Rosso malpelo
Merito di Luperini
è avere notato che questa novella è stata pubblicata nell’agosto del 1878
(a puntate, sul quotidiano romano "Fanfulla"); quindi precede le
altre di Vita dei campi (tranne Fantasticheria, della cui stesura
si ha notizia nel febbraio del 1878). E merito di Baldi è avere indicato
nell’ "artificio della regressione" (ovvero, nella focalizzazione
rigorosamente impersonale; ovvero, nell’eclisse dell’autore) (1)
l’originalità narrativa della novella.
La regressione
consiste nell’adozione di un punto di vista che non coincide con quello
dell’autore, ma è interno al mondo rappresentato (è il punto di vista di un
anonimo narratore, dello stesso livello sociale e mentale dei personaggi che
agiscono nella vicenda) (2). L’effetto, di straordinaria efficacia, è dato
dall’attrito fra tale punto di vista (che è quello fatalistico e rassegnato
degli sfruttati stessi, che accettano come naturale lo sfruttamento) e l’oggettività
stessa dei fatti (che è la negazione in atto di quei valori che dovrebbero
governare una società umana: affetti domestici, pietas filiale, amicizia,
solidarietà). E questo ci introduce all’altra radicale novità, rilevata da Asor
Rosa: la scomparsa del populismo.
Il mondo
rappresentato (quello infimo dei cavatori di rena) non è un mondo di buoni
sentimenti: è un mondo sub-umano, governato dalla lotta per la
sopravvivenza, e quindi dalla legge del più forte; la condizione sociale è
accettata come una dato naturale (la violenza e la sopraffazione sono leggi
di natura); non solo la ribellione è inconcepibile, ma manca anche
ogni elementare solidarietà fra gli sfruttati (si veda come i compagni di
lavoro - e valga per tutti zio Mommu, lo sciancato - non solo
maltrattino Malpelo, ma anche deridano mastro Misciu, "Bestia").
A questa scuola
cresce Malpelo: la violenza la subisce sia alla cava che in famiglia, dalla
madre (che "non aveva mai avuta una carezza da lui, e quindi non gliene
faceva mai") e dalla sorella ( che, nel dubbio che Malpelo sottraesse
qualche soldo dalla paga "gli faceva la ricevuta a scapaccioni");
ben tre morti scandiscono la sua "educazione
sentimentale" (al centro, fra quella del padre e quella
di Ranocchio, la morte più significativa: quella del Grigio);
sicché, non può che divenire "saggio" (3) e rovesciare sui più deboli
(Ranocchio e il Grigio), a fine "pedagogico", la violenza che riceve
dai più forti.
Ma Malpelo
avverte, ancorchè confusamente, che c’è la possibilità di un mondo diverso, al
di fuori di quello in cui vive lui; desidera, anche se non lo comprende
appieno, un mondo fondato sull’amore (e non sulla violenza): quel mondo evocato
dal calore dei calzoni di fustagno ("gli pareva che fossero dolci e
lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli "),
dal pensiero che si potrebbe lavorare diversamente (come il manovale "cantando
sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena ";
o come "il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde,
sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli
uccelli sulla testa"), dal paradiso di cui gli parla Ranocchio ("dove
vanno a stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro
genitori"), dal pianto della madre di Ranocchio per il figlio morente
(e qui Malpelo ha bisogno di un alibi, per continuare ad accettare il proprio
mondo: la madre di Ranocchio piangeva perché "il suo figliolo era
sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi che non
si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua
madre non aveva mai pianto per lui, perchè non aveva mai avuto timore di
perderlo.").
In conclusione: la
"disperata rassegnazione" di Malpelo sembra essere la
stessa del conservatore Verga; l’autore presta al personaggio la sua stessa
sfiducia sulla possibilità di cambiare la condizione umana (determinata,
darwinianamente, dalla legge della sopravvivenza del più forte), il suo
scetticismo nei confronti di ogni possibilità di progresso; si è
"vinti" proprio nel tentativo di progredire: il "bell’affare
di mastro Bestia" ricorda il "bell’affare" dei Malavoglia
(il trasporto dei lupini) e il "bell’affare" di mastro don Gesualdo
(il matrimonio con Bianca).
Ma proprio per
questo, quest’opera rappresenta, senza infingimenti (senza pietismi e senza
speranze consolatorie), la verità della condizione popolare; e quest’opera,
come nessun’altra, riesce a comunicare con forza la inaccettabilità di quella
condizione; il lettore non può non pensare alla responsabilità degli uomini,
non della natura, quando s'intravvede la figura dell’ingegnere (era a teatro, e
"non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a
cercarlo per il babbo di Malpelo, che aveva fatto la morte del sorcio");
e non può non sentire, insieme a Malpelo, il bisogno di un mondo diverso,
che sia la negazione di quel mondo in atto.
NOTE
3) Malgrado sia analfabeta, è il più "intellettuale" dei personaggi verghiani (se Jeli, secondo la definizione di Asor Rosa, è "il primo uomo del mondo", Malpelo è "l’ultimo"): è lui che svela la verità di quel mondo (l’asino "va picchiato, perchè non può picchiare lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi "; commenta Spinazzola: "nessun testo letterario dell’Ottocento italiano ha sostenuto con tanta fermezza che operare il male significa soltanto conformarsi al dettame della natura "); ed è sempre lui che espone la sapienza silenica (se l’asino "non fosse mai nato, sarebbe stato meglio ").
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