figlio,

né lagrime, né pietà

del padre, né il debito amore

per la sua dolce metà

gli spensero dentro l’ardore

della speranza chimerica

e volse coi tardi compagni

cercando fortuna in America...

- Non si può vivere senza

danari, molti danari...

Considerate, miei cari

compagni, la vostra semenza! -

Vïaggia vïaggia vïaggia

vïaggia nel folle volo

vedevano già scintillare

le stelle dell’altro polo...

vïaggia vïaggia vïaggia

vïaggia per l’alto mare:

si videro innanzi levare

un’alta montagna selvaggia...

Non era quel porto illusorio

la California o il Perù,

ma il monte del Purgatorio

che trasse la nave all’in giù.

E il mare sovra la prora

si fu rinchiuso in eterno.

E Ulisse piombò nell’Inferno

dove ci resta tuttora...

Ulisse in D'Annunzio


D’Annunzio



18) La demitizzazione dell’eroe, che abbiamo visto soprattutto ne L’ultimo viaggio, è probabilmente anche una risposta alla esaltata idealizzazione che ne aveva fatto D’Annunzio in Maia, il primo libro delle Laudi, un paio d’anni prima (1903). La idealizzazione romantica dell’eroe, che abbiamo visto in A Zacinto, diventa in Maia di D’Annunzio raffigurazione del super-uomo (strumento dunque per dare corpo a quell’ideologia a lui così cara). Il poeta, mentre naviga nel mar Jonio con i suoi compagni, immagina di incrociare la rotta di Ulisse che affronta il mare da solo, come si addice a chi si è innalzato al di sopra della mediocrità e in questa altezza non può avere compagni. Il poeta e i suoi amici lo chiamano, pregandolo di prenderli con sé; Ulisse nemmeno volge il capo verso di loro, ma quando è il poeta da solo a invocarlo (“Tra costoro io sono il più forte! / Mettimi a prova!”), lo folgora con lo sguardo (“e il folgore degli occhi suoi / mi ferì per mezzo alla fronte”), quindi prosegue nella sua rotta. Ma quello sguardo basta perché il poeta si senta eletto e da quel momento i suoi compagni sentano il peso della sua volontà di potenza:


Incontrammo colui

che i Latini chiamano Ulisse,

nelle acque di Leucade, sotto

le rogge (color ruggine) e bianche rupi

che incombono al gorgo vorace,

presso l'isola macra (arida, pietrosa)

come corpo di rudi

ossa incrollabili estrutto

e sol d'argentea cintura

precinto. Lui vedemmo

su la nave incavata. E reggeva

ei nel pugno la scotta (cima che consente di orientare la vela)

spiando i volubili vènti,

silenzioso; e il pìleo (copricapo a forma conica, con la punta tondeggiante)

tèstile dei marinai

coprivagli il capo canuto,

la tunica breve il ginocchio

ferreo, la palpebra alquanto

l'occhio aguzzo; e vigile in ogni

muscolo era l'infaticata

possa del magnanimo cuore.

(…)

«O Laertiade» gridammo,

e il cuor ci balzava nel petto

come ai Coribanti dell'Ida

per una virtù furibonda

e il fegato acerrimo ardeva

«o Re degli Uomini, eversore

di mura, piloto di tutte

le sirti, ove navighi? A quali

meravigliosi perigli

conduci il legno tuo nero?

Liberi uomini siamo

e come tu la tua scotta

noi la vita nostra nel pugno

tegnamo, pronti a lasciarla

in bando o a tenderla ancóra.

Ma, se un re volessimo avere,

te solo vorremmo

per re, te che sai mille vie.

Prendici nella tua nave

tuoi fedeli insino alla morte!»

Non pur degnò volgere il capo.

Come a schiamazzo di vani

fanciulli, non volse egli il capo

canuto; e l'aletta vermiglia

del pìleo gli palpitava

al vento su l'arida gota

che il tempo e il dolore

solcato aveano di solchi

venerandi. «Odimi» io gridai

sul clamor dei cari compagni

«odimi, o Re di tempeste!

Tra costoro io sono il più forte.

Mettimi alla prova. E, se tendo

l'arco tuo grande,

qual tuo pari prendimi teco.

Ma, s'io nol tendo, ignudo

tu configgimi alla tua prua.»

Si volse egli men disdegnoso

a quel giovine orgoglio

chiarosonante nel vento;

e il fólgore degli occhi suoi

mi ferì per mezzo alla fronte.

Poi tese la scotta allo sforzo

del vento; e la vela regale

lontanar pel Ionio raggiante

guardammo in silenzio adunati.

Ma il cuor mio dai cari compagni

partito era per sempre;

ed eglino ergevano il capo

quasi dubitando che un giogo

fosse per scender su loro

intollerabile. E io tacqui

in disparte, e fui solo;

per sempre fui solo sul Mare.

E in me solo credetti.

Uomo, io non credetti ad altra

virtù se non a quella

inesorabile d'un cuore possente.

E a me solo fedele

io fui, al mio solo disegno.

Ulisse in Pascoli


Pascoli


14) Ritroviamo la figura di Ulisse in ben tre testi della produzione di Pascoli. Tre testi di grande suggestione, nei quali Pascoli rievoca l’eroe omerico allo scopo di dare corpo alle proprie, personali inquietudini. L’Ulisse di Pascoli non è né uno scelerum inventor né un eroe della conoscenza, è un vecchio che rievoca con nostalgia le gloriose avventure della sua giovinezza e si interroga sul senso di quelle avventure, che è poi il senso della sua vita.


15) Il ritorno (da Odi e inni). Ulisse, accompagnato dai Feaci, sbarca ad Itaca. Dorme, viene depositato sulla spiaggia insieme a tutti i suoi beni e i Feaci ripartono. Quando l’eroe si sveglia, crede di essere stato ingannato, perché non riconosce in quella terra aspra e rocciosa la sua Itaca, l’isola dei suoi ricordi, della fonte Aretusa, dell’antro delle ninfe, degli alberi fioriti. E’ una fanciulla che viene alla fonte per lavare le vesti a rivelargli che quella è proprio Itaca, e lo invita a guardare la trasparenza dell’acqua per riconoscere che quella è proprio la fonte Aretusa. Ulisse guarda, si specchia nella fonte, vede se stesso vecchio e rugoso, stenta a riconoscersi. Con amarezza capisce che non è l’isola ad essere cambiata, ma lui stesso (“Io era, io era mutato! / Tu, patria, sei come a quei giorni! / Io, sì, mio soave passato, / ritorno, ma tu non ritorni…/”). La gloria e la bellezza sono nel ricordo, non esistono più; il presente è la triste banalità del quotidiano. Nel finale, il coro delle ninfe lo invita a mordere il fiore del loto: solo così troverà la serenità e potrà rivedere, in sogno, le vicende irrevocabili del passato:

Al fonte arguto s’appressò l’eroe,

e vide sè nel puro fior dell’acque.

Arida vide la sua cute, vide

grigi i capelli, e pieni d’ombra gli occhi;

e la fronte solcata era di rughe,

curvo il dosso, nè più molli le membra.

Vide; e rivide ciò che più non era:

sè biondo e snello, coi grandi occhi aperti.

Rivide nella stessa onda, e compianse,

la sua lontana fanciullezza estinta.

(….) il reduce Odisseo

tutto conobbe, poi che sè conobbe;

ed alla patria protendea le braccia:



OD.              Io era, io era mutato!

Tu, patria, sei come a quei giorni!

Io sì, mio soave passato,

ritorno; ma tu non ritorni...

(….)

E le ninfe divine, anime verdi

d’alberi, cristalline anime d’acque,

avean pietà del vecchio eroe, che pianse

quando non vide, e pianse quando vide.



CORO    Coi vecchi nostri canti che sai,

               voci di cose piccole e care,

               t’addormiremo, vecchio; e potrai

                                                  ricominciare.

               E quando il mare, nella tua sera,

               mesto nell’ombra manda il suo grido,

               sciogliere ancora potrai la nera

                                                  nave dal lido.

               Vedrai le terre de’ tuoi ricordi,

               del tuo patire dolce e remoto:

               là resta, e il molto dolce là mordi

                                                  fiore del loto.

               Sarai qui presso. Rotto il tuo remo

               sopra il tuo capo stanco sarà.

               Sul tuo sepolcro noi canteremo

               la tua lontana felicità.


16) L’ultimo viaggio (dai Poemi conviviali) è un poema, composto da 24 sezioni, che già nel numero vuole ripetere la struttura in 24 canti dell’Odissea. Il vecchio Ulisse ha seguito i dettami della profezia di Tiresia (con un remo sulla spalla, giungerai presso uomini che non conoscono mare, né navi, né cibi conditi col sale; lì, un altro viandante scambierà il tuo remo per un ventilabro, quindi pianterai a terra il remo e offrirai sacrifici a Poseidone) è tornato ad Itaca dove, sempre secondo la profezia, lo attende in vecchiezza, serenamente, circondato da popoli ricchi, “la morte che viene dal mare” (thanatos ex halòs: qualcuno traduce “fuori dal mare”, interpretando diversamente il senso della profezia). Ma Ulisse è stanco di quella vita inerte, vuole riprendere il mare insieme ai vecchi compagni (che lo hanno sempre aspettato, tenendo pronta la nave), al pitocco Iro e all’aedo Femio; non vuole partire – come l’Ulisse di Dante – per conoscere nuove genti e nuovi mondi, vuole rivedere i luoghi indimenticabili del passato, rivivere le proprie avventure, accompagnato dal canto eternatore dell’aedo. Vuole ripercorrere i luoghi del suo viaggio, non tanto per divenire “del mondo esperto e de li vizi umani e del valore”, come dice Dante, ma per conoscere se stesso: vuole capire ciò che non ha capito, vuole capire il senso della vita. Ma ciò che la prima volta era sembrato grande ed eroico si rivela ora banale e quotidiano (o meglio: demitizzato da una spiegazione naturalistica). All’isola di Circe non si sentono i leoni che ruggiscono, né si sente il canto della maga, se non di notte, come in sogno; di giorno, si sentono “ruggir le quercie / a qualche rara raffica, e cantare / lontan lontano eternamente il mare”. L’aedo muore, e la sua cetra resta appesa a un albero. All’isola di Polifemo non ci sono ciclopi, ma, in quello che fu l’antro del gigante, solo un pastore che li accoglie ospitale; dice di non avere mai visto ciclopi, ma bensì l’occhio rosso di un monte (un vulcano) che faceva piovere (eruttava) pietre nel mare. All’isola delle Sirene, dove l’eroe vorrebbe ora sentire quel canto senza essere legato da funi all’albero maestro, dove vorrebbe ottenere quella conoscenza che esse promettono, non vede altro che scogli, dall’aspetto di sirene, verso cui una corrente “rapida e soave” trascina la nave. Ulisse vorrebbe la conoscenza, una conoscenza che dia significato alle peripezie della sua vita (“Son io! Son io, che torno per sapere!”), vuole la conoscenza di se stesso, anche a costo di aggiungere le sue alle altre ossa che biancheggiano sugli scogli (“Solo mi resta un attimo. Vi prego! / Ditemi almeno chi son io! Chi ero!”). E sugli scogli si sfascia la sua nave:

Ed il prato fiorito era nel mare,

nel mare liscio come un cielo; e il canto

non risonava delle due Sirene,

ancora, perché il prato era lontano.

E il vecchio Eroe sentì che una sommessa

forza, corrente sotto il mare calmo,

spingea la nave verso le Sirene;

e disse agli altri d’inalzare i remi:

     La nave corre ora da sé, compagni!

Non turbi il rombo del remeggio i canti

delle Sirene. Ormai le udremo. Il canto

placidi udite, il braccio su lo scalmo.

     E la corrente tacita e soave

più sempre avanti sospingea la nave.

(…)

     E il vecchio vide che le due Sirene,

le ciglia alzate su le due pupille,

avanti sé miravano, nel sole

fisse, od in lui, nella sua nave nera.

E su la calma immobile del mare,

alta e sicura egli inalzò la voce.

     Son io! Son io, che torno per sapere!

Ché molto io vidi, come voi vedete

me. Sì; ma tutto ch’io guardai nel mondo,

mi riguardò; mi domandò: Chi sono?

     E la corrente rapida e soave

più sempre avanti sospingea la nave.

     E il Vecchio vide un grande mucchio d’ossa

d’uomini, e pelli raggrinzate intorno,

presso le due Sirene, immobilmente

stese sul lido, simili a due scogli.

     Vedo. Sia pure. Questo duro ossame

cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!

Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,

prima ch’io muoia, a ciò ch’io sia vissuto!

     E la corrente rapida e soave

più sempre avanti sospingea la nave.

     E s’ergean su la nave alte le fronti,

con gli occhi fissi, delle due Sirene.

     Solo mi resta un attimo. Vi prego!

Ditemi almeno chi sono io! chi ero!

     E tra i due scogli si spezzò la nave.


Ma le onde del mare lo trasportano fin sulla spiaggia dell’isola di Calypso, la Nasconditrice (tale è il significato del suo nome, dal greco kalýptein, nascondere). La dea (l’unica che dunque esiste veramente) ritrova morto l’uomo che rifiutò il suo amore e rifiutò l’immortalità che lei gli offriva, per ritornare al mare e al suo dolore:


E il mare azzurro che l’amò, più oltre

spinse Odisseo, per nove giorni e notti,

e lo sospinse all’isola lontana,

alla spelonca, cui fioriva all’orlo

carica d’uve la pampinea vite.

(…)

Ed ella che tessea dentro cantando,

presso la vampa d’olezzante cedro,

stupì, frastuono udendo nella selva,

e in cuore disse: Ahimè, ch’udii la voce

delle cornacchie e il rifiatar dei gufi!

(…)

In odio hanno gli dei la solitaria

Nasconditrice. E ben lo so, da quando

l’uomo che amavo, rimandai sul mare

al suo dolore. O che vedete, o gufi

dagli occhi tondi, e garrule cornacchie?

     Ed ecco usciva con la spola in mano,

d’oro, e guardò. Giaceva in terra, fuori

del mare, al piè della spelonca, un uomo,

sommosso ancor dall’ultima onda: e il bianco

capo accennava di saper quell’antro,

tremando un poco; e sopra l’uomo un tralcio

pendea con lunghi grappoli dell’uve.

     Era Odisseo: lo riportava il mare

alla sua dea: lo riportava morto

alla Nasconditrice solitaria,

all’isola deserta che frondeggia

nell’ombelico dell’eterno mare.

Nudo tornava chi rigò di pianto

le vesti eterne che la dea gli dava;

bianco e tremante nella morte ancora,

chi l’immortale gioventù non volle.

     Ed ella avvolse l’uomo nella nube

dei suoi capelli; ed ululò sul flutto

sterile, dove non l’udia nessuno:

Non esser mai! non esser mai! più nulla,

ma meno morte, che non esser più!


Ed è lei, Calypso, che svela l’attesa verità: “Non esser mai! Non esser mai! Più nulla, / ma meno morte, che non esser più!”; il segreto è il non essere mai nato; questo, rispetto alla morte, al “non esser più”, è un nulla maggiore, un “più nulla”, ma meno doloroso della morte, “meno morte”, in quanto esclude l’attraversamento della vita, l’esperienza del dolore e, soprattutto, la coscienza del nulla da cui si emerge e in cui si precipita). E dunque il vecchio Ulisse è come un Don Chisciotte cui Sancho Panza mostra l’inconsistenza dei suoi sogni: non sirene, ma scogli, non il ciclope, ma un vulcano (non i giganti, ma i mulini a vento). La vita eroica è pura illusione, esiste nel canto degli aedi, nel sogno, nel ricordo (nei romanzi di cavalleria, per Don Chisciotte); nella vita reale esiste la banalità del quotidiano, incapace di riempire di senso la vita. Ma d’altra parte non c’è altro senso che quello rivelato da Calypso, ed è la terribile verità della sapienza silenica.



17) Il sonno di Odisseo (dai Poemi conviviali). Partendo del testo omerico (Odissea, X, 28-55) che racconta in pochi versi del momento in cui, dopo nove giorni di navigazione, i compagni di Ulisse, invidiosi delle ricchezze che presumono che lui stia portando ad Itaca, aprono gli otri in cui Eolo aveva benevolmente rinchiusi i venti contrari alla navigazione, Pascoli costruisce un poemetto (sette strofe) carico di significati allusivi ed inquietanti (come è proprio della sua sensibilità). E’ un componimento particolarmente elaborato, sia per l’uso insistito di espressioni omeriche (la nera nave, l’eccelsa casa, l’asta dalla bronzea punta, ecc.), sia per la struttura perfettamente circolare, segnalata dai versi finali delle strofe e da una fitta rete di richiami, parallelismi, simmetrie.  Ulisse vede all’orizzonte “non sapea che nero: nuvola o terra?”, ma sfinito si addormenta. Le strofe che seguono descrivono l’avvicinarsi della nave all’isola e, come in una ripresa cinematografica, il comparire del porcaro Eumeo intento al suo lavoro, dell’ “eccelsa casa” di Ulisse (da cui si sente provenire il suono del “garrulo telaio” di Penelope), di Telemaco che aspetta nel porto appoggiato alla lancia “dalla bronzea punta”, del cane Argo che corre scodinzolando, di Laerte che interrompe il lavoro dei campi per guardare “l’infinito mare” appoggiato alla marra. Ma poi gli otri vengono aperti, la nave è trascinata lontano, Odisseo si sveglia e vede ancora quel “non sapea che nero”.

I

Per nove giorni, e notte e dì, la nave

nera filò, ché la portava il vento

e il timoniere, e ne reggeva accorta

la grande mano d’Odisseo le scotte;

né, lasso, ad altri le cedea, ché verso

la cara patria lo portava il vento.

Per nove giorni, e notte e dì, la nera

nave filò, né l’occhio mai distolse

l’eroe, cercando l’isola rupestre

tra il cilestrino tremolìo del mare;

pago se prima di morir vedesse

balzarne in aria i vortici del fumo.

Nel decimo, là dove era vanito

il nono sole in un barbaglio d’oro,

ora gli apparse non sapea che nero:

nuvola o terra? E gli balenò vinto

dall’alba dolce il grave occhio: e lontano

s’immerse il cuore d’Odisseo nel sonno.


II


     E venne incontro al volo della nave,

ecco, una terra, e veleggiava azzurra

tra il cilestrino tremolìo del mare;

e con un monte ella prendea del cielo,

e giù dal monte spumeggiando i botri (scoscesi fossati)

scendean tra i ciuffi dell’irsute stipe; (sterpi spinosi)

e ne’ suoi poggi apparvero i filari

lunghi di viti, ed a’ suoi piedi i campi

vellosi della nuova erba del grano:

e tutta apparve un’isola rupestre,

dura, non buona a pascere polledri,

ma sì di capre e sì di buoi nutrice:

e qua e là sopra gli aerei picchi

morian nel chiaro dell’aurora i fuochi

de’ mandrïani; e qua e là sbalzava

il mattutino vortice del fumo,

d’Itaca, alfine: ma non già lo vide

notando il cuore d’Odisseo nel sonno.


III


     Ed ecco a prua dell’incavata nave

volar parole, simili ad uccelli,

con fuggevoli sibili. La nave

radeva allora il picco alto del Corvo

e il ben cerchiato fonte; e se n’udiva

un grufolare fragile di verri;

ed ampio un chiuso si scorgea, di grandi

massi ricinto ed assiepato intorno

di salvatico pero e di prunalbo;

ed il divino mandrïan dei verri,

presso la spiaggia, della nera scorza

spogliava con l’aguzza ascia un querciolo

e grandi pali a rinforzare il chiuso

poi ne tagliò coi morsi aspri dell’ascia;

e sì e no tra lo sciacquìo dell’onde

giungeva al mare il roco ansar dei colpi,

d’Eumeo fedele: ma non già li udiva

tuffato il cuore d’Odisseo nel sonno.


IV


     E già da prua, sopra la nave, a poppa,

simili a freccie, andavano parole

con fuggevoli fremiti. La nave

era di faccia al porto di Forkyne;

e in capo ad esso si vedea l’olivo,

grande, fronzuto, e presso quello un antro:

l’antro d’affaccendate api sonoro,

quando in crateri ed anfore di pietra

filano la soave opra del miele:

e si scorgeva la sassosa strada

della città: si distinguea, tra il verde

d’acquosi ontani, la fontana bianca

e l’ara bianca, ed una eccelsa casa:

l’eccelsa casa d’Odisseo: già forse

stridea la spola fra la trama, e sotto

le stanche dita ricrescea la tela,

ampia, immortale... Oh! non udì né vide

perduto il cuore d’Odisseo nel sonno.


V


     E su la nave, nell’entrare il porto,

il peggio vinse: sciolsero i compagni

gli otri, e la furia ne fischiò dei venti:

la vela si svoltò, si sbatté, come

peplo, cui donna abbandonò disteso

ad inasprire sopra aereo picco:

ecco, e la nave lontanò dal porto;

e un giovinetto stava già nel porto,

poggiato all’asta dalla bronzea punta:

e il giovinetto sotto il glauco olivo

stava pensoso; ed un veloce cane

correva intorno a lui scodinzolando:

e il cane dalle volte irrequïete

sostò, con gli occhi all’infinito mare;

e com’ebbe le salse orme fiutate,

ululò dietro la fuggente nave:

Argo, il suo cane: ma non già l’udiva

tuffato il cuore d’Odisseo nel sonno.


VI


     E la nave radeva ora una punta

d’Itaca scabra. E tra due poggi un campo

era, ben culto; il campo di Laerte;

del vecchio re; col fertile pometo;

coi peri e meli che Laerte aveva

donati al figlio tuttavia fanciullo;

ché lo seguiva per la vigna, e questo

chiedeva degli snelli alberi e quello:

tredici peri e dieci meli in fila

stavano, bianchi della lor fiorita:

all’ombra d’uno, all’ombra del più bianco,

era un vecchio, poggiato su la marra:

il vecchio, volto all’infinito mare

dove mugghiava il subito tumulto,

limando ai faticati occhi la luce,

riguardò dietro la fuggente nave:

era suo padre: ma non già lo vide

notando il cuore d’Odisseo nel sonno.


VII


     Ed i venti portarono la nave

nera più lungi. E subito aprì gli occhi

l’eroe, rapidi aprì gli occhi a vedere

sbalzar dalla sognata Itaca il fumo;

e scoprir forse il fido Eumeo nel chiuso

ben cinto, e forse il padre suo nel campo

ben culto: il padre che sopra la marra

appoggiato guardasse la sua nave;

e forse il figlio che poggiato all’asta

la sua nave guardasse: e lo seguiva,

certo, e intorno correa scodinzolando

Argo, il suo cane; e forse la sua casa,

la dolce casa ove la fida moglie

già percorreva il garrulo telaio:

guardò: ma vide non sapea che nero

fuggire per il violaceo mare,

nuvola o terra? e dileguar lontano,

emerso il cuore d’Odisseo dal sonno.


Non sappiamo se tutto ciò che è stato descritto sia apparso realmente mentre Ulisse dormiva, o si sia trattato di un sogno: le formule verbali o avverbiali che introducono le apparizioni sono volutamente ambigue (“e venne incontro”, “apparve”, “ed ecco”, ecc.). Ma l’ipotesi del sogno sembra più convincente: le immagini appaiono in una loro fissità a-temporale (come è proprio del ricordo e del sogno) e il preciso parallelismo fra il momento dell’addormentamento e quello del risveglio fanno pensare che l’unica cosa reale che Ulisse vede sia quel “non sapea che nero (allusione al male, alla morte?) e che tutto ciò che sta nel mezzo sia la visione sognata (espressione di un desiderio che mai si realizza, sempre sfugge?), come sembra testimoniare l’uso ripetuto del “forse” nell’ultima strofa.