DARIO FO legge il CONTRASTO di CIELO D'ALCAMO (lezioni)


 Introduzione

1)    L’argomento che ho scelto per questo incontro, Dario Fo legge il Contrasto di Cielo d’Alcamo, nasce da un mio antico interesse per il teatro di Dario Fo, in particolare per l’opera intitolata Mistero buffo, che alla fine degli anni Sessanta ho visto a teatro almeno un paio di volte.

“Mistero” “buffo”

2)    Mistero buffo si intitola, e la parola “mistero” rimanda già nell’antichità a riti religiosi per iniziati (si pensi ai misteri dionisiaci o ai misteri eleusini) e nel cristianesimo medievale sono detti “misteri” le sacre rappresentazioni. Ma chiamarlo “buffo”, come nel caso della rappresentazione messa in scena da Fo, vuol dire porsi in un’ottica rovesciata, dissacrare la “sacra rappresentazione” guardandola con l’occhio disincantato del giullare che ne mostra gli aspetti non solo ridicoli, ma anche e soprattutto oppressivi.

Fo in veste di giullare

3)    Il testo è costituito da una serie di “giullarate”, ovvero rappresentazioni di ambientazione medievale –  ricostruite sulla base di testi storici, testi apocrifi, tradizioni orali – recitate da Fo in veste di giullare, cioè di quel personaggio che nel Medioevo è, sempre secondo Fo, la vera e propria voce del popolo che, pur fra il riso suscitato dalle sue battute, denuncia le malefatte del potere – e per questo era perseguitato e spesso bandito da piazze, fiere, mercati delle varie città in cui si presentava.

Il grammelot delle giullarate

4)    Dario Fo è da solo nella scena e i suoi sono monologhi in cui usa spesso quella strana lingua che è il grammelot, Il grammelot è una lingua inventata, che si basa sulla mescolanza di parole prive di un significato riconducibile ad una lingua codificata, anche se si avvertono dialettismi propri delle regioni settentrionali d’Italia; eppure sono parole in qualche modo comprensibili grazie alla loro sonorità, al loro valore onomatopeico, ed anche grazie alla gestualità, alla mimica con cui l’attore accompagna la recitazione.[1] Di tali giullarate ricordo qualche titolo, tenendo conto del fatto che nel tempo Fo ha aggiunto o tolto pezzi diversi: Le nozze di Cana, Resurrezione di Lazzaro, La nascita del villano e soprattutto, forse il più famoso, Bonifacio VIII.

La giullarata su Bonifacio VIII

5)    Si tratta, come sapete, del papa particolarmente odiato da Dante, che lo colloca ancora vivo all’inferno, nella bolgia dei simoniaci (peccato che ha a che fare con la compravendita di cariche ecclesiastiche). Anche Jacopone da Todi, altro poeta, lo criticò, ma pagò un duro prezzo: cinque anni di prigione, e fu liberato solo dopo la morte del papa. Fo ce lo presenta all’atto della vestizione, in attesa di partecipare ad una processione solenne, tutto compiaciuto del mantello prezioso che sta indossando. Mentre viene vestito, si vanta della sua abitudine di fare inchiodare per la lingua alle porte di certe città eretici e dissidenti (confesso che non so dove Fo abbia preso questa notizia e dunque se abbia qualche fondamento); quindi intona dei salmi e si rivolge a un chierico immaginario – che lo sta aiutando nella vestizione e nel canto – colpevole di aver sbagliato l’intonazione dell’Alleluja. “Stunàt! – gli grida – attento a te!”, mimando il dondolio di uno appeso per la lingua. Poi si avvia alla processione, ma qui incrocia un altro corteo, guidato nientemeno che da Cristo, piegato sotto la croce e grondante sangue. Bonifacio volta la testa inorridito (“guardare ‘ste cose mi fa impressione”, dice), quindi gli dà del matto, “un fissato, gli piacciono solo i disgraziati, la gente tutta sporca, le puttane”. Bonifacio cerca invano di far valere la sua autorità papale, ma Cristo non gli dà ascolto; allora si finge umile e voglioso di aiutarlo a portare la croce, ma Cristo lo allontana da sé rifilandogli una gran calcio nel didietro.

Poco convincente la lettura del Contrasto

6)    Ma la parte che mi ha sempre maggiormente incuriosito è quella iniziale, introduttiva della serie di giullarate che compongono il Mistero buffo; quella in cui Fo parla del Contrasto di Cielo d’Alcamo, ne legge alcuni versi e li commenta. Qui non usa il grammelot, la sua vuole essere quasi una lezione sul significato e sulla funzione di quel testo.  Una lezione che, per quanto suggestiva e sempre molto applaudita dagli spettatori, non mi convinceva del tutto; quindi, appena ho potuto, ho cercato di approfondire la questione.

Il Contrasto di Cielo d’Alcamo: di che si tratta

7)     Il Contrasto di Cielo d’Alcamo è noto anche col titolo di Rosa fresca aulentissima, che sono le parole con cui inizia il componimento. Come detto, Dario Fo ne parla all’inizio del suo Mistero buffo, contestando le interpretazioni della critica tradizionale e, di conseguenza, il modo in cui ci viene presentato a scuola. Si tratta di uno dei testi più antichi della letteratura italiana, non il più antico che, come noto, è il bellissimo Cantico delle creature di S. Francesco, datato al 1224. Il Contrasto, da alcuni riferimenti interni, si può datare fra il 1231 e il 1250.

8)    Si chiama Contrasto perché è un componimento in cui, in un continuo botta e risposta, dialogano due personaggi, in questo caso un giovane che chiede amore e una ragazza che rifiuta, all’inizio con forza, poi sempre più debolmente fino al cedimento finale (tanto è vero che è lei che alla fine esclama: “a lo letto ne gimo alla bon’ora”).

Dubbi sul nome dell’autore e sulla collocazione geografica

9)    Dell’autore poco si sa, a cominciare dal suo stesso nome, Cielo secondo alcuni, Ciullo secondo altri (ma su questo vedremo e discuteremo l’interpretazione di Fo), d’Alcamo (con riferimento alla città siciliana d’origine) o dal camo (con riferimento al modo di vestire, essendo il camo un panno). Ed anche la sua collocazione geografica, senz’altro meridionale, è stata discussa (anche se ormai, sulla base dei riscontri linguistici, pare certa la collocazione siciliana).

Fo polemizza con l’interpretazione tradizionale

10)                      Veniamo al testo. Fo ne fa una lettura anticonformista e provocatoria, sostiene che il Contrasto appartiene assolutamente alla cultura popolare, è opera di un giullare che proviene dal popolo e parla al popolo, e solo a causa della mistificazione messa in atto dagli studiosi, nonché dalla scuola, lo si ritiene un prodotto della cultura “alta”. Per sostenere il suo punto di vista, Fo fa diverse considerazioni, tutte divertenti, ma, a mio parere, non tutte convincenti.

Leggiamo le prime strofe (14 su 32) del testo

11)                      Per entrare nel merito, leggo le prime strofe del testo, quindi, a seguire, riporterò il commento di Fo:

   «Rosa fresca aulentis[s]ima ch’apari inver’ la state, (espressione aulica)

le donne ti disiano, pulzell’ e maritate: (sull’interpretazione di questo verso torneremo)

tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate; (espressione popolaresca)

per te non ajo abento notte e dia,

penzando pur di voi, madonna mia». (espressione tipica del vassallaggio d’amore)

 

«Se di meve trabàgliti, follia lo ti fa fare.

Lo mar potresti arompere, a venti asemenare,

l’abere d’esto secolo tut[t]o quanto asembrare: (francesismo)

avere me non pòteri a esto monno;

avanti li cavelli m’aritonno».

 

«Se li cavelli artón[n]iti, avanti foss’io morto,

ca’n is[s]i [sí] mi pèrdera lo solacc[i]o e ’l diporto. (binomio tipico della poesia trobadorica)

Quando ci passo e véjoti, rosa fresca de l’orto,

bono conforto dónimi tut[t]ore:

poniamo che s’ajúnga il nostro amore».

 

«Che ’l nostro amore ajúngasi, non boglio m’atalenti:

se ci ti trova pàremo cogli altri miei parenti, (meridionalismo che torna altre volte)

guarda non t’ar[i]golgano questi forti cor[r]enti.

Como ti seppe bona la venuta,

consiglio che ti guardi a la partuta».

 

«Se i tuoi parenti trova[n]mi, e che mi pozzon fare?

Una difensa mèt[t]oci di dumili’ agostari:

non mi toc[c]ara pàdreto per quanto avere ha ’n Bari. (meridionalismo)

Viva lo 'mperadore, graz[i'] a Deo!

Intendi, bella, quel che ti dico eo?»

 

La difensa o defensa è un istituto di cui si parla nelle cosiddette Costituzioni melfitane, che sono un insieme di leggi promulgate da Federico II nel 1231. L’agostario o augustale è una moneta d’oro coniata dallo stesso imperatore nello stesso anno. Quindi questo ci dice che il testo che stiamo leggendo è posteriore al 1231, ma anche che è anteriore al 1250, che è l’anno della morte dell’imperatore, mentre qui si dice “viva l’imperatore”, dunque l’imperatore è ancora in vita. Continuo la lettura:

 

«Tu me no lasci vivere né sera né maitino. (provenzalismo)

Donna mi so’ di pèrperi, d’auro massamotino. (monete di Bisanzio e pregiato oro orientale)

Se tanto aver donàssemi quanto ha lo Saladino, (leggendario sultano di Siria ed Egitto)

e per ajunta quant’ha lo soldano, (d’Egitto)

toc[c]are me non pòteri a la mano».

 

«Molte sono le femine c’hanno dura la testa, (espressione non cortese)

e l’omo con parabole l’adímina e amonesta: (le domina e le persuade; provenzalismo)

tanto intorno procazzala fin che·ll’ha in sua podesta. (la incalza; espressioni non cortesi)

Femina d’omo non si può tenere:

guàrdati, bella, pur de ripentere».

 

«K’eo ne [pur ri]pentésseme? davanti foss’io aucisa

ca nulla bona femina per me fosse ripresa!

[A]ersera passàstici, cor[r]enno a la distesa. (tempo fa: francesismo)

Aquístati riposa, canzonieri: (canterino, cantastorie: francesismo)

le tue parole a me non piac[c]ion gueri». (per niente: francesismo)

 

«Quante sono le schiantora che m’ha’ mise a lo core, (dolori)

e solo purpenzànnome la dia quanno vo fore!

Femina d’esto secolo tanto non amai ancore

quant’amo teve, rosa invidïata:

ben credo che mi fosti distinata».

 

«Se distinata fósseti, caderia de l’altezze,

ché male messe fòrano in teve mie bellezze.

Se tut[t]o adiveníssemi, tagliàrami le trezze,

e consore m’arenno a una magione,

avanti che m’artoc[c]hi ’n la persone».

 

«Se tu consore arènneti, donna col viso cleri, (tipica formula trobadorica)

a lo mostero vènoci e rènnomi confleri: (francesismi)

per tanta prova vencerti fàralo volontieri.

Conteco stao la sera e lo maitino: (provenzalismo)

besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino». (espressione non cortese)

 

«Boimè tapina misera, com’ao reo distinato! (destino crudele)

Geso Cristo l’altissimo del tut[t]o m’è airato:

concepístimi a abàttare in omo blestiemato.

Cerca la terra ch’este gran[n]e assai,

chiú bella donna di me troverai».

 

«Cercat’ajo Calabr[ï]a, Toscana e Lombardia,

Puglia, Costantinopoli, Genoa, Pisa e Soria,

Lamagna e Babilonïa [e] tut[t]a Barberia:

donna non [ci] trovai tanto cortese,

per che sovrana di meve te prese». (espressioni tipiche del vassallaggio d’amore)

 

«Poi tanto trabagliàsti[ti], fac[c]ioti meo pregheri

che tu vadi adomàn[n]imi a mia mare e a mon peri.

Se dare mi ti degnano, menami a lo mosteri, (francesismi)

e sposami davanti da la jente;

e poi farò le tuo comannamente». 

Il commento di Fo

  

12)                      Ed ecco il commento di Dario Fo:

Per quanto riguarda la nostra storia, o meglio la storia del nostro popolo, uno dei testi primi del teatro comico-grottesco, satirico, è Rosa fresca aulentissima di Ciullo (o Cielo) d'Alcamo. Ebbene, perché noi vogliamo parlare di questo testo? Perché è il testo più mistificato che si conosca nella storia della nostra letteratura, in quanto mistificato è sempre stato il modo di presentarcelo. Al liceo, al ginnasio, quando ci propongono quest'opera, ci fanno la più grossa truffa che si sia mai messa in opera in tutta la storia della scuola. Prima di tutto ci fanno credere che sia un testo scritto da un autore aristocratico, che, pur usando il volgare, ha voluto dimostrare d'essere talmente dotato da tramutare «il fango in oro». È riuscito cioè a scrivere un'opera d'arte: grazie alla grazia di cui solo un poeta aristocratico come lui poteva essere intriso. Tanto da far giungere un tema così triviale, cosi rozzo come un dialogo «d'amore carnale», a livelli straordinari di poesia «culta», propria della «classe superiore»! Ecco, dentro questo sforzo di farci passare quest'opera come momento ispirato di un autore aristocratico, ci è capitato dentro quasi tutto, diciamo tutte le capriole e i salti mortali dei sacri autori borghesi dei testi scolastici, dal De Sanctis al D'Ovidio. Dirò che il primo a fare un gioco di truffa è stato Dante Alighieri. Infatti, più o meno esplicitamente, nel suo De Vulgari Eloquentia, dice con una certa sufficienza che «... d'accordo, c'è pure qualche crudezza in questo "contrasto", qualche rozzezza, ma certamente l'autore è un erudito, un colto» (per la verità Dante non ha detto questo, ha detto che il volgare del Contrasto è proprio non degli scrittori colti, ma degli abitanti di media condizione: secundum quod prodit a terrigenis mediocribus). Non parliamo poi di cosa hanno detto gli studiosi verso il Settecento e l'Ottocento a proposito dell'origine «culta» di questo testo; il massimo è successo naturalmente sotto il fascismo, ma anche poco prima non si scherzava. Lo stesso Croce, Benedetto Croce, il filosofo liberale, dice che indubbiamente si tratta di un autore aristocratico poiché la poesia del popolo è un fatto meccanico, cioè a dire « è un fatto di ripetizione pedestre». Il popolo, si sa, non è capace di creare, di elevarsi al di sopra di quello che è la banalità, la brutalità, il volgare, e quindi riesce al massimo a copiare «meccanicamente»; da qui il senso di «meccanico». Solo l'autore aristocratico, colto e evoluto, ha la possibilità di sviluppare artisticamente un tema qualsivoglia. Il popolo, bue e becero, al massimo riesce a fare delle imitazioni. Basta, tutto lì.

La tesi di Fo e le tre questioni

13)                      Fo sostiene, al contrario, il carattere assolutamente popolare del testo e contesta, come censorie e moralistiche, le interpretazioni della critica tradizionale (e quindi dei manuali scolastici). Entrambi i personaggi che dialogano nel Contrasto sono popolani che millantano, in particolare lei, una loro condizione sociale superiore. Lui è un giullare, lei è probabilmente la servetta in una casa padronale.

14)                      L’argomentare di Fo si incentra soprattutto su tre questioni: la questione del nome dell’autore del Contrasto, la questione del secondo verso della prima strofa, e infine la più complessa e significativa questione della defensa, evocata dall’amante alla quinta strofa.

La prima questione: il nome dell’autore

15)                      Cominciamo dall’argomento del nome. Riporto il passo in questione:

Questa preoccupazione di correggere la verità nasce già al momento di decifrare il soprannome dell'autore; infatti viene quasi sempre citato nei testi di scuola non come Ciullo d'Alcamo, ma come Cielo d'Alcamo. Attenzione, i lombardi sanno cosa significhi il termine «ciullo»; senza voler fare della scurrilità, «ciullo» è il sesso maschile. E notate che anche in Sicilia m'è capitato, ad Alcamo, di chiedere il significato di «ciullo»... ah ah ah... giù tutti a ridere! Ad ogni modo, tornando alla scuola, vi rendete conto che questo termine deve essere subito modificato, medicato, portato via, e naturalmente il professore dice; «C'è un errore». Infatti noti ricercatori hanno fatto carte false per indicare un'altra lettura. Non potevano accettare un soprannome del genere, altrimenti si tratterebbe indubbiamente di un giullare, in quanto quasi tutti i giullari hanno soprannomi piuttosto pesantucci…. Dunque, non si può dire «ciullo». Non si può, in una scuola come la nostra, dove l'ipocrisia e la morbosità cominciano fin da quando vai all'asilo. Io sono stato all'asilo, da piccolo s'intende, e mi ricordo che quando succedeva che una bambina vedeva un bambino che faceva pipì diceva: «Oh, guarda!... suora... cos'ha quel bambino lì? » «Una brutta malattia, - rispondeva la maestra, - non guardare... via, via, fatti il segno della croce! » È la nostra scuola. E dobbiamo capire il dramma degli insegnanti.

Ma la questione è risolta: il nome “Ciulo” non esiste

16)                      In effetti quella del nome è un’antica e tormentata questione, ma, per la verità, già felicemente risolta. Essa nasce  da un equivoco, un fraintendimento di lettura della grafia di un filologo del Cinquecento, Angelo Colocci, che è colui – ed è l’unico – che ci ha tramandato quel nome. Io non sono un esperto di paleografia, ma basterà guardare la fotografia del manoscritto, che si ritrova, ad esempio, nella Treccani e si noterà che la lettera, fraintesa da alcuni lettori inesperti (o semplicemente disattenti) come una “u”, è inequivocabilmente una “e” (tant’è che per tutte le “e” del manoscritto è riconoscibile lo stesso segno grafico). Dunque non Ciulo, ma Cielo, che sarebbe una forma toscanizzata del siciliano Celi, a sua volta derivato da Cheli, diminutivo di Michele. La variante Ciulo nasce nel Seicento e non si giustifica se non, appunto, con una cattiva lettura da parte di altri studiosi (Ubaldini prima e Allacci poi, e il secondo probabilmente influenzato dal primo), che del resto non ebbero altre fonti che le carte del Colocci. Tale variante si è poi conservata, ed anzi si è presentata anche nella forma Ciullo, che è sembrata una derivazione da Vincenzo attraverso il suo diminutivo Vincenzullo.

Ciò non toglie che l’autore possa essere un giullare

17)                      L’idea di Fo che Ciullo sia invece un soprannome osceno affibbiato, come si usava, a un giullare, mi parrebbe acuta e convincente, se si trattasse, appunto, di stabilire etimologia e significato di quel nome; ma quel nome non esiste, almeno per quanto riguarda l’autore del Contrasto Rosa fresca aulentissima; nasce come un fraintendimento, abbiamo visto, e per quanto ci possa parere suggestiva l’ipotesi di una censura per oscenità perpetrata nei confronti di quel nome, essa è fondata sul niente. Questo, naturalmente, non vuol dire negare che l’autore del Contrasto fosse un giullare (anzi, se – per restare alla questione del nome - invece della forma "d’Alcamo", che indicherebbe la città siciliana d’origine, si accetta la lettura "dal Camo", l’ipotesi torna a riproporsi: potrebbe essere un soprannome attribuito, appunto ad un giullare, con riferimento a un certo modo di vestire, essendo il camo un panno di bassa qualità); si nega soltanto che lo si possa sostenere con quell’argomentazione.

La questione del verso 2

18)                      Vediamo la questione del verso 2, laddove si dice “le donne ti disiano, pulzell' e maritate”. Ed ecco commento di Fo:

Ora, «rosa fresca aulentissima ch'apari inver' la state le donne ti disiano, pulzell' e maritate». Come lo risolviamo? Notate che è ancora un modo di dire, in Sicilia. A Sciacca, per fare un complimento ad una ragazza si dice: «Bedda tu si, fighiuzza, che anco altri fighiuzze a tia vurria 'mbrazzari», anche le altre ragazze vorrebbero abbracciare te, tanto sei bella. Lo dicono senza nessuna malignità, ma nella nostra scuola non si può! E allora che cosa s'inventa? Subito una virata di sessanta gradi, per poter aggiustare la faccenda. Il professore insegna (e guardate che queste sono didascalie che trovate in ogni testo) : «non bisogna prendere la forma cosi, tout court, bisogna cercare d'individuarla. Cioè: sei talmente bella che anche le altre donne, pulzelle e maritate, vorrebbero a te assomigliare. Non vorrebbero te, ma vorrebbero apparire quale tu sei, bella, elevata in mezzo a tutte le altre donne». Così, subito, il ragazzo o la ragazza imparano l'ipocrisia e in casa dicono: «Mamma, desidererei una mela... no, non desidererei nel senso di volerla mangiare, ma vorrei apparire come la mela, rotonda e rossa da mordere».

L’interpretazione di D’Ovidio e quella di Cesareo

19)                      Mi pare che qui Dario Fo non abbia tutti i torti, anche se, nell’intento di ridicolizzare un’interpretazione ipocrita, sorvola su un’altra e più diffusa interpretazione. Si tratta dell’interpretazione proposta da D’Ovidio, che sostiene l’esistenza di una oscillazione fra significato metaforico della rosa (la rosa è la ragazza) e il suo significato letterale (la rosa è il fiore); per cui, se è vero che l’amante si rivolge alla ragazza chiamandola “rosa”, nel secondo verso pensa al fiore, di cui è naturale dire che è desiderato da tutte le donne; poi al terzo verso ne riprende il significato metaforico, riferendosi alla donna (tragemi d’este focora...). Tutto ciò perché sembra inaccettabile, come sostiene Fo, l’idea che si possa dire che è la donna oggetto del desiderio di altre donne. Dunque è stata “rimossa”, esclusa in tutti i modi, una interpretazione che invece il verso, preso alla lettera, suggerisce immediatamente. In tutti i modi, se si pensa che è circolata a lungo anche l’interpretazione (proposta da Cesareo) che voleva che quel femminile (le donne pulzelle e maritate) fosse il residuo di un dialettismo (napoletano) che indicava originariamente il maschile (li donni).

L’interpretazione rimossa: Contini e Orbicciani

20)                      Il primo a dare voce all’interpretazione rimossa è stato Contini, il quale così annotava: le donne: naturalmente femminile; chi ha proposto altra interpretazione non ha tenuto conto dell’eco scritturale che qui ricorre (Cantico dei Cantici, I, 2: adulescentulae dilexerunt te, e cioè, detto della sposa, “sei piaciuta alle fanciulle, ti hanno amato le fanciulle”). Così Contini recuperava il significato coerentemente metaforico dell’espressione (oggetto del desiderio è la ragazza, non la rosa).

21)                      Però si tratta di capire se l’espressione, che intende esaltare la bellezza della ragazza, per quanto sorprendente e inaspettata, possa appartenere al contesto culturale in cui opera Cielo. A questo fine, più che il riferimento biblico, sarà utile mostrare i vv. 25-27 di una ballata di Bonagiunta Orbicciani,  un rimatore toscano attivo alla metà del Duecento (Donna, vostre bellezze): Maritate e pulzelle / di voi so’ innamorate, / pur guardandovi ‘n mente (soltanto pensando a voi). Dunque l’interpretazione rimossa ha una sua legittimità, le osservazioni critiche di Fo hanno, in questo caso, un loro fondamento.

La questione della defensa

22)                      Veniamo ora alla più complessa questione della defensa; rileggiamo la strofa che ne è all’origine e, a seguire, il monologo di Fo che la spiega e commenta:

«Se i tuoi parenti trova[n]mi, e che mi pozzon fare?

 Una difensa mèt[t]oci di dumili’ agostari:

non mi toc[c]ara pàdreto per quanto avere ha ’n Bari.

Viva lo 'mperadore, graz[i'] a Deo!

Intendi, bella, quel che ti dico eo?»

E il ragazzo risponde sbruffone (non dobbiamo dimenticare che sta recitando il personaggio del ricco aristocratico): «Se i tuoi parenti trovanmi che ti ho appena violentata o che ti sto facendo violenza, e che mi posson fare? Una defensa méttoci di dumili' agostari (duemila augustari)». Cosa vuol dire? L'augustario era la moneta di Augusto, inteso Federico II. Infatti siamo nel 1231-32, proprio al tempo in cui in Sicilia governava Federico II di Svevia. Duemila augustari equivalevano, più o meno, a settantacinquemila lire odierne. E che cosa è questa defensa? Fa parte di un gruppo di leggi promulgate a vantaggio dei nobili, dei ricchi, dette «leggi melfitane», volute proprio da Federico II, per permettere un privilegio meraviglioso a difesa della persona degli altolocati. Così, un ricco poteva violentare tranquillamente una ragazza; bastava che nel momento in cui il marito o i parenti scoprivano la cosa, il violentatore estraesse duemila augustari, li stendesse vicino al corpo della ragazza violentata, alzasse le braccia e declamasse: «Viva lo 'mperadore, grazi' a Deo!» Questo era sufficiente a salvarlo. Era come avesse detto: «Arimorta! Attenti a voi! Chi mi tocca verrà subito impiccato». Infatti chi toccava l'altolocato che aveva pagato la defensa veniva immediatamente impiccato, sul posto, o un po' più in là. Ecco che la potete immaginare da voi tutta la scena. Grande vantaggio per il violentatore medievale era dato dal fatto che, allora, le tasche non facevano parte dei pantaloni. Erano staccate; erano delle borse che si appendevano alla cintola, il che poteva permettere una condizione vantaggiosissima dell'amatore: nudo, ma però con la borsa. Perché, nel caso: «Ah! mio marito!» trac... defensa... op... «Arimorta! Ecco i quattrini! » Naturalmente bisognava avere i soldi contati, è logico, non si può: « Scusi, aspetti un attimo... gli spiccioli!... Ha da cambiarmi per favore?» Subito, subito, lì, veloci! Le madri che s'interessavano della salute dei propri figlioli, una madre nobile naturalmente, e ricca, diceva sempre: «Esci? Hai preso la defensa? » «No no, vado con gli amici...» «Non si sa mai, magari incontri...» Ah, perché la defensa valeva anche per la violenza a base di coltello. Uno dava una coltellata a un contadino... zac... defensa! Che naturalmente era minore, centocinquanta massimo. Se poi ammazzava l'asino insieme al contadino, allora si faceva cifra tonda. Ad ogni modo questo vi fa capire quale fosse la chiave della «legge» del padrone: la brutalità di una tassa che permetteva di uscire indenni da ogni violenza compiuta da quelli che detenevano il potere. Ecco perché non ce lo spiegano mai questo «pezzo» a scuola. Mi ricordo che sul mio libro di testo al liceo tutta questa strofa non esisteva, era stata censurata. Su altri testi c'era, ma non veniva mai spiegata. Perché? È logico! Per una ragione molto semplice; attraverso questo pezzo si scopre chi ha scritto il testo. Non poteva essere altro che il popolo. Il giullare che si presentava sulla piazza scopriva al popolo quale fosse la sua condizione, condizione di «cornuto e mazziato», come dicono ancora a Napoli: cioè bastonato, oltre che cornuto. Perché questa legge gli imponeva proprio lo sberleffo, oltre che il capestro.

Dunque per Fo non c’è dubbio che si tratti di una legge promulgata “a vantaggio dei nobili, dei ricchi” per cui “un ricco poteva violentare tranquillamente una ragazza; bastava che nel momento in cui il marito o i parenti scoprivano la cosa, il violentatore estraesse duemila augustari, li stendesse vicino al corpo della ragazza violentata, alzasse le braccia e declamasse: Viva lo 'mperadore, grazi' a Deo! Questo era sufficiente a salvarlo.

E’ una interpretazione infondata, ideologicamente prevenuta

23)                      C’è qui un errore di impostazione, frutto di una conoscenza storica approssimativa e, direi anche, di una interpretazione ideologicamente prevenuta, che non può essere sostenuta sulla base dei riscontri documentali.

24)                      Dario Fo è un uomo di spettacolo, certamente non è un filologo né uno storico, ma quando si parla di un testo della letteratura italiana, di leggi promulgate in un certo momento storico, bisognerà informarsi un po’ di più se si ha a cuore la verità e non una tesi che soddisfa a priori le proprie convinzioni, a prescindere da ogni verifica sui documenti. Quindi sarà il caso di leggere direttamente dalle Costituzioni melfitane gli articoli che istituiscono la cosiddetta defensa, e sarà naturale concludere che ciò che si intende nella strofa in questione è esattamente il contrario di quanto sostenuto da Fo.

La defensa nella Costituzioni melfitane

25)                      Le Constitutiones regni Siciliae, o Costituzioni melfitane (così chiamate perché promulgate a Melfi, da Federico II, nel 1231) sono un insieme di leggi evidentemente intese a far valere il potere centrale del monarca e, di contro, a limitare i molteplici poteri locali che minano la forza dello Stato; e questo è vero in particolare per quanto riguarda l’istituto della defensa, di cui si tratta ai titoli XVI-XIX del primo libro di dette Costituzioni.

26)                      Di che si tratta? L’imperatore, dopo aver notato che spesso la potenza dell’aggressore è talmente soverchiante (in tantum supereminere) che l’aggredito, per quanto abbia buon diritto a difendersi, di fatto è costretto a subire l’aggressione, conclude: "presentis legis auctoritate cuilibet licentiam impartimur ut adversus aggressorem suum per invocationem nostri nominis se defendat, eidemque ex parti imperiali prohibeat ut ipsum offendere de cetero non presumat"; e cioè, a chiunque (anche Giudeo o Saraceno, dirà più oltre, perché non vogliamo che costoro, per il fatto che sono Giudei o Saraceni, subiscano violenza pur essendo innocenti”: si noti quindi la volontà di tutelare le categorie deboli) è data facoltà di difendersi invocando il nome dell’imperatore; quell’invocazione avrebbe avuto l’effetto di interrompere l’aggressione, giacché, altrimenti, sarebbe stata considerata un’aggressione contro la persona stessa dell’imperatore. Si aggiunge poi che, nell’eventualità di violazione della defensa, il caso sarà sottratto alla giurisdizione locale e portato davanti ai tribunali del re ("de istis defensis... etiam per privatas personas indictis... magister justitiarius et justitiarii nostri cognoscant") .

La defensa limita, non rafforza i privilegi nobiliari

27)                      Mi pare che questi elementi siano sufficienti a farci capire che, con l’istituto della defensa, Federico II, lungi dal voler rafforzare privilegi nobiliari, intende limitarli (e del resto gli è ben chiaro che proprio su tale limitazione si può fondare l’autorità superiore dello Stato, secondo le linee di una politica da lui sempre perseguita); intende difendere il diritto di chi, altrimenti, dovrebbe subire il sopruso di un potente-prepotente (questo è infatti il comportamento che si vuol punire: la prepotenza di colui la cui "potentia" "superminet"); e per meglio garantirsi dalla possibilità che il potente-prepotente si faccia dar ragione da giudici locali compiacenti, avoca a sé il potere di dirimere la controversia.

La testimonianza di Marino di Caramanico

28)                      Che la defensa vada quindi collocata entro questo quadro (antitetico a quello disegnato da Fo) mi pare indubitabile; e tale doveva sembrare anche ai contemporanei, se Marino da Caramanico, un glossatore che opera attorno al 1275, così scrive commentando il titolo XVI delle Costituzioni melfitane: "Et per hanc constitutionem succurrit Imperator debilibus, qui sepe a potentibus opprimuntur".

L’errore di Fo su chi paga la defensa

29)                      Ma c’è dell’altro. Seguendo la sua interpretazione (secondo cui la defensa sarebbe uno strumento di sopraffazione dei ricchi nei confronti dei poveri), Fo si serve dell’esempio della violenza sessuale che il potente avrebbe potuto compiere, sicuro dell’impunità, semplicemente pagando la defensa (e cioè, una multa): in altre parole, Fo crede che nei versi in questione l’amante, millantando la propria ricchezza, si dichiari disposto a pagare la defensa (ed indica la cifra che si può permettere: duemila augustali) pur di compiere violenza sulla ragazza. Al contrario, invece, dal testo mi pare inequivocabile che i duemila augustali costituiscano la cifra che, una volta che l’amante abbia "imposto" la defensa, i parenti di lei dovrebbero pagare nel caso in cui lo aggredissero. Non si spiega, altrimenti, il verso "non mi toccàra pàdreto per quanto avere ha ’n Bari", e cioè: non mi toccherebbe tuo padre, anche se  avesse tutte le ricchezze che ci sono in Bari; dunque la defensa di duemila augustali invocata dal giovane la pagherebbe il padre di lei se lo aggredisse, non il giovane per commettere impunemente violenza sessuale, come invece intende Fo.

La cifra di 2000 augustali è spropositata, ma è millanteria

30)                      Ma veniamo alla cifra di duemila augustali. Nelle Costituzioni melfitane si fa riferimento a due tipi di defensa: uno "semplice", che sarebbe il caso normale e comporterebbe per il trasgressore la perdita di un terzo o di un quarto dei propri beni a seconda che abbia commesso l’aggressione con le armi o senza le armi; e un altro, che sarebbe il nostro caso, con indicazione della multa da pagare in caso di violazione (sub quacumque quantitate). Dunque l’amante indica come multa la somma di duemila augustali. Che si tratti di una "sbruffonata" non c’è dubbio, perché duemila augustali sono una cifra rilevantissima; ma fa parte del "gioco": come lei fa la preziosa, vantando un rango sociale che certamente non ha (si vedano i versi 27: "Donna mi so’ di perperi, d’auro massamotino"; 46: "se distinata  fosseti, caderìa de l’altezze"; e in una strofa successiva, vv. 86-87: "di quel frutto non abbero conti né cabalieri / molto lo disiarono marchesi e justizieri") così lui, con quella cifra spropositata, intende vantare il valore della propria persona, quasi a dire: chi mi tocca, non pensi di cavarsela con due soldi.

31)                      La corrispondenza indicata da Fo (settantacinquemila lire), per quanto rapportata al valore della lira alla fine degli anni ’60, è assolutamente inadeguata. Ma anche questo minimizzare è comprensibile: Fo intende dimostrare che il potente, che intendesse commettere un sopruso, se la poteva cavare, tutto sommato, a buon mercato.

32)                       Dunque quella cifra è una sbruffonata, una millanteria. Del resto lo stesso appellarsi alla defensa, in questo contesto, non è una cosa seria, ma piuttosto la minaccia scherzosa di un innamorato che vuole raggiungere il suo obiettivo: mancano infatti i tre testimoni (o più), degni di fede e di buona reputazione, che la legge richiede perché la violazione della defensa sia provata e quindi punita (tres testes aut plures ad probandam defensam impositam et contemptam).

E’ prevista la pena capitale per il reato di stupro

33)                      Ma malgrado il tono scherzoso, è evidente che l’innamorato fa riferimento alla defensa come ad una legge che lo tutela – grazie all’imperatore e "grazi’ a Deo" – da eventuali aggressioni (dei parenti di lei); non come ad una legge di cui servirsi per commettere lui, impunemente, un atto di violenza sessuale.

34)                      Anche perché – e questo mi pare un argomento decisivo, che toglie fondamento a tutta l’esemplificazione di Fo sul violentatore che andava in giro con in tasca, o in borsa, i soldi per pagare la defensale stesse Costituzioni melfitane comminavano la pena capitale ai colpevoli del reato di stupro (nei confronti non solo delle donne oneste, ma anche delle meretrici: ut nullus eas compellat invitas sue satisfacere voluptati): altro che defensa con cui cavarsela a buon mercato! C’era da rimetterci la pelle. Leggo in italiano l’articolo della legge intitolato “Della violenza fatta a meretrici”:

Quelle miserevoli donne, che per il turpe mercato sono definite prostitute, godano del nostro beneficio, acciocché nessuno le costringa controvoglia a soddisfare il proprio piacere. Coloro che agiscono contro questo editto, rei confessi e condannati, saranno da punire con la pena capitale (….) Se alcuni accusati di tali violenze, per le loro confessioni (che per rimorso di coscienza facciano pubblicamente) o grazie a testimoni, che abbiano scoperto gli accusati nell’atto stesso di commettere violenza sessuale (cosa che tuttavia raramente può capitare), saranno stati giudicati colpevoli, siano sottoposti alla pena capitale (per direttissima), anche senza consultarci.

E pena pecuniaria per testimoni che non accorressero

35)                      Dunque sarebbero bastati dei testimoni che avessero trovato il reo in atteggiamento inequivocabile (in ipsis venereis actibus invenerint accusatos) per legittimare una giustizia rapida e sommaria (nobis etiam inconsultis, capitali pene subiaceant); e i testimoni dovevano accorrere, perché anche per loro era prevista una pena (pecuniaria) nel caso che non portassero soccorso a una donna che invocava aiuto. Sentite il testo della legge:

Vogliamo che chiunque abbia udito gridare una donna, a cui sia fatta violenza, sia veloce a correre e a soccorrerla. Se non lo farà, il nostro tribunale gli imporrà una multa di quattro augustali, come pena per la sua dannosa inerzia. E nessuno per evitare la pena potrà fingere di non avere udito le grida, nessuno che si sia trovato sotto lo stesso tetto o in luogo da cui abbia potuto udire la voce, a meno che non si dimostri che è sordo o, senza inganno, zoppo o altrimenti deficiente o che dormiva nello stesso momento delle grida. 

Non buoni gli argomenti di Fo sul carattere popolare del testo

36)                      Si deve concludere che l’assunto di Fo (l’autore del Contrasto è un giullare, vera e propria voce e coscienza del popolo, altrimenti costretto al silenzio) è infondato? A me pare ovvio concludere che certamente non sono buoni gli argomenti usati dall’autore-attore del Mistero buffo: né da quelle congetture sul nome né dalle considerazioni sulla defensa si può dedurre il carattere popolare del nostro testo e, soprattutto, non se ne può dedurre l’intenzione di denunciare i soprusi dei potenti ai danni del popolo.

37)                      Ed anche: il fatto che i due protagonisti del Contrasto siano dei popolani e che tutta la vicenda abbia un carattere schiettamente popolaresco (si pensi alla conclusione, così poco "cortese": "A lo letto ne gimo a la bon’ora"), nulla dice sull’autore e sul pubblico destinatario del componimento: non è certo anomalo, nella storia della letteratura, che un autore colto si diverta a rappresentare, per un pubblico altrettanto colto, personaggi, ambienti e situazioni popolari (si pensi, per fare un esempio famoso, al poemetto rinascimentale Nencia da Barberino).

Il testo è linguisticamente ambiguo

38)                      La questione, piuttosto, andrà affrontata con gli strumenti dell’analisi linguistica. E allora bisognerà riconoscere, onestamente, che quel testo è linguisticamente ambiguo, non ci sono elementi tali che possano far decidere definitivamente per una tesi piuttosto che per l’altra. E’ vero che Dante, nel De vulgari eloquentia, cita il Contrasto come esempio di un volgare siciliano proprio non degli scrittori colti ma degli abitanti di media condizione (secundum quod prodit a terrigenis mediocribus)[2]; ma cita non a caso il terzo verso della prima strofa ("tragemi d’este focora, se t’este a boluntate"), perché evidentemente si rendeva conto che i primi due ("Rosa fresca aulentissima, c’apari inver la state, / le donne ti disiano, pulzell’ e maritate") erano esempio di una lingua colta, non certo dialettale.

Un lessico colto si alterna con un lessico popolare

39)                      Questa sorta di dualismo linguistico è rintracciabile nell’intero componimento: parole ed espressioni che appartengono alla lirica colta (si pensi solo alla sovrabbondanza di francesismi e provenzalismi) si mescolano con parole ed espressioni chiaramente popolari, sia per crudezza realistica sia per i tratti marcatamente dialettali.

Dualismo anche di espressioni cortesi e anti-cortesi

40)                      A me piace far notare come l’amante alterni formule, non solo linguisticamente ma anche concettualmente, cortesi, in quanto rimandano alla dottrina del vassallaggio d’amore, che vuole l’esaltazione della dama e la sottomissione del cavaliere (5 "madonna mia", 65 "sovrana di meve te prese"), ad altre che contraddicono seccamente i principi di quella dottrina, in quanto rovesciano la posizione dell’uomo rispetto alla donna (32-33 "l’omo... l’ha in sua podesta", 55 "besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino").

L’autore può essere un giullare

41)                      Ma dunque che cosa possiamo concludere a proposito dell’autore e del significato del componimento? Gli elementi colti presenti nel testo non impediscono di pensare che l’autore sia un giullare: un "mestierante" di poesia, quale era il giullare, per quanto incolto, poteva benissimo avere orecchiato i modi della lirica aulica. Certamente però non ci sono nel testo elementi che inducano a vedervi una denuncia delle malefatte del potere, dei soprusi dei potenti ai danni del popolo; piuttosto si tratterebbe di una parodia dei modi della lirica “alta”, una lirica che, fiorente proprio al tempo – e proprio alla corte – di Federico II, aveva importato in Sicilia temi e modi della poesia trobadorica, con la sua idealizzazione dell’amore inteso come un sentimento nobile e nobilitante; farne la parodia vuol dire mostrare come dietro quella idealizzazione, dietro le raffinate espressioni del cosiddetto “amor cortese”, si nasconda un obiettivo assolutamente materiale: “a lo letto ne gimo alla bon’ora!”. Una parodia per il divertimento del pubblico della piazza.

L’autore è colto

42)                      Tuttavia, secondo la maggioranza degli studiosi, proprio il dualismo di cui si è detto dimostrerebbe la letterarietà del componimento, e quindi anche il carattere colto dell’autore: costui conosce gli stilemi "cortesi", conosce lessico ed espressioni delle lingue francese e provenzale, ovvero lessico ed espressioni proprie di una letteratura “alta”, è abile nell’uso di registri linguistici diversi, padroneggia sapientemente la materia poetica e la tecnica compositiva, a cominciare dalla metrica.

43)                      Infatti la struttura metrica della strofa non è proprio semplice, Sono strofe di cinque versi, costruite su due rime, una rima per i primi tre e una per i secondi due: i primi tre versi sono alessandrini (ovvero di 14 sillabe, divisi in due settenari, il primo dei quali termina sempre con una parola sdrucciola, cioè con l’accento sulla terzultima sillaba), i secondi due sono endecasillabi. E’ usata inoltre la tecnica, di origine provenzale, delle cosiddette coblas capfinidas, ovvero ogni strofa comincia riprendendo le parole o il concetto con cui finisce la strofa precedente.

44)                      Tutti questi elementi inducono a pensare che l’autore appartenga ad ambienti culturalmente e socialmente elevati e che solo parodisticamente, per far divertire un pubblico colto, si compiacccia di usare volgarità di lingua e di pensiero. In altre parole, non è un giullare che fa la parodia della lirica “alta”, ma un autore colto che fa la parodia dei modi popolani. A me pare che questa opinione sia convincente.

 

 



[1] L’origine non è molto chiara: la parola grammelot sembra che derivi dal francese “grommeler”, borbottare, e una simile pratica recitativa sembra che si trovasse già nella commedia dell’arte rinascimentale. Secondo molti però si tratta di una invenzione novecentesca, totalmente attribuibile a Dario Fo, che ne ha fatto una caratteristica della propria recitazione.

 

[2] Notare che anche qui Dario Fo fraintende, in quanto ritiene che qui Dante “più o meno esplicitamente” dica che “certamente l’autore è un erudito, un colto”.

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