1)
L’argomento che ho scelto per questo
incontro, Dario Fo legge il Contrasto di
Cielo d’Alcamo, nasce da un mio antico interesse per il teatro di Dario Fo,
in particolare per l’opera intitolata Mistero
buffo, che alla fine degli anni Sessanta ho visto a teatro almeno un paio
di volte.
“Mistero”
“buffo”
2)
Mistero
buffo si intitola, e la parola “mistero” rimanda già nell’antichità a riti religiosi per iniziati (si pensi ai misteri
dionisiaci o ai misteri eleusini) e nel cristianesimo medievale sono detti “misteri” le sacre
rappresentazioni. Ma chiamarlo “buffo”,
come nel caso della rappresentazione messa in scena da Fo, vuol dire porsi
in un’ottica rovesciata, dissacrare
la “sacra rappresentazione” guardandola
con l’occhio disincantato del giullare che ne mostra gli aspetti non
solo ridicoli, ma anche e soprattutto oppressivi.
Fo
in veste di giullare
3)
Il testo è costituito da una serie di “giullarate”, ovvero
rappresentazioni di ambientazione medievale –
ricostruite sulla base di testi storici, testi apocrifi, tradizioni
orali – recitate da Fo in veste di giullare,
cioè di quel personaggio che nel Medioevo è, sempre secondo Fo, la vera e propria voce del popolo che,
pur fra il riso suscitato dalle sue battute, denuncia le malefatte del
potere – e per questo era perseguitato e spesso bandito da piazze,
fiere, mercati delle varie città in cui si presentava.
Il grammelot delle giullarate
4)
Dario
Fo è da solo nella scena e i suoi sono monologhi
in cui usa spesso quella strana lingua che è il grammelot,
Il grammelot è una lingua inventata,
che si basa sulla mescolanza di parole
prive di un significato riconducibile ad una lingua codificata, anche
se si avvertono dialettismi propri delle regioni settentrionali d’Italia;
eppure sono parole in qualche modo comprensibili
grazie alla loro sonorità, al loro valore onomatopeico, ed anche grazie alla
gestualità, alla mimica con cui l’attore accompagna la recitazione.[1]
Di tali giullarate ricordo qualche titolo, tenendo conto del fatto che nel
tempo Fo ha aggiunto o tolto pezzi diversi: Le
nozze di Cana, Resurrezione di Lazzaro, La nascita del villano e
soprattutto, forse il più famoso, Bonifacio VIII.
La
giullarata su Bonifacio VIII
5)
Si tratta, come sapete, del papa
particolarmente odiato da Dante,
che lo colloca ancora vivo all’inferno, nella bolgia dei simoniaci (peccato
che ha a che fare con la compravendita di cariche ecclesiastiche). Anche Jacopone da Todi, altro poeta,
lo criticò, ma pagò un duro prezzo: cinque
anni di prigione, e fu liberato solo dopo la morte del papa. Fo ce lo
presenta all’atto della vestizione, in attesa di partecipare ad una processione
solenne, tutto compiaciuto del mantello prezioso che sta indossando. Mentre
viene vestito, si vanta della sua abitudine di fare inchiodare per la lingua
alle porte di certe città eretici e dissidenti (confesso che non so dove Fo abbia
preso questa notizia e dunque se abbia qualche fondamento); quindi
intona dei salmi e si rivolge a un chierico immaginario – che lo sta aiutando
nella vestizione e nel canto – colpevole di aver sbagliato l’intonazione
dell’Alleluja. “Stunàt! – gli grida –
attento a te!”, mimando il dondolio
di uno appeso per la lingua. Poi si avvia alla processione, ma qui incrocia un
altro corteo, guidato nientemeno che da Cristo, piegato sotto la croce e
grondante sangue. Bonifacio volta la testa inorridito (“guardare ‘ste cose mi fa impressione”, dice), quindi gli dà del
matto, “un fissato, gli piacciono solo i
disgraziati, la gente tutta sporca, le puttane”. Bonifacio cerca invano di
far valere la sua autorità papale, ma Cristo non gli dà ascolto; allora si
finge umile e voglioso di aiutarlo a portare la croce, ma Cristo lo allontana
da sé rifilandogli una gran calcio nel didietro.
Poco
convincente la lettura del Contrasto
6)
Ma la parte che mi ha sempre
maggiormente incuriosito è quella iniziale, introduttiva della serie di
giullarate che compongono il Mistero
buffo; quella in cui Fo parla del Contrasto
di Cielo d’Alcamo, ne legge alcuni versi e li commenta. Qui non usa il grammelot, la sua vuole essere quasi una lezione sul
significato e sulla funzione di quel testo. Una lezione che, per quanto suggestiva e
sempre molto applaudita dagli spettatori, non
mi convinceva del tutto; quindi, appena ho potuto, ho cercato di
approfondire la questione.
Il Contrasto di Cielo d’Alcamo: di che si tratta
7)
Il
Contrasto
di Cielo d’Alcamo è noto anche col titolo di Rosa fresca aulentissima,
che sono le parole con cui inizia il componimento. Come detto, Dario Fo ne
parla all’inizio del suo Mistero buffo,
contestando le interpretazioni della critica tradizionale e, di conseguenza, il
modo in cui ci viene presentato a scuola. Si tratta di uno dei testi più antichi della letteratura italiana, non il più
antico che, come noto, è il bellissimo Cantico
delle creature di S. Francesco, datato al 1224. Il Contrasto,
da alcuni riferimenti interni, si può datare fra il 1231 e il 1250.
8)
Si chiama Contrasto perché è un componimento in cui, in un continuo botta e
risposta, dialogano due personaggi,
in questo caso un giovane che chiede
amore e una ragazza che rifiuta, all’inizio con forza, poi sempre più
debolmente fino al cedimento finale
(tanto è vero che è lei che alla fine esclama: “a lo letto ne gimo alla bon’ora”).
Dubbi sul nome dell’autore e sulla
collocazione geografica
9)
Dell’autore poco si sa, a cominciare dal
suo stesso nome, Cielo
secondo alcuni, Ciullo
secondo altri (ma su questo vedremo e discuteremo l’interpretazione di Fo),
d’Alcamo (con riferimento
alla città siciliana d’origine) o dal
camo (con riferimento al modo di vestire, essendo il camo un panno). Ed
anche la sua collocazione geografica,
senz’altro meridionale, è stata discussa (anche se ormai, sulla base dei
riscontri linguistici, pare certa la
collocazione siciliana).
Fo polemizza con l’interpretazione
tradizionale
10) Veniamo al testo. Fo ne fa una lettura anticonformista e provocatoria, sostiene che il Contrasto appartiene assolutamente alla cultura popolare, è opera di un giullare che proviene dal popolo e parla al popolo, e solo a causa della mistificazione messa in atto dagli studiosi, nonché dalla scuola, lo si ritiene un prodotto della cultura “alta”. Per sostenere il suo punto di vista, Fo fa diverse considerazioni, tutte divertenti, ma, a mio parere, non tutte convincenti.
Leggiamo le prime strofe (14 su 32)
del testo
11)
Per entrare nel merito, leggo le prime
strofe del testo, quindi, a seguire, riporterò il commento di Fo:
«Rosa
fresca aulentis[s]ima ch’apari inver’ la state, (espressione aulica)
le donne ti disiano, pulzell’ e maritate: (sull’interpretazione di questo verso
torneremo)
tràgemi d’este focora, se t’este a
bolontate; (espressione popolaresca)
per te non ajo
abento notte e dia,
penzando pur di
voi, madonna mia». (espressione tipica del vassallaggio d’amore)
«Se di meve
trabàgliti, follia lo ti fa fare.
Lo mar potresti
arompere, a venti asemenare,
l’abere d’esto
secolo tut[t]o quanto asembrare: (francesismo)
avere me non
pòteri a esto monno;
avanti li
cavelli m’aritonno».
«Se li cavelli
artón[n]iti, avanti foss’io morto,
ca’n is[s]i [sí]
mi pèrdera lo solacc[i]o e ’l diporto.
(binomio tipico della poesia trobadorica)
Quando ci passo
e véjoti, rosa fresca de l’orto,
bono conforto
dónimi tut[t]ore:
poniamo che
s’ajúnga il nostro amore».
«Che ’l nostro
amore ajúngasi, non boglio m’atalenti:
se ci ti trova pàremo cogli altri miei parenti, (meridionalismo che torna altre volte)
guarda non
t’ar[i]golgano questi forti cor[r]enti.
Como ti seppe
bona la venuta,
consiglio che ti
guardi a la partuta».
«Se i tuoi parenti
trova[n]mi, e che mi pozzon fare?
Una difensa mèt[t]oci di dumili’ agostari:
non mi toc[c]ara pàdreto per quanto avere ha
’n Bari. (meridionalismo)
Viva lo 'mperadore, graz[i'] a Deo!
Intendi, bella,
quel che ti dico eo?»
La difensa o defensa è un istituto di cui si parla nelle cosiddette Costituzioni melfitane, che sono un
insieme di leggi promulgate da Federico II nel 1231. L’agostario o augustale è una moneta d’oro coniata dallo stesso
imperatore nello stesso anno. Quindi questo ci dice che il testo che stiamo leggendo è posteriore al 1231, ma anche che
è anteriore al 1250, che è l’anno della morte dell’imperatore,
mentre qui si dice “viva l’imperatore”,
dunque l’imperatore è ancora in vita. Continuo la lettura:
«Tu me no lasci
vivere né sera né maitino. (provenzalismo)
Donna mi so’ di pèrperi, d’auro massamotino. (monete di Bisanzio e pregiato oro orientale)
Se tanto aver
donàssemi quanto ha lo Saladino, (leggendario sultano di Siria ed Egitto)
e per ajunta
quant’ha lo soldano, (d’Egitto)
toc[c]are me non
pòteri a la mano».
«Molte sono le femine c’hanno dura la testa, (espressione non cortese)
e l’omo con
parabole l’adímina e amonesta:
(le domina e le persuade; provenzalismo)
tanto intorno procazzala fin che·ll’ha in sua podesta. (la
incalza; espressioni non cortesi)
Femina d’omo non
si può tenere:
guàrdati, bella,
pur de ripentere».
«K’eo ne [pur
ri]pentésseme? davanti foss’io aucisa
ca nulla bona
femina per me fosse ripresa!
[A]ersera passàstici, cor[r]enno a la distesa. (tempo fa: francesismo)
Aquístati
riposa, canzonieri: (canterino, cantastorie: francesismo)
le tue parole a
me non piac[c]ion gueri». (per niente: francesismo)
«Quante sono le schiantora che m’ha’ mise a lo core, (dolori)
e solo
purpenzànnome la dia quanno vo fore!
Femina d’esto secolo
tanto non amai ancore
quant’amo teve,
rosa invidïata:
ben credo che mi
fosti distinata».
«Se distinata
fósseti, caderia de l’altezze,
ché male messe
fòrano in teve mie bellezze.
Se tut[t]o
adiveníssemi, tagliàrami le trezze,
e consore
m’arenno a una magione,
avanti che
m’artoc[c]hi ’n la persone».
«Se tu consore
arènneti, donna col viso cleri, (tipica formula trobadorica)
a lo mostero vènoci e rènnomi confleri: (francesismi)
per tanta prova
vencerti fàralo volontieri.
Conteco stao la
sera e lo maitino: (provenzalismo)
besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino». (espressione non cortese)
«Boimè tapina
misera, com’ao reo distinato! (destino crudele)
Geso Cristo
l’altissimo del tut[t]o m’è airato:
concepístimi a
abàttare in omo blestiemato.
Cerca la terra ch’este
gran[n]e assai,
chiú bella donna
di me troverai».
«Cercat’ajo
Calabr[ï]a, Toscana e Lombardia,
Puglia,
Costantinopoli, Genoa, Pisa e Soria,
Lamagna e
Babilonïa [e] tut[t]a Barberia:
donna non [ci] trovai tanto cortese,
per che sovrana di meve te prese». (espressioni tipiche del vassallaggio d’amore)
«Poi tanto
trabagliàsti[ti], fac[c]ioti meo pregheri
che tu vadi
adomàn[n]imi a mia mare e a mon peri.
Se dare mi ti
degnano, menami a lo mosteri, (francesismi)
e sposami
davanti da la jente;
e poi farò le tuo comannamente».
Il
commento di Fo
12) Ed ecco il commento di Dario Fo:
Per
quanto riguarda la nostra storia, o meglio la storia del nostro popolo, uno dei
testi primi del teatro comico-grottesco, satirico, è Rosa fresca aulentissima di
Ciullo (o Cielo) d'Alcamo. Ebbene, perché noi vogliamo parlare di questo
testo? Perché è il testo più mistificato
che si conosca nella storia della nostra letteratura, in quanto mistificato
è sempre stato il modo di presentarcelo. Al liceo, al ginnasio, quando ci propongono
quest'opera, ci fanno la più grossa truffa che si sia mai messa in opera in
tutta la storia della scuola. Prima di tutto ci fanno credere che sia un testo scritto da un autore aristocratico,
che, pur usando il volgare, ha voluto dimostrare d'essere talmente dotato da
tramutare «il fango in oro». È riuscito cioè a scrivere un'opera d'arte:
grazie alla grazia di cui solo un poeta aristocratico come lui poteva essere
intriso. Tanto da far giungere un tema
così triviale, cosi rozzo come un dialogo «d'amore carnale», a livelli
straordinari di poesia «culta», propria della «classe superiore»! Ecco,
dentro questo sforzo di farci passare quest'opera come momento ispirato di un
autore aristocratico, ci è capitato dentro quasi tutto, diciamo tutte le
capriole e i salti mortali dei sacri autori borghesi dei testi scolastici, dal
De Sanctis al D'Ovidio. Dirò che il primo a fare un gioco di truffa è stato Dante Alighieri. Infatti, più o meno
esplicitamente, nel suo De Vulgari Eloquentia, dice con una
certa sufficienza che «... d'accordo, c'è pure qualche crudezza in questo
"contrasto", qualche rozzezza, ma certamente l'autore è un erudito,
un colto» (per la verità Dante non ha detto questo, ha detto che il volgare del
Contrasto è proprio non degli scrittori colti, ma degli abitanti di media
condizione: secundum quod prodit a terrigenis mediocribus). Non
parliamo poi di cosa hanno detto gli studiosi verso il Settecento e l'Ottocento
a proposito dell'origine «culta» di questo testo; il massimo è successo
naturalmente sotto il fascismo, ma anche poco prima non si scherzava. Lo stesso
Croce, Benedetto Croce, il filosofo
liberale, dice che indubbiamente si tratta di un autore aristocratico poiché la
poesia del popolo è un fatto meccanico, cioè a dire « è un fatto di ripetizione
pedestre». Il popolo, si sa, non è capace di creare, di elevarsi al di
sopra di quello che è la banalità, la brutalità, il volgare, e quindi riesce al
massimo a copiare «meccanicamente»; da qui il senso di «meccanico». Solo
l'autore aristocratico, colto e evoluto, ha la possibilità di sviluppare
artisticamente un tema qualsivoglia. Il popolo, bue e becero, al massimo riesce
a fare delle imitazioni. Basta, tutto lì.
La tesi di Fo e le tre questioni
13)
Fo sostiene, al contrario, il carattere assolutamente popolare del
testo e contesta,
come censorie e moralistiche, le
interpretazioni della critica tradizionale (e quindi dei manuali scolastici).
Entrambi i personaggi che dialogano nel Contrasto
sono popolani che millantano, in
particolare lei, una loro condizione sociale superiore. Lui è un giullare, lei è probabilmente
la servetta in una casa padronale.
14)
L’argomentare di Fo si incentra
soprattutto su tre questioni: la questione del nome dell’autore
del Contrasto, la questione del secondo verso della prima
strofa, e infine la più complessa e significativa questione della defensa,
evocata dall’amante alla quinta strofa.
La prima questione: il nome
dell’autore
15)
Cominciamo dall’argomento del nome.
Riporto il passo in questione:
Questa
preoccupazione di correggere la verità nasce già al momento di decifrare il
soprannome dell'autore; infatti viene quasi sempre citato nei testi di scuola non come Ciullo d'Alcamo, ma come
Cielo d'Alcamo. Attenzione, i lombardi sanno cosa significhi il termine
«ciullo»; senza voler fare della scurrilità, «ciullo» è il sesso maschile. E
notate che anche in Sicilia m'è capitato, ad Alcamo, di chiedere il significato
di «ciullo»... ah ah ah... giù tutti a ridere! Ad ogni modo, tornando alla
scuola, vi rendete conto che questo termine deve essere subito modificato,
medicato, portato via, e naturalmente il professore dice; «C'è un errore».
Infatti noti ricercatori hanno fatto carte false per indicare un'altra lettura.
Non potevano accettare un soprannome del
genere, altrimenti si tratterebbe indubbiamente di un giullare, in quanto quasi
tutti i giullari hanno soprannomi piuttosto pesantucci…. Dunque, non si può
dire «ciullo». Non si può, in una scuola come la nostra, dove l'ipocrisia e
la morbosità cominciano fin da quando vai all'asilo. Io sono stato all'asilo,
da piccolo s'intende, e mi ricordo che quando succedeva che una bambina vedeva
un bambino che faceva pipì diceva: «Oh, guarda!... suora... cos'ha quel bambino
lì? » «Una brutta malattia, - rispondeva la maestra, - non guardare... via, via,
fatti il segno della croce! » È la nostra scuola. E dobbiamo capire il dramma
degli insegnanti.
Ma la questione è risolta: il nome “Ciulo”
non esiste
16)
In effetti quella del nome è un’antica e
tormentata questione, ma, per la verità, già felicemente risolta. Essa nasce da un equivoco, un fraintendimento di lettura
della grafia di un filologo del Cinquecento, Angelo Colocci, che è colui
– ed è l’unico – che ci ha tramandato quel nome. Io non sono un esperto
di paleografia, ma basterà guardare la
fotografia del manoscritto, che si ritrova, ad esempio, nella Treccani e si
noterà che la lettera, fraintesa da
alcuni lettori inesperti (o semplicemente disattenti) come una “u”, è
inequivocabilmente una “e” (tant’è che per tutte le “e” del
manoscritto è riconoscibile lo stesso segno grafico). Dunque non Ciulo, ma
Cielo, che sarebbe una forma toscanizzata del siciliano Celi, a sua volta
derivato da Cheli, diminutivo di Michele. La variante Ciulo nasce nel Seicento e non si giustifica se non,
appunto, con una cattiva lettura da parte di altri studiosi (Ubaldini prima e Allacci poi, e il secondo probabilmente influenzato dal primo), che
del resto non ebbero altre fonti che
le carte del Colocci. Tale variante si è poi conservata, ed anzi si è presentata anche nella forma
Ciullo, che è sembrata una derivazione da Vincenzo attraverso il suo
diminutivo Vincenzullo.
Ciò non toglie che l’autore possa
essere un giullare
17)
L’idea di Fo che Ciullo sia invece un
soprannome osceno affibbiato, come si usava, a un giullare, mi parrebbe acuta e
convincente, se si trattasse, appunto, di stabilire etimologia e significato di
quel nome; ma quel nome non esiste,
almeno per quanto riguarda l’autore del Contrasto Rosa fresca aulentissima; nasce come un fraintendimento,
abbiamo visto, e per quanto ci possa parere suggestiva l’ipotesi di una
censura per oscenità perpetrata nei confronti di quel nome, essa è fondata sul
niente. Questo, naturalmente, non
vuol dire negare che l’autore del Contrasto
fosse un giullare (anzi, se – per restare alla questione del nome - invece
della forma "d’Alcamo", che indicherebbe la città siciliana
d’origine, si accetta la lettura "dal
Camo", l’ipotesi torna a riproporsi: potrebbe essere un soprannome
attribuito, appunto ad un giullare, con riferimento a un certo modo di vestire,
essendo il camo un panno di bassa qualità); si nega soltanto che lo
si possa sostenere con quell’argomentazione.
La questione del verso 2
18)
Vediamo la questione del verso 2,
laddove
si dice “le donne ti disiano, pulzell' e maritate”. Ed ecco commento di
Fo:
Ora,
«rosa fresca aulentissima ch'apari inver' la state le donne ti disiano,
pulzell' e maritate». Come lo risolviamo? Notate che è ancora un modo di dire,
in Sicilia. A Sciacca, per fare un complimento ad una ragazza si dice: «Bedda
tu si, fighiuzza, che anco altri fighiuzze a tia vurria 'mbrazzari», anche le
altre ragazze vorrebbero abbracciare te, tanto sei bella. Lo dicono senza
nessuna malignità, ma nella nostra scuola non si può! E allora che cosa
s'inventa? Subito una virata di sessanta gradi, per poter aggiustare la
faccenda. Il professore insegna (e guardate che queste sono didascalie che
trovate in ogni testo) : «non bisogna prendere la forma cosi, tout court,
bisogna cercare d'individuarla. Cioè: sei
talmente bella che anche le altre donne, pulzelle e maritate, vorrebbero a te
assomigliare. Non vorrebbero te, ma vorrebbero apparire quale tu sei,
bella, elevata in mezzo a tutte le altre donne». Così, subito, il ragazzo o la
ragazza imparano l'ipocrisia e in casa dicono: «Mamma, desidererei una mela...
no, non desidererei nel senso di volerla mangiare, ma vorrei apparire come la
mela, rotonda e rossa da mordere».
L’interpretazione di D’Ovidio e
quella di Cesareo
19)
Mi pare che qui
Dario Fo non abbia tutti i torti,
anche se, nell’intento di ridicolizzare un’interpretazione ipocrita, sorvola su un’altra e più diffusa
interpretazione. Si tratta dell’interpretazione proposta da D’Ovidio, che sostiene l’esistenza di
una oscillazione fra significato
metaforico della rosa (la rosa è la ragazza) e il suo significato letterale (la
rosa è il fiore); per cui, se è vero che l’amante si rivolge alla
ragazza chiamandola “rosa”, nel secondo verso pensa al fiore, di cui è naturale
dire che è desiderato da tutte le donne; poi al terzo verso ne riprende il significato
metaforico, riferendosi alla donna (tragemi
d’este focora...). Tutto ciò perché
sembra inaccettabile, come sostiene Fo, l’idea che si possa dire che è la donna
oggetto del desiderio di altre donne. Dunque è stata “rimossa”, esclusa in tutti i modi, una interpretazione che invece il verso,
preso alla lettera, suggerisce immediatamente. In tutti i modi, se si
pensa che è circolata a lungo anche l’interpretazione (proposta da Cesareo) che voleva che quel femminile
(le donne pulzelle e maritate) fosse il residuo di un dialettismo (napoletano)
che indicava originariamente il maschile (li donni).
L’interpretazione rimossa: Contini
e Orbicciani
20)
Il primo a dare voce all’interpretazione rimossa è
stato Contini, il quale così annotava: le donne: naturalmente femminile; chi ha proposto altra interpretazione
non ha tenuto conto dell’eco scritturale
che qui ricorre (Cantico dei Cantici, I, 2: adulescentulae dilexerunt te, e cioè, detto della sposa, “sei piaciuta alle fanciulle, ti hanno
amato le fanciulle”). Così Contini recuperava il significato coerentemente
metaforico dell’espressione (oggetto
del desiderio è la ragazza, non la rosa).
21)
Però si tratta
di capire se l’espressione, che intende esaltare la bellezza della ragazza, per
quanto sorprendente e inaspettata, possa
appartenere al contesto culturale in cui opera Cielo. A questo fine, più
che il riferimento biblico, sarà utile mostrare i vv. 25-27 di una ballata di Bonagiunta Orbicciani, un rimatore toscano attivo alla metà del
Duecento (Donna, vostre bellezze):
Maritate
e pulzelle / di voi so’ innamorate, / pur guardandovi ‘n mente (soltanto
pensando a voi). Dunque l’interpretazione rimossa ha una sua legittimità, le
osservazioni critiche di Fo hanno, in
questo caso, un loro fondamento.
La questione della defensa
22)
Veniamo ora alla più complessa questione
della defensa; rileggiamo la strofa
che ne è all’origine e, a seguire, il monologo di Fo che la spiega e commenta:
«Se i tuoi parenti trova[n]mi, e che mi
pozzon fare?
Una difensa mèt[t]oci di dumili’ agostari:
non mi toc[c]ara
pàdreto per quanto avere ha ’n Bari.
Viva lo
'mperadore, graz[i'] a Deo!
Intendi, bella, quel che ti dico eo?»
E
il ragazzo risponde sbruffone (non dobbiamo dimenticare che sta recitando il
personaggio del ricco aristocratico): «Se i tuoi parenti trovanmi che ti ho
appena violentata o che ti sto facendo violenza, e che mi posson fare? Una defensa méttoci di dumili' agostari
(duemila augustari)». Cosa vuol dire? L'augustario era la moneta di Augusto,
inteso Federico II. Infatti siamo nel 1231-32, proprio al tempo in cui in
Sicilia governava Federico II di Svevia.
Duemila augustari equivalevano, più o
meno, a settantacinquemila lire odierne. E che cosa è questa defensa? Fa parte di un gruppo di leggi promulgate a vantaggio dei nobili, dei
ricchi, dette «leggi melfitane», volute proprio da Federico II, per
permettere un privilegio meraviglioso a
difesa della persona degli altolocati. Così, un ricco poteva violentare
tranquillamente una ragazza; bastava che nel momento in cui il marito o i parenti
scoprivano la cosa, il violentatore
estraesse duemila augustari, li stendesse vicino al corpo della ragazza
violentata, alzasse le braccia e declamasse: «Viva lo 'mperadore, grazi' a
Deo!» Questo era sufficiente a salvarlo. Era come avesse detto: «Arimorta!
Attenti a voi! Chi mi tocca verrà subito impiccato». Infatti chi toccava
l'altolocato che aveva pagato la defensa
veniva immediatamente impiccato, sul posto, o un po' più in là. Ecco che la
potete immaginare da voi tutta la scena. Grande vantaggio per il violentatore
medievale era dato dal fatto che, allora, le tasche non facevano parte dei
pantaloni. Erano staccate; erano delle borse che si appendevano alla cintola,
il che poteva permettere una condizione vantaggiosissima dell'amatore: nudo, ma
però con la borsa. Perché, nel caso: «Ah! mio marito!» trac... defensa... op... «Arimorta! Ecco i
quattrini! » Naturalmente bisognava avere i soldi contati, è logico, non si
può: « Scusi, aspetti un attimo... gli spiccioli!... Ha da cambiarmi per
favore?» Subito, subito, lì, veloci! Le madri che s'interessavano della salute
dei propri figlioli, una madre nobile naturalmente, e ricca, diceva sempre:
«Esci? Hai preso la defensa? » «No
no, vado con gli amici...» «Non si sa mai, magari incontri...» Ah, perché la defensa valeva anche per la violenza a
base di coltello. Uno dava una coltellata a un contadino... zac... defensa! Che naturalmente era minore,
centocinquanta massimo. Se poi ammazzava l'asino insieme al contadino, allora
si faceva cifra tonda. Ad ogni modo questo vi fa capire quale fosse la chiave
della «legge» del padrone: la brutalità
di una tassa che permetteva di uscire indenni da ogni violenza compiuta da
quelli che detenevano il potere. Ecco perché non ce lo spiegano mai questo
«pezzo» a scuola. Mi ricordo che sul mio libro di testo al liceo tutta questa
strofa non esisteva, era stata censurata. Su altri testi c'era, ma non veniva
mai spiegata. Perché? È logico! Per una ragione molto semplice; attraverso questo pezzo si scopre chi ha
scritto il testo. Non poteva essere altro che il popolo. Il giullare che si
presentava sulla piazza scopriva al popolo quale fosse la sua condizione,
condizione di «cornuto e mazziato», come dicono ancora a Napoli: cioè
bastonato, oltre che cornuto. Perché questa legge gli imponeva proprio lo
sberleffo, oltre che il capestro.
Dunque
per Fo non c’è dubbio che si tratti di una legge promulgata “a vantaggio dei nobili, dei ricchi” per
cui “un ricco poteva violentare
tranquillamente una ragazza; bastava che nel momento in cui il marito o i
parenti scoprivano la cosa, il violentatore estraesse duemila augustari, li
stendesse vicino al corpo della ragazza violentata, alzasse le braccia e
declamasse: Viva lo 'mperadore, grazi' a Deo! Questo era sufficiente a
salvarlo.”
E’ una interpretazione infondata,
ideologicamente prevenuta
23)
C’è qui un errore di impostazione,
frutto di una conoscenza storica approssimativa e, direi anche, di una interpretazione ideologicamente
prevenuta, che non può essere sostenuta sulla base dei riscontri documentali.
24)
Dario Fo è un uomo di spettacolo, certamente non
è un filologo né uno storico, ma quando si parla di un
testo della letteratura italiana, di leggi promulgate in un certo momento
storico, bisognerà informarsi un po’ di più se si ha a cuore la verità e non una tesi che soddisfa a priori le proprie convinzioni, a prescindere da ogni verifica sui documenti. Quindi
sarà il caso di leggere direttamente
dalle Costituzioni melfitane gli
articoli che istituiscono la cosiddetta defensa,
e sarà naturale concludere che ciò che
si intende nella strofa in questione è esattamente il contrario di quanto
sostenuto da Fo.
La defensa nella Costituzioni melfitane
25)
Le Constitutiones
regni Siciliae, o Costituzioni melfitane (così chiamate perché promulgate a
Melfi, da Federico II, nel 1231) sono un insieme di leggi evidentemente intese a far valere il potere centrale del
monarca e, di contro, a limitare i molteplici poteri locali che minano la forza
dello Stato; e questo è vero in particolare per quanto riguarda
l’istituto della defensa, di cui si
tratta ai titoli XVI-XIX del primo libro di dette Costituzioni.
26)
Di che si tratta? L’imperatore, dopo
aver notato che spesso la potenza dell’aggressore è talmente
soverchiante (in tantum supereminere)
che l’aggredito, per quanto abbia buon diritto a difendersi, di fatto è
costretto a subire l’aggressione, conclude: "presentis legis auctoritate cuilibet licentiam impartimur ut adversus
aggressorem suum per invocationem nostri nominis se defendat, eidemque ex parti
imperiali prohibeat ut ipsum offendere de cetero non presumat"; e cioè,
a chiunque (anche Giudeo o Saraceno,
dirà più oltre, “perché non vogliamo che costoro, per il
fatto che sono Giudei o Saraceni, subiscano violenza pur essendo innocenti”:
si noti quindi la volontà di tutelare le categorie deboli) è data
facoltà di difendersi invocando il nome dell’imperatore; quell’invocazione
avrebbe avuto l’effetto di interrompere l’aggressione, giacché, altrimenti,
sarebbe stata considerata un’aggressione contro la persona stessa dell’imperatore.
Si aggiunge poi che, nell’eventualità di violazione della defensa, il caso sarà sottratto alla giurisdizione locale e portato
davanti ai tribunali del re ("de
istis defensis... etiam per privatas personas indictis... magister justitiarius
et justitiarii nostri cognoscant") .
La defensa limita, non rafforza i privilegi nobiliari
27)
Mi pare che questi elementi siano
sufficienti a farci capire che, con l’istituto della defensa, Federico II, lungi
dal voler rafforzare privilegi nobiliari, intende limitarli (e del
resto gli è ben chiaro che proprio su tale limitazione si può fondare
l’autorità superiore dello Stato, secondo le linee di una politica da lui
sempre perseguita); intende difendere il diritto di chi, altrimenti,
dovrebbe subire il sopruso di un potente-prepotente (questo è infatti il comportamento che si vuol punire: la
prepotenza di colui la cui "potentia"
"superminet"); e
per meglio garantirsi dalla possibilità che il potente-prepotente si faccia dar
ragione da giudici locali compiacenti, avoca
a sé il potere di dirimere la controversia.
La testimonianza di Marino di
Caramanico
28)
Che la defensa vada quindi collocata entro questo quadro (antitetico a
quello disegnato da Fo) mi pare indubitabile; e tale doveva sembrare anche ai
contemporanei, se Marino da
Caramanico, un glossatore che opera attorno al 1275, così scrive
commentando il titolo XVI delle Costituzioni melfitane: "Et per hanc constitutionem succurrit
Imperator debilibus, qui sepe a potentibus opprimuntur".
L’errore di Fo su chi paga la defensa
29)
Ma
c’è dell’altro. Seguendo la sua interpretazione
(secondo cui la defensa sarebbe uno
strumento di sopraffazione dei ricchi nei confronti dei poveri), Fo si serve
dell’esempio della violenza sessuale che il potente avrebbe potuto compiere,
sicuro dell’impunità, semplicemente pagando la defensa (e cioè, una multa): in altre parole, Fo crede che nei
versi in questione l’amante, millantando la propria ricchezza, si dichiari
disposto a pagare la defensa (ed
indica la cifra che si può permettere: duemila augustali) pur di compiere
violenza sulla ragazza. Al contrario, invece, dal testo mi pare inequivocabile che i duemila
augustali costituiscano la cifra che, una volta che l’amante abbia
"imposto" la defensa, i
parenti di lei dovrebbero pagare nel caso in cui lo aggredissero. Non
si spiega, altrimenti, il verso "non
mi toccàra pàdreto per quanto avere ha ’n Bari", e cioè: non mi toccherebbe
tuo padre, anche se avesse tutte le
ricchezze che ci sono in Bari; dunque la
defensa di duemila augustali invocata
dal giovane la pagherebbe il padre di lei se lo aggredisse, non il giovane per commettere
impunemente violenza sessuale, come invece intende Fo.
La cifra di 2000 augustali è
spropositata, ma è millanteria
30)
Ma veniamo
alla cifra di duemila augustali. Nelle Costituzioni melfitane si fa
riferimento a due tipi di defensa:
uno "semplice", che sarebbe il caso normale e comporterebbe per il
trasgressore la perdita di un terzo o di un quarto dei propri beni a seconda
che abbia commesso l’aggressione con le armi o senza le armi; e un altro, che sarebbe il nostro caso, con
indicazione della multa da pagare in caso di violazione (sub quacumque quantitate). Dunque l’amante indica come
multa la somma di duemila augustali. Che si tratti di una
"sbruffonata" non c’è dubbio, perché duemila augustali sono una cifra rilevantissima; ma fa parte
del "gioco": come lei fa la preziosa, vantando un rango sociale che
certamente non ha (si vedano i versi 27: "Donna mi so’ di perperi, d’auro massamotino"; 46: "se distinata fosseti, caderìa de l’altezze"; e in
una strofa successiva, vv. 86-87: "di
quel frutto non abbero conti né cabalieri / molto lo disiarono marchesi e
justizieri") così lui, con
quella cifra spropositata, intende vantare il valore della propria persona,
quasi a dire: chi mi tocca, non pensi di cavarsela con due soldi.
31)
La corrispondenza indicata da Fo
(settantacinquemila lire),
per quanto rapportata al valore della lira alla fine degli anni ’60, è assolutamente inadeguata. Ma
anche questo minimizzare è comprensibile: Fo
intende dimostrare che il potente, che intendesse commettere un sopruso, se la
poteva cavare, tutto sommato, a buon mercato.
32)
Dunque
quella cifra è una sbruffonata, una millanteria. Del resto lo stesso appellarsi
alla defensa, in questo contesto, non
è una cosa seria, ma piuttosto la
minaccia scherzosa di un innamorato che vuole raggiungere il suo obiettivo:
mancano infatti i tre testimoni (o più), degni di fede e di buona reputazione,
che la legge richiede perché la violazione della defensa sia provata e quindi punita (tres testes aut plures ad probandam defensam impositam et contemptam).
E’ prevista la pena capitale per il
reato di stupro
33)
Ma malgrado il tono scherzoso, è
evidente che l’innamorato fa
riferimento alla defensa come ad una
legge che lo tutela – grazie all’imperatore e "grazi’ a Deo" – da eventuali aggressioni (dei parenti di
lei); non come ad una legge di cui servirsi per commettere lui, impunemente,
un atto di violenza sessuale.
34)
Anche perché – e questo mi pare un
argomento decisivo, che toglie fondamento a tutta l’esemplificazione di Fo sul
violentatore che andava in giro con in tasca, o in borsa, i soldi per pagare la
defensa – le stesse Costituzioni melfitane comminavano la pena capitale ai
colpevoli del reato di stupro (nei confronti non solo delle donne
oneste, ma anche delle meretrici: ut
nullus eas compellat invitas sue satisfacere voluptati): altro che defensa con cui cavarsela a buon mercato! C’era da rimetterci la
pelle. Leggo in italiano l’articolo della legge intitolato “Della violenza fatta a meretrici”:
Quelle miserevoli
donne, che per il turpe mercato sono definite prostitute, godano del nostro
beneficio, acciocché nessuno le
costringa controvoglia a soddisfare il proprio piacere. Coloro che agiscono
contro questo editto, rei confessi e
condannati, saranno da punire con la pena capitale (….) Se alcuni accusati
di tali violenze, per le loro
confessioni (che per rimorso di coscienza facciano pubblicamente) o grazie a
testimoni, che abbiano scoperto gli accusati nell’atto stesso di commettere
violenza sessuale (cosa che tuttavia raramente può capitare), saranno stati
giudicati colpevoli, siano sottoposti alla pena capitale (per direttissima),
anche senza consultarci.
E pena pecuniaria per testimoni che
non accorressero
35)
Dunque sarebbero bastati dei testimoni
che avessero trovato il reo in atteggiamento inequivocabile (in ipsis venereis actibus invenerint
accusatos) per legittimare una giustizia rapida e sommaria (nobis etiam inconsultis, capitali pene
subiaceant); e i testimoni
dovevano accorrere, perché anche per loro era prevista una pena
(pecuniaria) nel caso che non portassero soccorso a una donna che invocava
aiuto. Sentite il testo della legge:
Vogliamo che chiunque abbia udito gridare una donna, a
cui sia fatta violenza, sia veloce a correre e a soccorrerla. Se non lo
farà, il nostro tribunale gli imporrà una
multa di quattro augustali, come pena per la sua dannosa inerzia. E nessuno
per evitare la pena potrà fingere di non avere udito le grida, nessuno che si
sia trovato sotto lo stesso tetto o in luogo da cui abbia potuto udire la voce,
a meno che non si dimostri che è sordo o, senza inganno, zoppo o altrimenti
deficiente o che dormiva nello stesso momento delle grida.
Non buoni gli argomenti di Fo sul
carattere popolare del testo
36)
Si deve concludere che l’assunto di Fo (l’autore del Contrasto è un giullare, vera e propria voce e coscienza del popolo,
altrimenti costretto al silenzio) è infondato? A me pare ovvio concludere che certamente non sono buoni gli argomenti
usati dall’autore-attore del Mistero
buffo: né da quelle congetture sul nome né dalle considerazioni sulla defensa si può dedurre il carattere
popolare del nostro testo e, soprattutto, non se ne può dedurre l’intenzione
di denunciare i soprusi dei potenti ai danni del popolo.
37)
Ed anche: il fatto che i due
protagonisti del Contrasto siano dei
popolani e che tutta la vicenda abbia un carattere schiettamente popolaresco
(si pensi alla conclusione, così poco "cortese": "A lo
letto ne gimo a la bon’ora"), nulla dice sull’autore e sul
pubblico destinatario del componimento: non
è certo anomalo, nella storia della letteratura, che un autore colto si diverta
a rappresentare, per un pubblico altrettanto colto, personaggi, ambienti e
situazioni popolari (si pensi, per fare un esempio famoso, al poemetto
rinascimentale Nencia da Barberino).
Il testo è linguisticamente ambiguo
38)
La questione, piuttosto, andrà
affrontata con gli strumenti dell’analisi linguistica. E allora bisognerà
riconoscere, onestamente, che quel
testo è linguisticamente ambiguo, non ci sono elementi tali che possano
far decidere definitivamente per una tesi piuttosto che per l’altra. E’ vero
che Dante, nel De
vulgari eloquentia, cita il Contrasto
come esempio di un volgare siciliano
proprio non degli scrittori colti ma degli abitanti di media condizione
(secundum quod prodit a terrigenis
mediocribus)[2]; ma cita non a caso il terzo verso della prima
strofa ("tragemi d’este focora,
se t’este a boluntate"), perché evidentemente si rendeva conto
che i primi due ("Rosa fresca aulentissima, c’apari inver la
state, / le donne ti disiano, pulzell’ e maritate") erano esempio
di una lingua colta, non certo dialettale.
Un lessico colto si alterna con un
lessico popolare
39)
Questa sorta di dualismo linguistico è rintracciabile nell’intero
componimento: parole ed espressioni che appartengono alla lirica colta (si
pensi solo alla sovrabbondanza di
francesismi e provenzalismi) si mescolano con parole ed espressioni
chiaramente popolari, sia per crudezza
realistica sia per i tratti marcatamente dialettali.
Dualismo anche di espressioni
cortesi e anti-cortesi
40)
A me piace far notare come l’amante
alterni formule, non solo
linguisticamente ma anche concettualmente, cortesi, in quanto rimandano alla
dottrina del vassallaggio d’amore, che vuole l’esaltazione della dama e la
sottomissione del cavaliere (5 "madonna
mia", 65 "sovrana di meve
te prese"), ad altre che
contraddicono seccamente i principi di quella dottrina, in quanto rovesciano la
posizione dell’uomo rispetto alla donna (32-33 "l’omo... l’ha in sua podesta", 55 "besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino").
L’autore può essere un giullare
41)
Ma dunque che cosa possiamo concludere a
proposito dell’autore e del significato del componimento? Gli elementi colti presenti nel testo non impediscono di pensare che
l’autore sia un giullare: un "mestierante" di poesia, quale
era il giullare, per quanto incolto,
poteva benissimo avere orecchiato i modi della lirica aulica. Certamente
però non ci sono nel testo elementi
che inducano a vedervi una denuncia delle malefatte del potere, dei soprusi dei
potenti ai danni del popolo; piuttosto si tratterebbe di una parodia dei modi della lirica “alta”, una
lirica che, fiorente proprio al tempo – e proprio alla corte – di Federico II,
aveva importato in Sicilia temi e modi della poesia trobadorica, con la sua
idealizzazione dell’amore inteso come un sentimento nobile e nobilitante;
farne la parodia vuol dire mostrare come dietro quella idealizzazione, dietro
le raffinate espressioni del cosiddetto “amor cortese”, si nasconda un obiettivo assolutamente materiale:
“a
lo letto ne gimo alla bon’ora!”. Una parodia per il divertimento
del pubblico della piazza.
L’autore è colto
42)
Tuttavia, secondo la maggioranza degli
studiosi, proprio il dualismo di cui si è detto dimostrerebbe la letterarietà del componimento,
e quindi anche il carattere colto dell’autore: costui conosce gli stilemi "cortesi", conosce lessico ed espressioni delle lingue
francese e provenzale, ovvero lessico ed espressioni proprie di una
letteratura “alta”, è abile
nell’uso di registri linguistici diversi, padroneggia sapientemente la materia poetica e la tecnica
compositiva, a cominciare dalla metrica.
43)
Infatti la struttura metrica della
strofa non è proprio semplice, Sono strofe di cinque versi, costruite su due rime, una rima per i
primi tre e una per i secondi due: i primi tre versi sono alessandrini (ovvero di 14 sillabe, divisi in due settenari, il
primo dei quali termina sempre con
una parola sdrucciola, cioè con
l’accento sulla terzultima sillaba), i secondi due sono endecasillabi. E’
usata inoltre la tecnica, di origine provenzale, delle cosiddette coblas
capfinidas, ovvero ogni strofa comincia riprendendo le parole o il
concetto con cui finisce la strofa precedente.
44)
Tutti questi elementi inducono a pensare
che l’autore appartenga ad ambienti
culturalmente e socialmente elevati e che solo parodisticamente,
per far divertire un pubblico colto, si compiacccia di usare volgarità di
lingua e di pensiero. In altre parole, non
è un giullare che fa la parodia della lirica “alta”, ma un autore colto che fa
la parodia dei modi popolani. A me pare che questa opinione sia
convincente.
[1] L’origine non è
molto chiara: la parola grammelot sembra che derivi dal francese
“grommeler”, borbottare, e una
simile pratica recitativa sembra che si trovasse già nella commedia dell’arte
rinascimentale. Secondo molti però si tratta di una invenzione novecentesca, totalmente attribuibile a Dario Fo,
che ne ha fatto una caratteristica della propria recitazione.
[2] Notare che anche qui Dario Fo
fraintende, in quanto ritiene che qui Dante “più o meno esplicitamente” dica
che “certamente l’autore è un erudito, un colto”.
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