venerdì 31 luglio 2015

Parini: la vita e l'opera

Parini
La vita
Figlio di un modesto negoziante di seta, nacque a Bosisio, in Brianza, nel 1729. Nel 1752 pubblicò la raccolta Alcune poesie di Ripano Eupilino[1], di chiara impronta arcadica. Nel 1754 fu ordinato sacerdote, rispettando la volontà di una prozia che, in punto di morte, aveva condizionato quella scelta di vita all’eredità di una piccola rendita annua. Nello stesso anno entrò al servizio del duca Serbelloni come precettore dei figli, nel 1762 lasciò il Serbelloni (dopo una discussione con la duchessa, che aveva maltrattato la figlia del maestro di musica) e passò presso il conte Imbonati, come precettore del figlio Carlo. La fama di letterato impegnato civilmente (fra il 1756 e il 1769 scrive le Odi civili: La salubrità del’aria, L’innesto del vaiuolo, Il bisogno, L’evirazione, ecc.; fra il 1763 e il 1765 pubblica le prime due parti del Giorno: il Mattino e il Mezzogiorno)  gli valse prima l’ammissione all’Accademia dei Trasformati[2] e poi, negli anni dell’illuminato e riformatore governo di Maria Teresa, l’invito ad assumere incarichi ufficiali nell’amministrazione dello Stato (la cattedra di “belle lettere” presso le Scuole Palatine, la sovrintendenza nelle scuole di Brera, la partecipazione a varie commissioni governative). Ma quando a Maria Teresa succedette Giuseppe II – un riformatore autoritario, intenzionato a favorire lo sviluppo delle scienze e ad asservire la letteratura – Parini, come altri intellettuali illuministi, scelse il disimpegno. Una scelta che si accentuò quando la rivoluzione francese, pur accolta agli inizi con favore e speranza, degenerò negli eccessi del Terrore; e vieppiù nel 1796, quando i Francesi entrarono in Milano. Sono gli anni delle ultime Odi, in cui si affievoliscono i motivi polemici della battaglia illuminista: emerge la figura morale del poeta (ne La caduta, 1784, esprime la fierezza per la propria dignitosa ed incorrotta povertà) e compaiono i tipici temi neo-classici (Il pericolo, Il dono, Il messaggio, Alla musa: si esaltano la bellezza e la forza trasfiguratrice della poesia); e sono anche gli anni del lavoro, rimasto incompiuto, sulle ultime due parti del Giorno (il Vespro e la Notte), della revisione (improntata, sempre secondo i canoni neo-classici, alla ricerca di una maggiore chiarezza, semplicità ed equilibrio) delle prime due parti. Morì nel 1799, pochi mesi dopo il ritorno degli Austriaci a Milano.
La posizione ideologica
La sua posizione ideologica fu sempre quella di un moderato riformismo, e quindi di diffidenza nei confronti degli estremismi sia anti-religiosi che egualitari. In particolare, per quest’ultimo aspetto, va detto che la critica alla nobiltà è critica alla degenerazione di una classe sociale che è divenuta, oltre che immorale[3], oziosa e improduttiva, sperpera la ricchezza, non si adopera – con gli investimenti produttivi, con gli studi, con l’impegno politico – per il progresso  e per il benessere della collettività. E’ dunque una classe sociale che non va eliminata, ma rieducata ai fini di un suo reinserimento produttivo nel corpo sociale.[4] Da notare anche come, sul piano economico, in contrapposizione ai fratelli Verri (che guardavano all’Inghilterra come modello e si battevano per uno sviluppo commerciale e industriale, fiancheggiando la classe sociale, la borghesia, portatrice di tale interesse), Parini (certamente influenzato dalla sua formazione letteraria che esaltava la sanità della campagna e deprecava la corruzione della città)  sia un sostenitore del primato dell’agricoltura (e quindi, oggettivamente, un difensore degli interessi della nobiltà fondiaria)[5].
La poetica
Parini, pur condividendo con la cultura settecentesca l’entusiasmo per la scienza e l’idea di una utilità civile della letteratura (lo sostiene nel Discorso sopra la poesia, del 1768, e lo dimostra praticamente nelle sue Odi civili, ispirate da problemi di stringente attualità[6]) resta convinto del valore e dell’autonomia del bello poetico: si tratta di miscere utile dulci, secondo il precetto oraziano, o, come dice lui stesso a conclusione de La salubrità dell’aria, “va per negletta via / ognor l’util cercando / la calda fantasia, / che sol felice è quando / l’utile unir può al vanto / di lusinghevol canto”. In particolare la poesia, secondo la cosiddetta poetica del sensismo (una poetica chiaramente influenzata dalle teorie di Condillac, per il quale le sensazioni fisiche sono prioritarie e determinanti la stessa vita spirituale dell’uomo), deve essere capace di stimolare la vita interiore destando forti sensazioni, attraverso l’uso di parole energiche e precise (icastiche), che suscitino nel lettore immagini intensamente visive, tattili, foniche, olfattive.[7] Pur tuttavia Parini non riesce a distaccarsi dal linguaggio consacrato dalla tradizione classica: si conservano i latinismi, l’aggettivazione esornativa[8] e  i riferimenti mitologici[9], la sintassi mantiene la complessità e le inversioni proprie[10] del periodare latino.[11]
Un’ode esemplare
La salubrità dell’aria (1759) è un testo esemplare della poesia di impegno civile. La contrapposizione città-campagna evocata nelle prime strofe sembra riproporre un tradizionale tema arcadico. E certamente il filtro letterario è rintracciabile sia in certe espressioni (“oh fortunate genti” riecheggia il virgiliano “oh fortunatos nimium, sua si bona norint, agricolas!”), sia nel modo in cui il poeta rappresenta se stesso (sotto una “fresc’ombra”, con “la mente sgombra”, intento a cantare il lavoro dei contadini). Ma a uno sguardo attento non può sfuggire che quei contadini brianzoli sono vivi e reali, quelle contadine dai “baldanzosi fianchi” non sono le Filli e le Amarilli della poesia pastorale; che quella campagna non corrisponde al topos del locus amoenus, ma è una campagna concreta, vista con lo spirito scientifico dell’igienista (ci sono effetti fisiologici di quell’aria salubre) e del geografo (c’è una configurazione fisica del territorio che determina un clima favorevole); e che anche la città non è vista genericamente (e letterariamente) come il luogo delle passioni corrotte, ma come un luogo concreto in cui la salute pubblica è messa a rischio sia dagli speculatori che badano soltanto al loro profitto (portano malattie le acque stagnanti delle risaie e delle marcite[12], a ridosso della città), sia dall’inerzia di chi tollera (cittadini e amministratori) condizioni igieniche inaccettabili (orinali svuotati dalle finestre, carogne di animali abbandonate per la strada, carri-cisterna che raccolgono i liquami dei pozzi neri).
Il Giorno
Il Giorno è un poemetto satirico-didascalico in endecasillabi sciolti, a cui Parini lavorò fino alla morte. Le prime due parti, il Mattino e il Mezzogiorno, furono pubblicate rispettivamente nel 1763 e 1765; l’opera di revisione cui si accinse successivamente rimase incompiuta, talchè ci restano solo delle redazioni manoscritte; la terza parte, la Sera, fu sdoppiata in il Vespro e la Notte, ma anche queste parti non furono portate a termine e risultano frammentarie.
L’impianto si basa su una finzione, per cui il poeta si presenta al lettore come “precettore d’amabil rito” nei confronti del “giovin signore”, cioè come colui che intende insegnare al giovane aristocratico in quali modi e con quali attività deve occupare la sua giornata. Il poema ha dunque anzitutto una struttura non narrativa, ma descrittiva: non si narra lo sviluppo di una vicenda, ma si descrive la giornata tipo dell’aristocratico settecentesco. In secondo luogo è evidente l’impostazione antifrastica, perché il precettore finge di appartenere a quello stesso mondo, ne loda i comportamenti futili e immorali che si dispiegano durante la giornata, ma il lettore non può non avvertire l’enfasi ironica, e dunque la condanna e il disgusto del poeta per quella classe sociale improduttiva, parassitaria e sprezzante della vita umana. Valgano come esempio, oltre alle parti in cui il “giovin signore” adempie al suo compito di “cavalier servente” (o cicisbeo), la descrizione iniziale del rientro a palazzo, quindi del risveglio e della colazione dello stesso o l’episodio della “vergine cuccia”.
Il “giovin signore” ritorna a casa dopo i bagordi notturni (ha passato la notte “tra le veglie e le canore scene / e il patetico gioco”) e, dopo essersi deliziato con “pruriginosi cibi” e vini raffinati, chiude gli occhi quando il gallo “li suole aprire altrui”. Tutto ciò, in forte contrasto con la vita del contadino e dell’artigiano (precisamente, un fabbro), che la sera si sono seduti “a parca mensa”, poi si sono coricati “in male agiate piume”, quindi all’alba si alzano per andare l’uno a lavorare i campi e l’altro a riaprire “la sonante officina”. Il “giovin signore” si sveglia in tarda mattinata (con la massima attenzione i servi scostano le tende per non fare entrare troppa luce, e lui sbadiglia arcuando deliziosamente la bocca; a contrasto con la bocca “sgangherata” di un capitano che all’alba grida i suoi ordini alle truppe) e un “damigello” lo invita a scegliere per colazione il caffè o la cioccolata: e certo “fu dritto” – commenta ironicamente il precettore-poeta – che i conquistadores massacrassero gli indigeni dell’America Latina con le armi da fuoco “poiché nuove così venner delizie, / o gemma degli eroi, al tuo palato”.
Esemplare l’episodio della “vergine cuccia”. Durante il pranzo un vegetariano, poco sensibile alle sofferenze umane, esprime la sua compassione per gli animali destinati al macello. Ciò suscita la commozione dell’uditorio, in particolare della dama del “giovin signore”, la quale ricorda il terribile evento di quando la sua cagnetta (“vergine cuccia de le Grazie alunna”), avendo morso (“giovanilmente vezzeggiando”) il piede di un servo, fu da questi scalciata. Al servo non valsero meriti precedenti, pentimento e preghiere: fu licenziato e, come autore di tale “misfatto atroce”, non fu più assunto da alcun casato; finì per la strada a chiedere l’elemosina.
Che l’atteggiamento del poeta nei confronti del mondo nobiliare sia di ferma condanna è indubbio. Tuttavia si può ravvisare una sottile ambiguità, traspare, in certe dettagliate descrizioni di oggetti e rituali, una sorta di compiacimento sensuale nel rappresentare l’eleganza e la raffinatezza di quel mondo. Del resto la polemica antinobiliare – in corrispondenza con la delusione storica, e quindi con la disaffezione per l’impegno militante, determinata dai modi impositivi di Giuseppe II e poi dagli estremismi della rivoluzione francese – sembra attenuarsi nelle ultime due parti: l’asprezza dello sdegno morale sembra cedere il passo ad una satira di costume, che mette in ridicolo i passatempi maniacali degli oziosi aristocratici[13] o le schermaglie amorose tra il “giovin signore” e la sua dama. Infine la stessa revisione delle prime due parti segnala, a livello del lessico e della sintassi, delle scelte certamente improntate alla ricerca di una maggiore compostezza ed armonia secondo i canoni del neo-classicismo, ma anche il venir meno dell’originario spirito battagliero.[14]
 
 
 
 
 
 


[1] Ripano è l’anagramma di Parino (è il vero cognome del poeta, che poi lo modificò in Parini), Eupili è il nome latino del lago di Pusiano, presso cui il poeta era nato.
[2] I Trasformati erano moderati, fautori di una conciliazione fra la tradizione classica e le esigenze di una letteratura impegnata. Al contrario, l’Accademia dei Pugni (di cui facevano parte i fratelli Verri e Cesare Beccaria) era più decisamente battagliera, anti-purista sulla questione della lingua (Alessandro Verri aveva scritto la Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca) e anticlassicista in letteratura.
[3] Ne è prova evidente la pratica diffusa del cicisbeismo, che mina il valore della famiglia, in quanto non è altro che una forma di legalizzazione dell’adulterio.
[4] E’ vero che nel Dialogo sulla nobiltà (1757: un nobile e un poeta di origine plebea, nella stessa sepoltura, discutono della reale consistenza della nobiltà e concludono sulla assoluta uguaglianza degli uomini) si sottolinea come essa abbia avuto origine non dai meriti, ma dalla violenza e dalla rapina (tesi cui si accenna anche nella favola del Piacere del Mezzogiorno); tuttavia nella revisione del Mattino (nell’episodio dei ritratti degli antenati) si riconosce una funzione positiva alla nobiltà del passato, capace di difendere la patria con le armi e di ricoprire proficuamente cariche pubbliche.
[5] In ciò concorda con le teorie della scuola fisiocratica, secondo cui solo l’agricoltura è fonte di ricchezza (ciò che i contadini producono serve non solo a soddisfare i loro bisogni, ma anche quelli di tutte le altre classi).
[6] Ne L’innesto del vaiuolo esalta il progresso della medicina che sta sperimentando l’inoculazione dei germi della malattia per ottenere l’immunizzazione; ne Il bisogno riprende le idee di Beccaria secondo cui è la miseria a generare il crimine, che quindi va prevenuto piuttosto che punito; ne L’evirazione polemizza contro l’usanza di evirare i giovani cantanti per mantenere loro la voce da soprano.
[7] Ne La salubrità dell’aria: polmon capace”, “dorsi molli”, “fetido limo”, “vaganti latrine”, “Sali malvagi”, “aliti corrotti”.  Nel Giorno: “patetico gioco”, “pruriginosi cibi”, ecc..
[8] Nel Giorno: “cimmeria nebbia”, “nettarea bevanda”.
[9] Ne La salubrità dell’aria è Temi, dea della giustizia, che minaccia pene a chi inquina; nel Giorno per parlare della vanga e della zappa del contadino si richiamano Cerere e Pale, divinità dell’agricoltura e della pastorizia; ecc..
[10] Ne La salubrità dell’aria: “alta di monti schiena”.
[11] Già Manzoni avvertiva il contrasto tra una forma tradizionale e un contenuto nuovo.
[12] Qui si inserisce una polemica sdegnosa, ripresa poi nella chiusa del Mattino, nei confronti della nobiltà che con quel fieno nutre i propri cavalli, da attaccare alle proprie carrozze e quindi correre per le strade travolgendo con noncuranza la plebe appiedata.
[13] Nella Notte i due amanti si ritrovano ospiti nel palazzo di un’anziana dama e qui si descrive una galleria di personaggi con manie di comportamento: uno suona la tromba, un altro fa schioccare una frusta, un terzo disfa degli arazzi trasformandoli in matasse di fili.
[14] Valgano due esempi: l’epiteto sprezzante di “stallone ignobil de la razza umana” riferito al marito della dama, è sostituito dal meno incisivo “ignobil fabbro”; il v. 60 del Mattino (“come è dannato a far l’umile volgo”), riferito alla vita misera e faticosa del contadino che a sera si deve coricare in “male agiate piume”, diventa “qual nei tuguri suoi / entro a rigide coltri il volgo vile”, dove si perde la sdegnata denuncia morale implicita in quel “dannato”.

giovedì 30 luglio 2015

Lettura de La locandiera di Goldoni

Lettura de La locandiera (1753)
 
 La commedia rappresenta al meglio la novità del teatro goldoniano: non solo i caratteri individuali sono presentati nella ricchezza delle loro sfumature psicologiche, ma tali caratteri appaiono anche determinati dall’ambiente sociale cui appartengono, talchè la locanda propone (pur essendo la commedia, per ragioni di opportunità, ambientata a Firenze) uno spaccato esemplare della società veneziana del tempo.
Il Marchese di Forlimpopoli e il Conte di Albafiorita rappresentano due varianti della nobiltà: la prima è quella della nobiltà decaduta e impoverita, che però resta attaccata alle apparenze, pretende privilegi e ostenta un lusso che non ha più (il Marchese regala a Mirandolina un misero fazzoletto ed offre il “vin di Cipro” che la locandiera paragona a “lavature di fiaschi”); la seconda è quella della nobiltà di recente acquisto, fondata non sull’antichità e sul prestigio del sangue, ma sulla ricchezza (di cui il conte fa continuo e smaccato sfoggio). Ma, a ben guardare, anche il carattere del Cavaliere di Ripafratta ben rappresenta un tipo di aristocratico, sicuro della propria superiorità sociale e dunque sprezzante nei confronti dei subalterni (il suo atteggiamento ruvido e sgarbato nei confronti di Mirandolina – ad esempio, nell’episodio della biancheria, quando la tratta come una serva – si spiega, sì, con la sua misoginia, ma vuole anche essere un insegnamento ai due spasimanti di come deve comportarsi un nobile con una popolana). Mirandolina, a sua volta, che, con la sua civetteria calcolata, con la sua capacità di fingere, è, sì, impegnata in una sfida tesa ad abbattere le resistenze del cavaliere, ma si dimostra abile nel gestire la locanda e determinata nel fare i propri interessi, corrisponde alla figura del mercante. Il servitore Fabrizio è di condizione sociale più bassa[1]: è sinceramente innamorato di Mirandolina, allo stesso tempo però aspira al salto di classe, sposandola e diventando padrone della locanda.
Naturalmente il personaggio di Mirandolina è quello psicologicamente più ricco di sfumature. Possiede le caratteristiche positive del mercante (laboriosità, senso pratico), ma, in maggior misura, quelle negative: specula sul proprio fascino per attrarre i clienti ed ottenere profitto; si vende (psicologicamente, anche se non fisicamente), visto che accetta i doni degli spasimanti (non solo il misero fazzoletto di seta dal Marchese, ma, dal Conte, i ben più preziosi orecchini prima e un gioiello poi, sempre di diamanti; infine, la boccetta d’oro dal Cavaliere). Che sia non tanto una graziosa e maliziosa damina settecentesca, ma una cinica calcolatrice lo capiamo dagli “a parte”, quando smette il suo linguaggio appropriato ed ossequioso e rivela, con espressioni volgari, la sua vera natura di piccola borghese attaccata al denaro[2].
Il movente specifico, poi, dell’impresa cui si accinge (la vittoria sul Cavaliere) non si può ridurre alla volontà di vendicare il genere femminile (alla rivalsa “sessista”): c’è anche una rivalsa “classista”, c’è il desiderio di umiliare quel nobile altezzoso che vuole degradare ad una condizione servile lei, piccola borghese, ma abituata farsi riverire dai nobili. Ma in lei c’è anche una buona dose di narcisismo[3]: dichiara di volere vendicare tutto il genere femminile, in realtà pensa solo a se stessa, al fatto che dal Cavaliere le è negata la solita adorazione degli spasimanti. Ed è un narcisismo che si completa con una sorta di ossessione del potere sugli altri, sui nobili così come sui subalterni (con Fabrizio, a cui si promette nel finale, è sempre la padrona: vuole essere ubbidita senza discussioni): ne consegue che il suo orgoglio è ferito non tanto dal fatto che qualcuno disprezzi le donne, quanto dal fatto che qualcuno si sottragga al suo potere. In tal senso si può parlare per lei di una aridità (o frigidità) sentimentale (pur mascherata con l’alibi di voler conservare la sua libertà), una aridità che si manifesta come segreta avversione per gli uomini[4] (dunque simmetrica a quella del Cavaliere per le donne).
Apparentemente marginali sono le figure delle due attricette di teatro, Ortensia e Dejanira, che a un certo punto arrivano alla locanda e, oltre a civettare con il Conte ed il Marchese al fine di ottenere qualche compenso materiale (una cena, qualche dono), tentano di sedurre anche il Cavaliere. Da commedianti quali sono, recitano una parte, ovvero quella delle donne lusingatrici, sinceramente colpite dal fascino di quei nobili. Ma non sono brave nella loro finzione, tant’è che il Cavaliere le smaschera subito e le scaccia. Perciò risalta, per contrapposizione, l’abilità recitativa di Mirandolina: è lei la vera attrice capace di fingere con naturalezza, è lei che recita una parte (quella della donna che non apprezza i corteggiamenti e pertanto ammira il Cavaliere) con tanta abilità da apparire sincera (tant’è che trionfa laddove le due commedianti hanno fallito). Per questo aspetto si potrebbe dire che assistiamo al “teatro nel teatro”, visto che Mirandolina recita una commedia all’interno della commedia; ma anche alla riproposizione della polemica goldoniana contro gli stereotipi della commedia dell’arte, in nome di un “teatro” che rappresenti la verità del “mondo”: Ortensia e Dejanira sono infatti l’espressione di quella recitazione in maschera, di maniera e ripetitiva, facilmente riconoscibile nella sua finzione; Mirandolina invece non è una maschera, è un individuo che appartiene al mondo reale, la sua recitazione, spontanea e non di maniera, non consente di distinguere il “mondo” dal “teatro”.
Anche il finale è più complesso di quanto non sembri a prima vista. Apparentemente Mirandolina ha vinto, costringendo il Cavaliere a confessare il suo innamoramento, ma è anche sconfitta nel momento in cui si vede costretta a porre fine al suo comportamento e a sposare Fabrizio. Ed è costretta perché ha visto che quel comportamento è rischioso (il Cavaliere, pazzo d’amore, minaccia di farle violenza): il rischio, per il mercante borghese (la locandiera), è quello di perdere il buon nome e con esso quello dell’azienda (la locanda), con inevitabili ripercussioni economiche. Dunque è conveniente rinunciare alla libertà ed accettare il matrimonio, per salvare l’onorabilità e trovare la indispensabile protezione maschile.
Ma – al di là della buon insegnamento morale che ci vuole impartire con le parole edificanti pronunciate nell’ultima battuta[5]Mirandolina non ha cambiato natura: semplicemente, si accontenterà di soddisfare la sua volontà di potenza nel ristretto ambito famigliare. Il suo cinismo calcolatore traspare nello scambio di battute con Fabrizio (prima lo maltratta con durezza: “Che patti? Il patto è questo: o dammi la mano o vattene al tuo paese”; poi lo blandisce: “Ma poi, sì, caro, sarò tutta tua; non dubitare di me, ti amerò sempre, sarai l’anima mia”) e si rivela pienamente nell’a parte conclusivo (“Anche questa è fatta”).
 


[1] Forse è un contadino inurbato, visto che nell’ultima scena Mirandolina minaccia di rimandarlo al suo paese.
[2]Che arsura! Non gliene cascano”, dice del Marchese spiantato (1°, V). O ancora (in 1°, IX), in un monologo ricco di espressioni gergali e termini crudi: “Mi piace l’arrosto, del fumo non so che farne”.
[3]Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata” (1°, IX).
[4]Tratto con tutti, ma non m’innamoro mai di nessuno” (1°, IX).
[5]Cambiando stato, voglio cambiar costume; e lor signori ancora profittino di quanto hanno veduto, in vantaggio e sicurezza del loro cuore; e quando mai si trovassero in occasioni di dubitare, di dover cedere, di dover cadere, pensino alle malizie imparate, e si ricordino della Locandiera.” 

Goldoni e la riforma della commedia

Goldoni e la riforma della commedia
 
Nasce a Venezia nel 1707, da famiglia borghese. Al seguito del padre medico, studia a Perugia, poi a Rimini[1], poi giurisprudenza all’università di Pavia, con interruzioni[2], fino al conseguimento della laurea a Padova. Scoperta la propria vocazione per il teatro, abbandona l’attività di avvocato e si dedica a quella di scrittore di testi teatrali[3]. Nel 1762 viene invitato a Parigi a dirigere la Comédie Italienne. Entrato nelle grazie della corte, gli fu concessa una modesta pensione, che però, scoppiata la rivoluzione, gli fu tolta dall’Assemblea legislativa in quanto concessa dal re (1792). Morì nel 1793, proprio nel giorno in cui la stessa Assemblea decretava la restituzione della sua pensione, riconoscendo nelle sue commedie “un presagio della caduta del dispotismo”.
Già questo riconoscimento ci fa capire come l’opera di Goldoni riflettesse le nuove idee del razionalismo illuminista e della classe sociale, la borghesia operosa e concreta, che si stava imponendo sul piano economico e politico[4]. Non ci sono nella sua opera estremismi radicali, ma c’è, a fronte della superbia e dell’ozio parassitario dei nobili, l’apprezzamento per i buoni valori borghesi (fedeltà agli impegni presi, operosità, onestà, sollecitudine per il bene della famiglia) e per la tranquilla convivenza tra i vari ceti. Per questo in commedie come I rusteghi e Sior Todero brontolon è criticato il comportamento autoritario di padri di famiglia tradizionalisti nei confronti di mogli e figli: non si prospettano sovvertimenti dei costumi, ma si auspica un ragionevole equilibrio fra le esigenze della famiglia e quelle dell’individuo.
Del resto, la stessa riforma della commedia che Goldoni mette in atto corrisponde alle esigenze e alla sensibilità della nuova classe sociale. Si tratta del superamento della “commedia dell’arte” in nome della “commedia di carattere”.
La “commedia dell’arte” (detta anche “a soggetto” o “all’improvviso) aveva soppiantato la commedia dotta rinascimentale, sviluppandosi fra la metà del Cinquecento e la metà del Settecento. Sue caratteristiche erano: la recitazione “all’improvviso”, ovvero senza un copione scritto, ma sulla base di un semplice canovaccio (gli attori improvvisavano, disponendo di un repertorio di battute e lazzi[5], spesso osceni e sguaiati); la presenza di maschere, ovvero di personaggi che rappresentavano tipi fissi (peraltro già presenti nella commedia latina e nel teatro rinascimentale: il soldato fanfarone, il servo furbo, il vecchio avaro, il giovane scapestrato, ecc.; tale tipizzazione era sottolineata dall’uso di maschere vere e proprie, dall’abbigliamento, dalla gestualità, dalla parlata regionale); la recitazione, generalmente all’aperto, affidata a compagnie teatrali, composte da attori professionisti, non solo uomini, ma – grande novità – anche donne[6].
Tale tipo di commedia aveva esaurito la sua carica creativa ed era degenerata nella ripetitività e nella sguaiatezza delle battute.  La riforma goldoniana[7] intende recuperare la semplicità e la naturalezza della rappresentazione (ed è, per questo aspetto, un’intenzione che ben si colloca nell’ambito di quel razionalismo arcadico che vuole soppiantare il cattivo gusto del barocco)[8], ma vuole anche portare sulla scena la verità del mondo reale[9]. Dunque vanno eliminate le maschere tradizionali e vanno rappresentati gli individui concreti, con i loro caratteri unici, colti nella loro complessità psicologica e comportamentale. Tali caratteri individuali non sono concepiti in astratto, al di fuori del mondo realmente esistente, ma sono visti nel concreto e preciso contesto sociale (nell’“ambiente”) cui appartengono[10]. Pertanto è impropria la distinzione, che alcuni fanno, fra commedie di “carattere” e commedie di “ambiente”: i due aspetti coesistono, perché sempre un carattere è collocato in un preciso ambiente e sempre un ambiente determina i caratteri individuali.
La riforma richiede inoltre che la recitazione non sia più improvvisata, ma si basi su un preciso testo scritto: la ricchezza di sfumature della realtà vissuta poteva essere colta e rappresentata (il “mondo” poteva essere portato nel “teatro”) solo se lo scrittore (il “poeta di teatro”) produceva un copione dettagliato cui l’attore doveva attenersi fedelmente.
Tutto ciò incontrò in un primo tempo la resistenza sia degli attori (abituati ai modi della commedia dell’arte), sia del pubblico, sconcertato dal realismo delle commedie goldoniane in cui non trovava più gli intrighi complicati che lo avvincevano, le maschere che riconosceva e i lazzi che lo divertivano. Ma Goldoni ebbe l’intelligenza di procedere gradualmente, superando a poco a poco le resistenze e conquistando i gusti del pubblico.
La prima tappa è il Momolo cortesan (1738)[11], in cui solo la parte del protagonista è interamente scritta. Del 1743 è La donna di garbo, interamente scritta, ma ancora con le maschere (anche se, sotto la maschera, si intravede già il carattere individuale: Pantalone ha i connotati del mercante veneziano). Con la Pamela nubile (1750) anche le maschere vengono eliminate e sulla scena si ritrovano solo personaggi individuali. Con I rusteghi (1760) scompaiono i servi, figure tipiche della commedia sin dalla classicità.
In tal modo il pubblico borghese, che si riconosceva in quell’umanità rappresentata, cominciò ad apprezzare le commedie goldoniane. L’autore però, sapendo di mettere in scena – in una Venezia dominata da una oligarchia retriva e ostile alle innovazioni – la denuncia dei vizi della nobiltà, era costretto ad ambientare le sue commedie in altre città (valga l’esempio de La locandiera – ambientata a Firenze – in cui la superbia nobiliare, l’attaccamento alle forme esteriori, l’ostentazione della ricchezza sono attribuite rispettivamente a un cavaliere pisano, un marchese romagnolo, un conte napoletano).
Per altro, nella visione del mondo proposta ci sono delle incoerenze, dei ripensamenti: se la celebrazione delle virtù positive della borghesia mercantile (onesta, laboriosa, rispettosa degli impegni, a fronte di una nobiltà prepotente e parassitaria) è evidente nella prima fase (Momolo cortesan, La putta onorata, La buona moglie, La famiglia dell’antiquario, Il cavaliere e la dama)[12], assistiamo, in una fase più matura, ad una rappresentazione critica di quello stesso ceto sociale: il positivo senso dell’economia è visto come avarizia, al mercante aperto ed illuminato si sostituisce il “rustego”, ottusamente autoritario e incapace di aprirsi alle esigenze dei tempi. Esemplari sono due opere, I rusteghi del 1760 e Sior Todero brontolon del 1762, in cui è messo in scena il conflitto tra donne e giovani da un lato e vecchi retrivi dall’altro; ma anche nella trilogia della villeggiatura (Le smanie della villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura: 1761) la critica si appunta sui difetti di una borghesia che ha a cuore l’ostentazione della propria ricchezza, anche a prezzo della rovina.[13]
Capolavori sono Le baruffe chiozzotte (1762: c’è una riscoperta del popolo – sono i pescatori di Chioggia – cui sono attribuite quelle virtù positive che la borghesia veneziana aveva dimostrato di non avere; ma la condizione popolare è vista non nella sua tragicità, ma nelle piccolezze della quotidianità, nelle schermaglie sentimentali, nei futili pettegolezzi) e La locandiera (1753).
La lingua adottata è la cosiddetta “lingua italiana” (ovvero quella lingua – semplificata nella sintassi e nel lessico – che si parlava nella quotidianità da soggetti provenienti da diverse realtà regionali), arricchita da inserimenti dialettali lombardi e veneziani.[14] Più ricca e viva è la lingua più specificamente veneziana adottata nelle commedie in cui Goldoni si rivolge direttamente al pubblico della sua città.
 
 


[1] Di qui fuggì in barca con una compagnia di comici per raggiungere la madre a Chioggia (lo racconta nelle Memorie).
[2] Fu cacciato dal collegio Ghislieri per aver composto una satira sulle donne della città.
[3] Lavora a contratto per il capocomico Girolamo Medebac, che gli chiede otto commedie all’anno. Vivere della propria professione di letterato (tenendo dunque conto del mercato, ovvero dei gusti del pubblico pagante e non della cerchia ristretta degli intellettuali)  è già una grande novità rispetto alla tradizione.
[4] E’ una classe sociale vitale anche a Venezia, a dispetto del fato che lì il potere sia detenuto da una oligarchia aristocratica, tradizionalista e diffidente nei confronti di ogni innovazione.
[5] Erano dei brevi interventi comici che si intercalavano  -  senza alcun nesso con la vicenda – nel mezzo di una scena. Uno dei più vecchi e più usati, specialmente nei teatrini di fiera, era che, nel meglio d'una scena amorosa, Arlecchino (o altro zanni), comparso sul palcoscenico senza un perché al mondo, faceva ampia provvista di mosche e di pulci e fingeva di mangiarle. Da muti divennero parlanti, come, p. es., allorché, durante una discussione tempestosa fra i due "vecchi" (Pantalone e il Dottore), Arlecchino s'avanzava in punta di piedi e imponeva silenzio, ripetendo esasperantemente il giuoco quattro, cinque, dieci volte. Naturalmente, non potevano mancare i "lazzi a due", p. es., tra Brighella e Arlecchino. E infine c'erano i lunghi e complicati lazzi acrobatici, come, p. es., quando Arlecchino e Mezzettino, legati braccia a braccia e schiena a schiena, dovevano attingere il cibo da uno stesso piatto posto a terra. Via via si venne creando un repertorio di "lazzi", che negli scenarî del tempo erano indicati, almeno i più comuni e tradizionali, col solo titolo ("lazzo dell'orina fresca", "lazzo del piangere e ridere", "lazzo di frutti e baci", "lazzo di polso, orina e ricetta", ecc.).
[6] Ogni compagnia era composta da due Zanni (sono i servi, in genere, uno furbo e uno sciocco; solitamente, Brighella è il furbo, dello sciocco ci sono molte varianti: lo sono sia il bergamasco Arlecchino che il napoletano Pulcinella), due vecchi (detti anche “Magnifici”: in genere, Pantalone, veneziano, e Balanzone, bolognese, detto anche il Dottore, che sfoggiano, in modo maldestro e ridicolo, la loro erudizione); il Capitano (il soldato spaccone, ovvero il miles gloriosus di origine plautina; lo sono, ad esempio, Capitan Spaventa e Scaramuccia); i due innamorati (sono i soli che recitano senza maschera; possono esserlo Florindo e Rosaura, figlia di Balanzone, solitamente accompagnata da Colombina, servetta furba e maliziosa).
[7] Un tentativo di riforma c’era già stato , alla fine del ‘600, ad opera di Luigi Riccoboni, un comico dell’Arte, che si riproponeva di eliminare sia l’improvvisazione sia le maschere. Si cimentò sia in tragedie che in commedie, ma non ebbe particolare successo.
[8] La commedia dell’arte aveva intrecci complicati, difficili da disbrogliare: insisteva su equivoci, fraintendimenti, paradossi delle vicende.
[9] Lui stesso nella prefazione alla prima edizione delle sue commedie (1750) dice che per la sua riforma si è ispirato al “mondo” e al “teatro”, cioè ha inteso sia produrre testi di efficacia teatrale, che piacciano al pubblico, sia rappresentare il mondo reale, la società contemporanea, con i suoi problemi e con i suoi caratteri umani.
[10] Ad esempio (è un esempio che fa lo stesso Goldoni), la gelosia, pur essendo una passione comune a tutti gli uomini, si manifesta in modi diversi nei diversi ceti sociali (il nobile tende a nasconderla, il plebeo tende a darle aperto sfogo).
[11] Più tardi riscritta con il titolo L’uomo di mondo.
[12]Così il mercante Anselmo si rivolge al nobile Flaminio ne Il cavaliere e la dama: “Un vil mercante, un uomo plebeo? Se ella sapesse cosa vuol dir mercante, non parlerebbe così. La mercatura è una professione industriosa, che è sempre stata ed è anco al dì d'oggi esercitata da cavalieri di rango molto più di lei. La mercatura è utile al mondo, necessaria al commercio delle nazioni, e a chi l'esercita onoratamente, come fo io, non si dice uomo plebeo; ma più plebeo è quegli che per avere ereditato un titolo e poche terre, consuma i giorni nell'ozio e crede che gli sia lecito di calpestare tutti e di viver di prepotenza. L'uomo vile è quello che non sa conoscere i suoi doveri, e che volendo a forza d'ingiustizie incensata la sua superbia, fa altrui conoscere che è nato nobile per accidente, e meritava di nascer plebeo.”
[13] Questo passaggio viene interpretato in due modi: 1) Goldoni riflette la crisi che investe il ceto dei mercanti, a Venezia, nella seconda metà del secolo, una crisi per cui quel ceto tende a ripiegarsi in se stesso, a sostituire al dinamismo del commercio il tranquillo investimento terriero, a chiudersi nella gretta difesa del proprio interesse; 2) dalla visione “ideologica”, e un po’ utopistica, della prima fase si passa ad una visone più realistica, alla presa d’atto che la borghesia veneziana è ben distante da quel modello ideale che Goldoni riconosceva nella borghesia inglese e olandese.
[14] Così nel 1757, nel congedo alla seconda edizione delle commedie: “… io non sono un accademico della Crusca, ma un poeta comico che ha scritto oer essere inteso in Toscana, in Lombardia, in Venezia principalmente, e che tutto il mondo può capire quell’italiano stile di cui mi ho servito….; e che essendo la commedia un’imitazione delle persone che parlano, più di quelle che scrivono, mi sono servito del linguaggio più comune, rispetto all’universale italiano.”

domenica 12 luglio 2015

Beccaria: Dei delitti e delle pene


C. Beccaria                  Dei delitti e delle pene (1764)
ed. U. E. 1950

 

A chi legge: “avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore”, compilate da Giustiniano dodici secoli fa, mischiate con riti longobardi e con oscuri commenti di interpreti, “scolo di secoli barbari”, sono tuttora in vigore (pp. 13-16).

Della tortura: evitando appelli al sentimento, si cerca di mostrare l’inutilità e illogicità della tortura: “il mezzo più sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti” (pp. 36-41); ma è illogica anche quando vi si fa ricorso come pena, perché la sofferenza del reo non consente certo di “disfare” un delitto già commesso (giacché la pena si deve ispirare a due principi: impedire che il reo commetta altri reati e distogliere i potenziali criminali dal commettere reati[1]).

Della pena di morte: non fondata in linea di diritto, perché nel contratto sociale[2] l’individuo rinuncia a una parte della sua libertà, ma non concede al sovrano (allo Stato) il diritto di uccidere[3]; inutile, in quanto non trattiene dal compimento di altri delitti; “parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ne ordinino uno pubblico”; la pena non è espiazione (concezione religiosa), ma risarcimento o autodifesa della società attraverso l’isolamento del criminale (concezione utilitaristica della pena)[4]; del resto è proprio tale isolamento che ha efficacia deterrente (giacché è temuta non l’“intensione”, ma l’“estensione” della pena) (pp. 48-55).

Come si prevengono i delitti: “è meglio prevenire i delitti che punirli”; ci vogliono leggi giuste “che favoriscano meno le classi degli uomini che gli uomini stessi”; bisogna “perfezionare l’educazione”, che è problema che riguarda la natura del governo (cioè, è problema politico) (pp. 93-98).

 

Rocco (guardasigilli nel governo Mussolini) relaziona alla Camera sulla legge 25-XI-1926, che introduce la pena di morte: il liberalismo, considerando l’individuo come fine e non come mezzo, non può accettare la pena di morte; ma per il fascismo il fine è lo Stato, cui l’individuo è subordinato: quindi, per tale fine, l’individuo può essere sacrificato; la pena di morte è fondata come è fondato il diritto dello Stato di chiedere ai cittadini di morire per la patria (il fondamento è la concezione etica dello Stato).

 



[1] “…Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile… Il fine dunque non è altro che d’impedire al reo dal far nuovi danni ai suoi concittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali.”
[2]E’ l’idea che fonda la concezione laica dello Stato, la cui autorità quindi proviene dagli uomini e non da Dio: ma, mentre per Hobbes tale contratto mette fine ad uno stato di natura in cui ognuno è in guerra con tutti (e quindi la moltitudine cede al sovrano, legibus solutus, un potere assoluto), per Locke (in questo, vero interprete del giusnaturalismo, secondo cui il diritto di natura preesiste al e deve determinare il diritto positivo) gli individui, attraverso lo Stato (che quindi è inteso come puro strumento, secondo la concezione liberale), intendono tutelare i diritti inalienabili che ciascuno ha per natura (alla vita, libertà e proprietà) - e quindi non consentono con un potere assoluto.
[3]La morte è ammessa quando il criminale abbia "anche privo della libertà, tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione" ; e quando "fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti". Ma il 1° caso non esiste durante il "tranquillo regno delle leggi" (esiste se c'è anarchia); sul 2°, lo stesso B. adduce l'obiezione classica: non l'"intensione", ma l'"estensione" della pena ha effetto deterrente.
[4]Il concetto di pena come autodifesa (peraltro superato dal concetto di pena come rieducazione, ad es. nella nostra Costituzione) si fonda non sul classico principio della restitutio iuris (per cui punitur quia peccatum est ), ma su quello, appunto utilitaristico, per cui punitur ne peccetur.