martedì 30 giugno 2015

Machiavelli: il procedimento dilemmatico


Il procedimento dilemmatico

 

J. MARCHAND, N. Machiavelli. I primi scritti politici,
Antenore 1975, pp. 19-23.

 

Il ragionamento di Machiavelli procede spesso secondo uno schema dilemmatico (le possibilità sono presentate per coppie antitetiche, una delle quali viene eliminata) propagginato (per ogni alternativa, il termine accettato si suddivide in due altre possibilità). Ne risulta un modo di procedere estremamente rigoroso, quasi matematico. Lo si può vedere nel cap. I del Principe  :

                         

                                 STATI

        ____________________________

REPUBBLICHE                         PRINCIPATI
(escluso)
                                         ___________________

                            EREDITARI                           NUOVI
                              (escluso)
                                                                     ____________

                                                     DEL TUTTO            AGGIUNTI

                                             USI AL PRINCIPE          USI ALLA LIBERTA’

                                   ACQUISTATI CON ARME       ACQUISTATI CON ARME

                                                D’ALTRI                             PROPRIE

                                                PER FORTUNA              PER VIRTU’

 

Nella lettera al Vettori:



                                                 L’OPUSCOLO

                                _________________________________

                       DARLO                                                   NON DARLO

           (sarebbe l’occasione per                            (escluso: Giuliano non lo
            recuperare la fiducia                                 legge e Ardinghelli se lo
                           dei Medici)                                                 attribuisce)

              _______________                           

  DI PERSONA        CON INTERMEDIARIO        
                             (non risolto)

                   

                     

                   

Machiavelli teorico dello Stato borghese


Machiavelli teorico dello Stato borghese

 

M. HORKHEIMER, Gli inizi della filosofia borghese della storia,
Einaudi 1978, pp. 7-13 (in M. I., 4, pp. 736-740).

 

Nel suo oscillare fra principato e repubblica, nel suo ammaestrare sia i detentori del potere sia gli oppositori, Machiavelli sembrerebbe indifferente ai risultati, appassionato unicamente ai meccanismi della lotta (per la conquista e per la difesa del potere). In realtà, ciò che gli interessa è la formazione di una saldo potere borghese, che possa garantire lo sviluppo delle forze e delle attività economiche.

E’ infatti chiaro dalle sue opere – si veda il finale del cap. XXI del Principe (1); e Discorsi I, LV (2) – che è giunto alla conclusione che “dal dispiegarsi degli scambi, dalla diffusione dell’abilità borghese nel commercio e nell’artigianato, dal libero gioco delle forze economiche, dipende il benessere della totalità”. Lo stesso concetto di “virtù” va compreso in questo contesto: non indica più lo spirito statuale e guerriero del romano, e nemmeno l’umiltà cristiana, ma l’insieme delle qualità che attengono alla laboriosità e alla capacità di guadagno.

Quindi, non in astratto “il fine giustifica i mezzi”, ma quel fine concreto, nobile (la creazione della migliore comunità possibile), chiede la subordinazione di ogni scrupolo (3).

L’errore di Machiavelli consisterebbe nell’aver giustificato, anche per il passato e per il futuro, strumenti di dominio (di conquista del potere) che erano condizione irrinunciabile per l’ascesa della borghesia nel suo tempo e nel suo paese (quando si trattava di spazzare via i “gentiluomini”, ovvero la vecchia nobiltà, i cui interessi erano contrari alla costituzione di un forte potere centrale, funzionale allo sviluppo borghese).
 
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1) “(Il principe) debbe animare li sua cittadini di potere quietamente esercitare li esercizii loro, e nella mercanzia e nella agricoltura... e che quello non tema di ornare le sua possessione per timore che le gli sieno tolte, e quell’altro di aprire uno traffico per paura delle taglie; ma debbe preparare premii a chi vuol fare queste cose...”
2) “... dico che gentiluomini sono chiamati quelli che oziosi vivono delle rendite delle loro possessioni abbondantemente, senza avere cura alcuna o di coltivazione o di altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniziosi in ogni repubblica...”; “(chi vuol fondare una repubblica) dove sono assai gentiluomini... non lo può fare se prima non gli spegne tutti”.
3) Questa tesi fa evidentemente il paio con quella di Chabod, che vede la nobiltà del fine nella fondazione dello Stato nazionale.
 
 

Machiavelli: un metodo scientifico?


Machiavelli “induttivo” o “deduttivo”?

 

CESARANI-DE FEDERICIS, Il materiale e l’immaginario, vol. 4
Loescher 1979, pp. 511-13.

 

Secondo Chabod (ed è l’interpretazione tradizionale), Machiavelli sale con “un colpo d’ala” dall’esperienza concreta alla regola, ovvero dall’osservazione particolare (e sarà dei fatti sia di storia antica, sia di storia contemporanea) “induce” le norme generali.

Ma l’interpretazione moderna (da Pincin a Martelli) vede invece un procedimento contrario: prima ci sarebbero le regole (che Machiavelli ha già concepito) e quindi la loro conferma nell’esperienza; i fatti, che hanno il compito di “inverare” la regola, sono dedotti dalla regola (ovvero, gli esempi sono selezionati in quanto servono a dimostrare la verità della tesi sostenuta, che è preesistente; e non a caso c’è una predilezione per gli esempi tratti dalla storia antica, perché offrono la possibilità di studiare i fenomeni “in vitro”, astraendoli dal loro spazio concreto).

Quindi il procedimento è dall’universale al particolare, secondo il tratto tipico di ogni platonismo: e non si può non notare che il neo-platonismo di Marsilio Ficino aveva dominato la vita culturale fiorentina negli anni della formazione di Machiavelli (1).

Una simile questione non può non far pensare al contrasto fra Popper e Fayerabend a proposito del metodo scientifico: secondo il primo, i fatti costituiscono la verifica (o la falsifica) delle teorie (in tal caso, la teoria deve indicare i fatti che la confermano, ma anche, contemporaneamente, quelli che la smentirebbero); per il secondo, il fatto in sé non esiste, ma esistono teorie che interpretano i fatti (le teorie “caricano” di significato i fatti: ad esempio, il “fatto” del sorgere del sole può essere interpretato diversamente, a seconda che a constatarlo sia un tolemaico o un copernicano).
 
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1)“Così come nel gracile sistema ficiniano il mondo nient’altro è che l’espressione e la manifestazione corporea, nel tempo e nello spazio, di Dio (sicché nella filosofia del Ficino non c’è margine per il male e per il peccato, che finisce per identificarsi col non-essere); allo stesso modo, nella concezione politica e filosofica del Machiavelli, gli avvenimenti politici, i fatti terreni, non  sono che l’attuarsi di immutabili leggi (sicché l’imprevisto, l’anomalo viene da lui escluso, relegato in una zona d’ombra imperscrutabile, identificato anche da lui col non-essere.” (M. Martelli, Introduzione  a Machiavelli, Tutte le opere, Sansoni l971, p. XXIX)
 
 

lunedì 29 giugno 2015

Dante: il pensiero politico


Il pensiero politico in Dante e in Marsilio da Padova

 

SALINARI-RICCI, vol. I
Bari, 1991, pp. 366-67.

 

Anche se il pensiero politico di Dante anticipa l’impostazione moderna, in quanto teorizza l’autonomia del potere politico da quello religioso, si tratta pur sempre di una concezione ancora interna al Medioevo, fondata com’è sull’idea, tutta medievale, dei due poteri - Impero e Papato - che sono universali e provengono da Dio.

 Di fronte alla realtà, che si va storicamente affermando, degli Stati nazionali, Dante non ne capisce la portata rivoluzionaria (anzi, vede in essi un segno della degenerazione maligna) e reagisce con la grande nostalgia-utopia dei due poteri che, in armonia, garantiscono il bene dell’uomo rispettivamente nella città terrena e nella città celeste.

Decisamente innovativa è invece l’impostazione di Marsilio da Padova (1275/80 - 1343?) che, nel suo Defensor pacis  (frutto dell’esperienza fatta durante i soggiorni in Francia, ove è rimasto colpito dalla monarchia di Filippo il Bello (1); ma l’occasione fu la contesa fra Ludovico il Bavaro e Giovanni XXII, che l’aveva scomunicato), attacca decisamente sia la pretesa di “universalità” dell’Impero sia, soprattutto, quella di giurisdizione separata avanzata dalla Chiesa, arrivando a sostenere l’origine naturale, umana e non divina, della società e dello Stato: l’unica fonte della legge è il popolo (la cui volontà è rivelatrice di quella divina), e solo da questo deriva il potere dello Stato, che deve pertanto potersi esercitare su tutti i cittadini, compresi gli ecclesiastici. La Chiesa quindi viene ridotta all’ordine strettamente spirituale (cioè, all’amministrazione dei sacramenti), le viene negato qualunque potere temporale; anche i suoi beni, provenienti da donatori, appartengono allo Stato e sono pertanto soggetti alle imposte.

Peraltro, questa logica del potere dal basso, viene applicata da Marsilio anche al potere interno alla Chiesa: è al Concilio dei vescovi, e non al Papa, che spetta di dirigere, sul piano pratico e dottrinale, la comunità dei fedeli.

 
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1) Sintomatico il suo contrasto con Bonifacio VIII, fiero sostenitore della concezione teocratica: la tassazione che Filippo vuole imporre al clero, comporta la teorizzazione dell’autonomia e pienezza del potere politico (anche non imperiale); la risposta papale (1302: bolla Unam Sanctam) riafferma la superiorità e universalismo della Chiesa. La conclusione sarà l’oltraggio di Anagni (una spedizione comandata da Nogaret e Sciarra Colonna cattura il papa ad Anagni, e Sciarra lo schiaffeggia).

Dante: la Vita nova


La Vita nova

 

Composta fra il 1292 e il 1293 (dopo la morte di Beatrice, avvenuta nel 1290), si tratta di una scelta di poesie scritte per lei, collegate da una narrazione in prosa (42 capitoli), spiegando la ragione che le ha ispirate e fornendone la “divisione” (o commento sulla struttura) (1).

Il titolo indica la vita rinnovata dall’amore, dopo l’incontro con Beatrice a nove anni (all’inizio di lei, alla fine di lui). La rivede a diciotto anni (2) e ne riceve il saluto; segue la visione di Amore che tiene in braccio Beatrice e le offre in pasto il cuore di Dante. Segue un periodo di dispersione spirituale (segnato dall’adesione al convenzionale galateo cortese: le due “donne dello schermo”, per la seconda delle quali la dedizione è tale che Beatrice gli toglie il saluto, addirittura lo “gabba”, sorridendone con altre donne, quando lo vede sconvolto dalla sua presenza). Qui culmina la fase cavalcantiana, dell’amore inteso come passione angosciosa, sconvolgente (legato al contraccambio, alla corrispondenza da parte della donna amata - e quindi frustrato da quella mancanza).

Con la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore si ha una svolta: il nuovo ideale, poetico ed amoroso, è quello di un amore soddisfatto di se stesso e della lode della donna amata (l’amore si esplica come poesia di lode) (3) .

In seguito alla morte del padre di lei, Dante ha la visione di Beatrice morta: il presagio si avvera l’otto giugno del 1290. Lui quindi si consola con una “donna gentile”, finché Beatrice non gli compare (ne ha la visione splendente Oltre la spera che più larga gira, cioè nell’Empireo) e lo richiama a sé. Dante promette di non parlarne più finché non potrà dire di lei “quello che mai non fue detto d’alcuna ”.

Più che di un documento autobiografico (di una storia reale, determinata da uno spazio e da un tempo concreti) sembra trattarsi di un viaggio in verticale (di un approfondimento interiore) verso la comprensione della suprema nobiltà dell’amore e della poesia che lo canta. Tutt’altro che realisticamente determinati sono infatti lo spazio e il tempo: si pensi al ricorrere dell’astratta allegoria del nove o a stilizzazioni di ambiente (la “cittade”, la “camera de li sospiri”), in assenza quasi totale di riferimenti precisi alla vita cittadina (a parte la “pintura” alla quale Dante si appoggia, ben poco vediamo della casa e delle persone nella scena del gabbo, che pure si prestava a descrizioni realistiche).

Quindi, storia del raffinamento di un amore, del suo diventare da terreno ultraterreno (tramite all’amore per Dio); ma anche storia dello sviluppo di una poetica, fino alla coscienza della superiorità di una poesia che esprime una verità nuova: la funzione beatificante dell’amore (che ha valore in sé, a prescindere dal contraccambio, ovvero dal saluto: era questo l’equivoco che generava il dolore, l’equivoco su cui si era impantanato l’amico Cavalcanti).

E’ un amore paragonabile a quello dei mistici, è un Itinerarium mentis in deum (un viaggio dell’anima verso Dio, secondo il titolo dell’opera di S. Bonaventura): oltre la tradizione cortese, secondo cui l’amore, per quanto raffinato e sublimato, è pur sempre una passione terrena, oltre Cavalcanti, come s’è visto, ma anche oltre Guinizzelli, il quale paragonava sì la donna a un angelo, ma il cui amore per la donna si risolveva in sé, non era tramite all’amore per Dio.

Dante invece riconosce nella donna una figura celeste (un angelo), la cui funzione è di condurre all’amore per Dio. E il percorso del suo amore sembra essere quello dei mistici, attraverso tre stadi: extra nos (l’anima ama Dio attraverso le cose esteriori, riconosciute come un suo dono), intra nos (l’anima scopre Dio dentro se stessa e lo ama per se stesso), super nos (questo amore trasporta l’anima sopra se stessa, fino a ricongiungerla con Dio).
 
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1) Modelli potevano essere le razos provenzali (“ragioni”, o didascalie, premesse alle poesie dei trovatori) e il De consolatione philosophiae di Severino Boezio (480-526: imprigionato dal re dei Goti, Teodorico, aveva scritto quell’opera, in prosa e versi, per sostenere che, al di là dei  mutamenti della fortuna, esiste una provvidenza che governa il mondo).
2) Il valore simbolico del nove (la sua radice è il tre, il numero della Trinità, e Dante stesso, nel cap. XXIX, dice che il suo significato è quello del miracolo) è ribadito dal fatto che con tale numero inizia l’opera, dopo il proemio, e che esso ricorre nove volte in tutto il libro.
3) “La beatitudine si realizza nell’atto dello scriver versi: dunque il favore della donna cessa di essere l’obiettivo dell’amante. Il nuovo principio di poetica sancisce la non-comunicazione con l’oggetto reale del desiderio. L’amore, sottratto alle vicende empiriche e perciò alle occasioni di sofferenza che il rapporto vissuto con la donna potrebbe provocare, è proposto come fenomeno puramente intellettuale e si attua con pienezza nella rappresentazione di se stesso.” (M.I., 3, p. 726).
 

  

domenica 28 giugno 2015

L' "amor cortese" e il catarismo


L’amore e l’occidente (1938)

                                                                                                                                                                 
D. De ROUGEMONT
Rizzoli 1977



Nel sec. XII nasce, improvvisamente, in Provenza, una lirica d’amore, nuova rispetto all’antichità e con caratteristiche peculiari:

1) è un amore infelice (il poeta dichiara il suo amore e la dama risponde di no);

2) è un amore estraneo al matrimonio;

3) il poeta si dichiara “vassallo” della donna (l’uomo è “servente” della donna), ovvero, la donna è innalzata al di sopra dell’uomo (fatto che non riflette condizioni sociali, giacché la condizione della donna nelle istituzioni feudali è di assoluta subalternità).

Si nota, contemporaneamente, il diffondersi nelle stesse regioni (Linguadoca, Renania, Catalogna, Lombardia) di una potente eresia: il catarismo. Sui catari (o puri, o albigesi) grande informazione non c’è, perché l’Inquisizione ha bruciato o manipolato testimonianze. E’ comunque un’eresia che ha radici nel manicheismo, ovvero nella dottrina dualistica secondo cui c’è frattura assoluta fra Bene e Male, fra Dio e Mondo (che appartiene totalmente al demonio). Esistere vuol dire che una anima-angelo (che appartiene alla luce-verità) è stata imprigionata (per opera del demonio) in un corpo materiale che le è estraneo. L’inferno consiste appunto in questa prigione della materia, finché le anime non saranno reintegrate (dopo una serie di vite) nell’unità dello Spirito originario. Catari sono coloro che, attraverso cerimonie d’iniziazione, si consacrano a Dio rinunciando al mondo (in particolare, ad ogni contatto carnale).

Anche i trovatori esaltano la castità; anche loro deridono il matrimonio (chiamato dai catari iurata fornicatio) (1). E pure: la morte viene preferita ai doni del mondo; la separazione è motivo di maggior desiderio; l’alba è accolta con disperazione, perchè finisce la notte, ovvero il tempo in cui il poeta è stato con la sua donna (cioè, con la vera luce). Insomma, la Dama non sarebbe altro che l’Anima, ovvero la parte spirituale dell’uomo, che ambisce a (ha nostalgia di) integrarsi nella vera luce (desiderio che si può realizzare solo con la morte). (pp. 118-137)

Sull’onda del catarismo, la espansione del culto della donna (la “dama dei pensieri” della cortesia) è tale che la Chiesa romana risponde con il culto della Vergine Maria; e nel gioco degli scacchi la Regina prende il sopravvento su tutti gli altri pezzi. (pp. 157-160)

Nel 1209 Innocenzo III indice la crociata contro gli Albigesi: è il primo grande massacro della storia d’occidente (ed è anche la data che segna la fine della grande poesia provenzale).
 
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1) Quanto alla questione della castità, si può pensare a certe influenze orientali; precisamente, dall’India proviene la tecnica del tantrismo, che insegna - attraverso rituali yoga, e attraverso stadi successivi di avvicinamento alla donna (che cominciano con il “servizio”) - a raggiungere il nirvana (la transustanziazione del corpo umano) attraverso l’atto sessuale: un atto sessuale che non soppprime il piacere, ma l’effetto fisico di esso (e cioè, la produzione seminale). (pp.163-66)
 

 

 

 

 

 

Eloisa ed Abelardo


Eloisa ed Abelardo (1940)

                                                                                                                                                                        
E. GILSON
Einaudi 1950

 

Gilson si imbatte nei due amanti analizzando le origini medievali dell’umanesimo; la sua tesi, verificata dall’incontro di due simili personalità, è che le formulette tipo ‘Rinascimento = individualità = capacità di analisi psicologica’ sono appunto formulette, contraddette, ad esempio, dalla presenza nel XII sec. di un simile carteggio, da cui si vede che non tutte le personalità sono appiattite nel “sistema” cristiano (non Dante con la Vita Nova o Petrarca hanno iniziato l’auto-analisi; non Erasmo la critica alle regole).

Ma più che Abelardo (la cui grandezza e smania di gloria erano già note), sconvolge la personalità di Eloisa, indimenticabile figura di innamorata che, fino all’ultimo, non riesce ad accettare pienamente la sua condizione di religiosa; pospone sempre l’amore per Dio a quello per Abelardo.

Mentre i termini della vicenda di Abelardo sono, in un certo senso, scontati (propone il matrimonio segreto “riparatorio”; una volta evirato, si dedica totalmente alla vita religiosa e lo stesso pretende da Eloisa; sconfitte le sue posizioni teologiche al concilio, muore da penitente a Cluny), sorprendenti sono i caratteri che emergono della figura di Eloisa: è contro il matrimonio (sarebbe di ostacolo alla carriera di Abelardo, e poi non è questo il segno, l’istituzione, dell’amore); denuncia la contraddizione di aver preso il velo materialmente, ma non col cuore (se ciò che conta è l’intenzione, non le opere, il suo cuore è di Abelardo, non di Dio); mette in discussione le regole della vita monacale (non ha senso che esistano particolari regole per particolari persone: esiste per tutti il Vangelo, che non impone la castità).

 

L' "amor cortese" in Chretien de Troyes


L’amore in Chretien

 

M. I., vol. I,
pp. 262-64, 267-70.

 

Chretien è attivo fra il 1160 e il 1190 a Troyes, capitale della Champagne (Francia centro-settentrionale). E’ autore di una serie di romanzi di materia bretone in ottonari rimati.

In Lancelot ou le chevalier de la charret Lancillotto appare come il tipo del cavaliere totalmente devoto all’amore: non fa una piega quando Ginevra lo rifiuta perchè ha esitato a salire sulla carretta infamante; esegue, con grande onta, il suo ordine di comportarsi da vile in torneo; si prosterna davanti al suo letto e l’adora (quando arriva e quando parte).

Ma in Chretien è presente anche il tema dell’amore coniugale: nell’Erec et Enide, Erec ama tanto la moglie che la cosa appare eccezionale (al castello se ne sparla); ed è l’autore stesso che dice: “mai si vide così bella coppia di sposi”. Nel Cligés, Fenice, l’eroina protagonista, rifiuta la doppiezza del matrimonio (di convenienza) e dell’amore (sincero).

Si direbbe una mediazione ideologica con la cultura cattolica.

 

L'etica cavalleresca in Chretien de Troyes


L’avventura o l’idealizzazione
dell’ethos cavalleresco in Chretien

 

E. AUERBACH, Mimesis, vol. I,
Einaudi 1956, 1975, pp. 136-156

 

Il testo preso in esame è l’Yvain di Chretien, romanzo cortese della 2ª metà del sec. XII.

Calogrenant narra una sua avventura: ospite gradito presso un castello che incontra sulla strada di “destra” (la diritta via), intrattenuto cortesemente dalla castellana, e poi sconfitto nella battaglia alla fontana.

Auerbach nota lo sviluppo notevole dell’ipotassi, rispetto alla Chanson de Roland, nonché l’ambiente favoloso, assolutamente non identificabile, e assolutamente adatto perché si esplichi l’ideale cavalleresco dell’avanture . I dettagli sono realisticamente determinati, ma nei limiti di un ambiente sociale privilegiato (quello feudale-cavalleresco) e di un’atmosfera fiabesca che prescinde da ogni base politico-economico-sociale.

Mentre nella Chanson de Roland i cavalieri hanno ancora un compito politico decifrabile (difendere l’impero di Carlo contro gli infedeli), Calogrenant non ha nessun compito, vuole soltanto realizzarsi attraverso l’avventura. La parola chiave non è più “vassallaggio”, ma “cortesia”. La realtà del tempo (la dimensione storicamente reale del ceto cavalleresco) è dimenticata: l’ethos cavalleresco è assolutizzato (ed è quell’ethos che si mantiene fino a Don Chisciotte: il quale parte per l’avventura come Calogrenant, ma invece del castello incontra l’osteria - il quotidiano, il reale). Si deve supporre che tale idealizzazione sia il frutto della crisi della funzione della cavalleria?

Quanto all’amore come componente fondamentale di questo stato cavalleresco, va detto che si tratta di schemi differenziati, non ancora omogeneizzati dal modello della galanteria provenzale (“lo schema platonizzante della donna irraggiungibile, corteggiata invano, che venne dalla lirica provenzale e si perfezionò nel dolce stil novo, non predomina dapprincipio nell’epica cortese”). Si direbbe che qui sostituisca la mancanza di una motivazione pratica (politica) dell’agire.

La poesia trobadorica


 

La poesia trobadorica: una lettura sociologica

 

E. KÖHLER, Sociologia della fin’amor,
Liviana 1976, in M. I., vol. I, pp. 169-171.

 

C’è un gruppo sociale (la piccola nobiltà) che, non potendo più pretendere (per ragioni storiche) un feudo, chiede l’“onore” dello stato cavalleresco: tale prestigio sociale è ottenuto mediante il servigio d’amore. La dama infatti è come il signore, con diritti, ma anche con doveri: precisamente è lei che con la sua grazia (il surrogato del compenso in feudi) può integrare nella nobiltà.

Si definisce così tutta una serie di doti (la liberalità, la cortesia, ecc.) che fanno la vera nobiltà, indipendentemente dal possesso di terre.

A proposito delle caratteristiche dell’amor cortese, si può rilevare quanto segue:

1) la gelosia non è tollerata; l’amante non parla della sua gelosia, se non come colpa; e il marito geloso è degno di disprezzo (è un “villano”);

2) sul piano sociale, il corrispettivo è il rifiuto della proprietà privata; o meglio: il desiderio di una utilizzazione collettiva della proprietà del grande feudatario (questo sarebbe implicito nella esaltazione della liberalità);

3) ciò, naturalmente, non sarebbe che l’espressione ideologica della volontà della piccola nobiltà di integrarsi nella classe dominante (vedi M. I., vol. I, pp. 260-261).

 

Il discorso sulla piccola nobiltà che si dà un sistema di valori (di idealità) per integrarsi nella classe dominante, mi pare accettabile, e del resto è assimilabile al discorso di Hauser sui ministeriales (v. p. 2). Mi pare invece una forzatura la tesi (fondata su quali elementi?) che associa il disprezzo della gelosia al rifiuto della proprietà privata. Noto peraltro che c’è un passo del De amore (Guanda 1980, pp. 127 e segg., e altrove) in cui si afferma che la gelosia (riprovevole tra coniugi) è la sostanza stessa dell’amore, il quale, anche per questo, non si può che sviluppare fuori del matrimonio.