G. D'ANNUNZIO Il
piacere (1889)
(1863-1938)
Mondadori 1965
Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta, ultimo
rampollo di una famiglia nobile, all’inizio della narrazione si prepara a
ricevere, nella sua casa di Trinità dei Monti, a Roma (1), Elena Muti, che era
stata sua amante e che poi l’aveva improvvisamente lasciato (per sposare un
ricchissimo lord inglese).
Elena gli chiarisce che tutto è
finito, e ad Andrea non resta che seguire il filo dei ricordi: l’innamoramento,
i convegni in ambienti di sofisticata raffinatezza, le visite ai musei, le
passeggiate nella campagna romana (e qui l’autore ha modo di sbizzarrirsi, nel
descrivere quadri, ville, paesaggi); quindi Elena se ne era andata, ed Andrea,
nel tentativo di dimenticarla, si era dato ad una vita di dissipazione erotica,
finchè era stato gravemente ferito in duello da un rivale; ritiratosi nella
villa di Schifanoja, ospite della cugina, si era dedicato ai piaceri dell’arte
(poesia e incisioni; e anche qui l’autore ha modo di esprimere la sua poetica
decadente-estetizzante) (2); qui si era innamorato di Maria Ferres
(un’amica della cugina), affascinato dalla sua bellezza spirituale (ama l’arte
come lui); e Maria, dopo aver lottato disperatamente con se stessa (è sposata),
l’aveva contraccambiato; con l’autunno entrambi erano tornati a Roma, ed Andrea
aveva ricominciato ad essere ossessionato dal pensiero di Elena (e qui siamo
tornati all’incipit del romanzo).
Quando, nella prima notte d’amore,
Andrea, nell’impeto della passione, si lascia sfuggire l’invocazione ad Elena,
tutto crolla: Maria inorridita fugge. Il romanzo termina con Andrea che, solo e
sconfitto, visita le stanze ormai vuote di casa Ferres (Maria è partita).
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(1) Nel cap.
II si parla della predilezione del protagonista per questa città; ma si
sottolinea che la Roma che ama non era quella dei Cesari, ma quella dei Papi;
non quella classica degli archi, delle terme, dei fori, ma quella barocca delle
ville, delle fontane, delle chiese. L’esteta decadente non apprezza la semplice
linearità del classico, ma ricerca l’elaborata artificiosità del barocco.
(2) Con una
sovrabbondanza di aggettivi, si sostiene che, nella imitazione della natura,
nessuno strumento è più adatto del verso, capace di “rendere i minimi moti del sentimento, i minimi moti della sensazione ”,
plastico oltremodo. Un verso perfetto, che “tiene
in sé le parole con la coerenza di un diamante ” sembra esistere preformato
nell’oscura profondità della lingua: il poeta lo scopre e si sente invadere da
un divino torrente di gioia. Il là lo dà una cadenza di antichi verseggiatori
toscani (stilnovisti o Petrarca), e poi partono associazioni musicali, i
pensieri nascono rimati, le rime sollecitano immagini e pensieri. Insomma, non c’è un pensiero che preesiste e
che chiede di essere messo in versi; c’è un godimento sensuale della parola, un
accarezzarne la musicalità, il colore e il calore, che preesiste e
determina i pensieri. Si dice ancora di Andrea: “Il suo spirito era essenzialmente formale. Più che il pensiero, amava l’espressione”.
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