Plauto
Nacque a Sàrsina, nell’entroterra riminese (oggi
in provincia di Forlì, ma allora considerata terra umbra), attorno al 260 a. C.; morì a Roma attorno al 184 a. C.. Ci sono incertezze anche sul
nome, Titus Maccius Plautus: Maccius
era probabilmente un nomignolo, affibbiatogli, è da presumere, perché come
attore recitava la parte di Maccus,
un personaggio dell’atellana; Plautus
rimanderebbe ad una forma umbra Plotus,
“piedi piatti”, ma potrebbe significare anche “dalle orecchie penzolanti”
(come si dice di certi cani); e infatti nel prologo della Càsina l’autore è
chiamato “Plautus cum latranti nomine”.
Secondo Varrone (grande erudito dell’età
di Cesare), Plauto era arrivato a Roma al seguito di una compagnia teatrale,
aveva male investito in commerci i suoi proventi e quindi, ridotto in miseria,
aveva dovuto girare la macina di un mulino; allora si sarebbe messo a scrivere
commedie e avrebbe ottenuto uno straordinario successo, sicché, dopo la sua
morte, gli venivano attribuite centotrenta commedie; Varrone ne
identificò ventuno come
autentiche e diciannove come dubbie:
le ventuno - o meglio venti, perché la Vidularia, o “commedia del
bauletto”, è quasi completamente perduta - sono quelle tramandateci dai codici.
La struttura
prevede il prologo (recitato da una
divinità, o da un attore col nome di Prologus
o da un personaggio della commedia), l’azione
(divisa in scene; la ripartizione in cinque atti è di età umanistica) e l’epilogo (con il lieto fine e il plàudite
rivolto al pubblico). Parti recitate (i deverbia, in senari
giambici) si alternano a parti con accompagnamento musicale (“recitativi”,
in versi “lunghi”, accompagnati dal flauto; o cantica, in versi lirici,
veri e propri pezzi cantati): talché qualcuno paragona la palliata plautina
all’operetta o al musical moderno.
Gli intrecci
sono quelli tipici della commedia nea: complicati, ma anche molto
ripetitivi. Buona parte delle commedie presenta questo schema di base: il
giovane (adulescens o erilis
filius) si innamora di una donna (spesso una etéra, o una fanciulla di
condizione sociale troppo umile); l’amore è avversato dal padre (tradizionalista e gretto, non è disposto a concedere né
danaro né consenso all’amore del figlio), dagli avidi mezzani (la lena e il leno, quest’ultimo, in
particolare, vero e proprio “malommo” della fabula), dal miles gloriosus (fanfarone e
prepotente); il giovane è aiutato da un amico, o da un parassita, o, più spesso, dal servus callidus (audace e
intelligente, trova gli espedienti per raggirare padri e mezzani); topos conclusivo è quello dell’agnitio,
o “riconoscimento” (la etéra è in realtà una libera, perduta o rapita da
bambina; la fanciulla troppo umile si rivela di condizione sociale adeguata),
che consente il matrimonio e la riconciliazione finale fra padri e figli.
Manca
l’attenzione sia per la coerenza della trama (ciò che conta è la comicità
immediata della singola scena), sia per l’approfondimento psicologico (ciò che
conta non è la verisimiglianza, ma la comicità che si ottiene accentuando i
tratti caricaturali: gli innamorati sono languidi, le mogli sono bisbetiche, i
parassiti sono voraci, ecc.); sono commedie motoriae (di movimento, di azione) e non statariae (statiche, di introspezione).
Nel servus sembra identificarsi il poeta (Pseudolus,
il protagonista dell’omonima commedia, lo dice chiaramente[1]); ma poiché il servus trionfa sul vecchio padrone, cosiccome sul miles (e a Roma tanto la figura paterna
quanto quella del soldato sono figure tradizionalmente positive), dobbiamo
vedere nel teatro plautino una critica dei valori dominanti nella società
romana? Non è da credersi, ma piuttosto (secondo la lettura che Bachtin[2] fa del carnevale, come momento del
rovesciamento burlesco della realtà) dobbiamo pensare a quell’elemento tipico
del comico che consiste nell’immaginare un mondo alla rovescia.
Altri invece
ci vogliono vedere una difesa del mos
maiorum (sulla linea anti-ellenica di Catone) ed una denuncia dei mores Graecorum[3], di cui sono rappresentative quelle
figure umane (che fanno ridere, ma sono negative: dal giovane scioperato, al
parassita, al lenone). La verità è che in Plauto non è riconoscibile una chiara
posizione ideologica; di volta in volta si fa portavoce di opinioni e giudizi
contrastanti; vuole divertire, non ammaestrare.
Circa i
rapporti con i modelli della nea, è
lo stesso Plauto che usa in qualche prologo l’espressione vortere barbare
(“tradurre in barbaro”, cioè dal greco al latino); ma, da quel che sappiamo
sulla nea (maggiori erano la
compostezza stilistica e l’interesse psicologico)[4], più che di traduzioni si tratta di
libere rielaborazioni (certamente anche con l’uso della contaminatio). Il ritrovamento
nel 1968 di un papiro che riporta una parte del Dis exapatòn (“colui che
inganna due volte”) di Menandro,
consente il confronto con la corrispondente parte delle Bacchides: non solo i
nomi sono cambiati, ma è diverso il modo di trattare l’equivoco (il
protagonista crede, a torto, di essere stato tradito dall’amico): in Menandro
ha rilievo l’aspetto psicologico, sottolineato da monologhi, e l’incontro tra i
due amici assume toni patetici; in Plauto scompaiono psicologismi e patetismi,
per dare spazio alla comicità (nell’incontro, il presunto traditore non sa che
l’amico ce l’ha con lui).
La comicità
è piuttosto “grossa” (e questo spiega il suo successo popolare): è affidata agli
equivoci, alle esagerazioni caricaturali, ai giochi di parole, ai doppi sensi,
ai cumuli (ad esempio, di insulti: si veda, nello Pseudolus, la sequenza
degli improperi di Calidoro e del suo schiavo Pseudolo nei confronti del
mezzano Ballione). La lingua è varia: ci sono grecismi (moechissare, “comportarsi da adultera”), incredibili neologismi
realizzati per fusione di parole (in Persa, “Il persiano”, lo schiavo
dice di chiamarsi Vaniloquidorus
Virginesvendonides ecc.; cioè “Frottolidoro Vendileragazze ecc.”), forme
del parlato.
Tipica è
anche la tendenza a sottolineare il carattere fittizio dell’evento teatrale:
si attua cioè la rottura dell’illusione scenica (nell’Aulularia,
“La commedia della olla, o pignatta”,
Euclione chiede agli spettatori di aiutarlo a ritrovare la pentola col
suo tesoro; nella Cistellaria, “La commedia della cesta”, una serva che ha
perduto la sua cesta chiede aiuto al pubblico; ecc.); a volte si tratta di vero
e proprio metateatro (ciò che è
oggetto del teatro è il teatro stesso: nel Mercator, “Il mercante”: “Hai paura di svegliare gli spettatori che
si sono addormentati?” ; nel Poenulus , “Il cartaginese”, un
personaggio spiega che le monete d’oro contenute in una borsa sono “oro da
commedia”, cioè lupini, non vero oro; nel Persa, dovendo trovare gli abiti per
un travestimento, il servo dice: “Chiedili
al capocomico; è tenuto a fornirli, visto che gli edìli glieli hanno dati in
appalto perché li metta a disposizione degli attori” ; ecc.).
Terenzio e l’ambiente scipionico
.
Publio
Terenzio Afro nacque a Cartagine presumibilmente nel 185 a. C.[5]; venne a Roma come schiavo,
poi il suo padrone (il senatore Terenzio Lucano) lo affrancò (di qui il nomen; il cognomen invece si riferisce alla sua origine africana); frequentò
il “circolo” degli Scipioni (fu amico, in particolare, dell’Emiliano
e di Gaio Lelio), morì in Grecia (dove era andato per procurarsi nuove
commedie) nel 159 a. C.[6].
Su modelli
tratti da Menandro e da Apollodoro di Caristo, scrisse
sei commedie: Andria (la ragazza originaria
dell’isola di Andro, di nome Glicerio,
presunta etéra, di cui si innamora Panfilo, contro il desiderio del
padre, Simone; costui vorrebbe che sposasse Filùmena, figlia del
suo amico Cremete, ma amata da Carino, amico di Panfilo; alla
fine, il “riconoscimento” che la ragazza non è un’etéra, anzi è la figlia dello
stesso Cremete che si era persa in un naufragio, dà soddisfazione a tutti con
matrimoni incrociati); Hècyra (la suocera, Sostrata, a torto ritenuta colpevole del ritorno
alla propria casa della nuora Filùmena; in realtà costei cerca di
nascondere una gravidanza frutto di uno stupro subito prima del matrimonio; il
lieto fine si ha perché si scopre che lo stupratore era stato Panfilo,
prima che ne diventasse il legittimo marito; è la etéra Bacchide,
vecchia amante di Panfilo, a consentire lo “scioglimento”: ha al dito un anello
che apparteneva a Filùmena, e che Panfilo le ha donato proprio la notte dello
stupro); Heautòntimorùmenos (il
punitore di se stesso, è il vecchio Menedémo che si dedica ad una
vita di privazioni e fatiche per punirsi di aver ostacolato il figlio, Clinia,
nel suo amore per una ragazza povera, Antifila; si sente colpevole per
averlo costretto, con i suoi rimproveri, ad arruolarsi come mercenario in Asia;
in realtà Clinia è tornato segretamente, e tutto si risolverà felicemente
perché si scoprirà, anche qui, che Antifila è figlia di Cremete, caro
amico di Menedémo; alla sua nascita la madre, invece di ucciderla seguendo
l’ordine del padre che non voleva una figlia femmina cui avrebbe dovuto fornire
la dote, l’aveva “esposta”[7]); Eunuchus (l’eunuco, è un personaggio, Chérea,
che si traveste così per introdursi nella casa della etéra Taide; con
personaggi “plautini” - il miles
gloriosus Trasone e il parasitus
Gnatone - è la commedia più fortunata[8]); Phormio (Formione, è il nome del parassita
protagonista); Adelphoe (i fratelli,
sono i due senes che hanno allevato i
figli secondo sistemi educativi opposti: autoritario ed avaro l’uno, comprensivo
e generoso l’altro - e questo si dimostra migliore).
Nel suo
teatro, nuovo è il prologo:
non informa più, come in Plauto, sull’antefatto (ci penseranno i personaggi
nelle prime scene), ma diviene occasione per dichiarazioni di poetica e
polemiche con i critici. In particolare, nell’Andria si difende dall’accusa di avere “contaminato”
adducendo a sua discolpa gli autorevoli precedenti di Ennio, Nevio, Plauto;
nell’Eunuchus, dall’accusa di plagio
(avrebbe ripreso i personaggi dell’Eunuchus dal Colax di Nevio e da una commedia di Plauto),
sostenendo che nella palliata “nullumst
iam dictum quod non dictum sit prius”; negli Adelphoe, dall’accusa di essere un prestanome dei suoi
potenti protettori (ma la difesa è blanda: si dice onorato, e non offeso dall’accusa,
giacché è vero che “egli è gradito a
coloro che sono graditi a tutto il popolo” [9]).
Diversamente
da Plauto, non ebbe un gran successo in vita: famoso il fiasco dell’Hècyra
(il pubblico abbandonò in massa la rappresentazione, una prima volta per
andare ad assistere ad uno spettacolo di pugili e funamboli, una seconda volta
per uno spettacolo di gladiatori); l’Eunuchus
fu invece il suo più grande successo (e infatti, con le riserve di cui sopra, è
la più “plautina”).
Si può dire
che il teatro di Terenzio ben rappresenti l’ideologia espressa dall’ ambiente
degli Scipioni: come il filo-ellenismo di questo rappresenta
l’apertura verso altre etnie ed altre culture (in contrapposizione all’anti-ellenismo dei tradizionalisti che,
come Catone, volevano restare
chiusi entro i limiti del mos maiorum),
così le commedie di Terenzio propongono l’ideale di una humanitas universale,
entro cui, accanto ai boni viri,
hanno diritto di cittadinanza figure tradizionalmente emarginate, “inferiori”,
quali servi, parassiti, liberti, meretrici (laddove Plauto ne faceva oggetto di
deformazione caricaturale). “Homo sum:
humani nihil a me alienum puto”, dice Cremete nello Heautontimorùmenos, ed è una frase che
ben sintetizza il riconoscimento, da parte di Terenzio, dell’esistenza di una
comune sostanza umana (al di là di differenze etniche e sociali), e quindi la
sua disponibilità alla comprensione e alla tolleranza[10].
Questo
determina una commedia che non è più motoria, ma stataria (più che
all’azione, dà rilievo alla psicologia), di caratteri (ancorché non individuali, ma per tipi: il giovane
innamorato, il padre pensoso della felicità del figlio, la meretrice capace di
onesto sentire, la suocera che si adopera perché il figlio voglia bene alla
moglie); perde vis comica (di
qui, gli insuccessi) e perde anche la varietà linguistica plautina (ora
alta, ora marcatamente popolare, comunque sempre esuberante, immaginifica) in
nome della medietas (ovvero di uno stile medio che accomuna tutti allo
stesso livello, etico e culturale); e viene ridimensionata la figura del servus, vero protagonista delle
commedie plautine (perché ciò che conta non è l’intelligenza come furbizia, ma
come capacità di comprensione degli altri).
Motivo
ricorrente è quello del contrasto generazionale fra senes e adulescentes (Andria, Eautontimorumenos, Adelphoe ):
la novità è che il senex non è chiuso
nel suo rigido mondo tradizionalista, ma si dimostra capace di comprendere i
problemi dei giovani (è rovesciato, quindi, un luogo comune, connesso al mos maiorum: il padre non è autoritario,
ma indulgente; cosiccome, per altro, i giovani non sono intemperanti, le
suocere non bisbetiche, le etère non disoneste).
[1]“Come un poeta che, quando piglia in mano le
tavolette, cerca e ricerca ciò che non esiste in nessuna parte del mondo e
tuttavia finisce per trovarlo e rendere credibile quello che è solo una pura
invenzione, be’, ora io farò conto di essere un poeta: le venti mine, che non
esistono in nessun angolo della terra, saprò trovarle comunque.”
[2]M.
Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura
popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale,
Einaudi 1979.
[3]Nel
Curculio il protagonista si scaglia contro i greci
fannulloni, ubriaconi e profittatori. Nella Mostellaria si usa il verbo pergraecari col significato
di “gozzovigliare”, cioè “vivere in maniera dissoluta alla maniera dei greci”.
[4]Come
è noto, sulla nea sappiamo poco, perché disponiamo solo di
frammenti (anche ampi) e di una sola commedia intera di Menandro (il Dyskolos,
o “Misantropo”, che, fra l’altro, non fu il modello di nessuna delle palliate
latine a noi pervenute).
[5]I dati biografici li abbiamo da una Vita
di Svetonio (II sec. d. C.),
conservata perché premessa da Elio
Donato (un grammatico del IV sec.) a un suo commento al teatro di Terenzio.
[7]A
margine, si può notare come il teatro di Terenzio (ne sono esempio questo
episodio e quello al centro dell’ Hécyra )
sia documento del maschilismo (del disprezzo per la donna) romano (e,
presumibilmente, anche greco).
[8]Va peraltro notato, ad esempio
confrontando il dialogo fra soldato e parassita qui e nel Miles gloriosus di Plauto,
come la comicità sia pur sempre diversa: fondata, in Terenzio, su allusioni e
sottintesi, non su grossolane esagerazioni, scarti dal verosimile, com’era
invece in Plauto.
[9]Così commenta la Vita svetoniana: “Terenzio sembra essersi difeso piuttosto
debolmente, perché sapeva che a Lelio e a Scipione non era sgradita quella
opinione; così essa allora si rafforzò ancora di più e perdurò fino alle epoche
successive”. A parte ciò, mi pare
che la questione resti aperta: a favore della tesi di un Terenzio prestanome ci
sarebbe la grande comprensione dimostrata in tutte le commedie per la
problematica e la psicologia dei senes
(e questo sarebbe più proprio di qualche anziano del circolo, che non di un
autore morto appena venticinquenne); d’altra parte si può obiettare che, conti
alla mano, Lelio e Scipione erano pressoché coetanei di Terenzio e che, in
fondo, i senes sono visti come un
giovane vorrebbe che fossero: comprensivi e non autoritari.
[10]La Garbarino rileva che il cosiddetto
“circolo” (meglio parlare di “ambiente”, perché non c’è un consapevole
programma politico-culturale) sembra essere piuttosto una ricostruzione di Cicerone che, nel De amicitia e nel De
republica, proietta in quell’ambiente suoi ideali ed aspirazioni; e
conclude che l’humanitas terenziana
non è un’emanazione del “circolo”, ma, caso mai, un’anticipazione (visto che,
all’epoca della composizione dell’Andria,
Scipione e Lelio non erano ancora ventenni; e che tutte le commedie terenziane
sono anteriori all’incontro di Scipione con il filosofo stoico Panezio, il cui apporto fu fondamentale
per l’elaborazione della nuova visione del mondo).
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