domenica 7 giugno 2015

Pirandello: Il fu Mattia Pascal

Il fu Mattia Pascal (1904)

Riassunto: dopo le due premesse (nella prima il protagonista presenta se stesso, accennando a problemi relativi alla propria identità e dicendo di essere stato, per due anni, custode della biblioteca lasciata da un tal monsignor Boccamazza e “allogata” presso una chiesa sconsacrata; nella seconda, definita “filosofica, a mo’ di scusa”, dice che lui continua a frequentare la biblioteca (di cui ora custode è don Eligio Pellegrinotto) e che per impulso di quest’ultimo (lui non vorrebbe farlo, perché non crede all’importanza dei libri) si è accinto a scrivere la propria storia.
Col cap. III comincia, appunto, la storia vera e propria, che si può suddividere in tre parti: la prima (dal cap. III al cap. VII) in cui si raccontano le vicende di Mattia a Miragno (toponimo inventato dall’autore e collocato in Liguria) dall’infanzia, all’inferno coniugale, alla vincita a Montecarlo, alla lettura della notizia della propria morte (le ricchezze dell’agiata famiglia vengono a poco a poco dilapidate dal disonesto amministratore Batta Malagna; il giovane Mattia comincia a frequentare Romilda, su cui hanno delle mire sia l’amico Pomino sia lo stesso Malagna - zio di Romilda - che non riesce ad avere figli dalla propria moglie Oliva; Romilda si fa mettere incinta da Mattia, quindi lo lascia, su consiglio della madre - la terribile vedova Pescatore - sostenendo che il figlio è di Malagna; costui, tanta è la voglia di aver figli, è disposto a riconoscerlo, ma Mattia, che ha capito la manovra delle due donne, ingravida anche la di lui moglie Oliva e quindi Malagna riconosce come proprio solo quest’ultimo: restano “fregate” Romilda e la madre, ma anche Mattia che, malgrado sia riluttante, si vede costretto a sposare Romilda; inizia una convivenza impossibile fra Mattia, la propria madre – peraltro dolce e buona – la moglie e la suocera; muoiono le due gemelle nate da Romilda, muore la madre, maltrattata dalle due megere; per il funerale della madre, cui provvede la zia Scolastica, il fratello Berto manda a Mattia 500 lire; con questi soldi Mattia progetta di imbarcarsi a Marsiglia e andarsene in America, ma giunto a Nizza cambia idea, va a Montecarlo e al casinò vince 82.000 lire; tornerebbe da trionfatore a Miragno, se non fosse che in treno legge su un giornale la notizia del ritrovamento del suo cadavere mezzo putrefatto nella gora di un mulino, e tuttavia riconosciuto da moglie e suocera; coglie quindi l’occasione per vivere una nuova vita, viaggiando per l’Europa e attribuendosi una nuova identità: Adriano Meis); la seconda (dal cap. VIII al cap. XVI) in cui si raccontano le vicende di Adriano Meis a Roma fino al suo finto suicidio (si stabilisce presso la pensione di certo Anselmo Paleari, della cui figlia, Adriana, s’innamora, e dove soggiornano anche una maestra di pianoforte fallita, dedita anche all’attività di medium – la signorina Caporale – e un  losco individuo, che ha delle mire su Adriana, della cui sorella è vedovo – Terenzio Papiano; Mattia-Adriano, privo di una vera identità anagrafica, non può sposare Adriana, né, derubato da Papiano, può denunciare il furto, e nemmeno, avendo litigato con un pittore, può sfidarlo a duello; decide quindi di inscenare un finto suicidio, lasciando bastone e cappello su un ponte del Tevere); la terza (cap. XVII e XVIII) tratta del ritorno di Mattia a Miragno e quindi della sua decisione di vivere come “fu Mattia Pascal” (la moglie si è risposata con Pomino, il vecchio amico di Mattia, da cui ha avuto una figlia; Mattia non può reinserirsi nella vita normale; non gli rimane altra possibilità che guardare da lontano gli altri e rifugiarsi nella vecchia biblioteca del paese, da dove esce di tanto in tanto per portare fiori sulla tomba che reca il suo nome).

Tecnica narrativa: complesso il rapporto fra autore, narratore e testo: l’autore mette in campo un narratore che narra in prima persona (contro la terza delle due precedenti prove: L’esclusa e Il turno); l’io narrante non è un semplice testimone che riferisce vicende altrui (così in Il treno ha fischiato), ma è il protagonista stesso che, a vicenda conclusa, dichiara di volere scrivere la propria storia (quindi è omnisciente, perché della storia conosce percorsi ed esiti; ma, ovviamente, non c’è un distacco oggettivo rispetto ai fatti, ma un’interpretazione soggettiva degli stessi, “filtrati” dalla coscienza dell’io-narrante); è una “meta-narrazione”, perché si narra di un narratore che narra; tale dimensione meta-narrativa, preminente nelle due premesse, e ripresa nell’ultimo capitolo, riaffiora anche lungo il romanzo (alla fine del cap. III, all’inizio del X, ecc.); l’effetto è quello di uno sdoppiamento fra l’io narrante e l’io protagonista, con una sorta di ricorrente dialogo fra i due (del tipo: “agii così, perché pensavo così; adesso capisco che avrei dovuto pensarla diversamente”) e con una disarticolazione del “normale” ordine cronologico (la consequenzialità del “prima” e del “poi” è interrotta dalle interferenze del presente del narratore sul passato della vicenda).
Inoltre la narratività tradizionale si dilata fino ad accogliere ampi inserti di esposizione teorica (il cap. sulla “lanternino-sofia”) o un dialogato di tipo teatrale (capp. IX e XVII); c’è un uso grafico-visivo della parola (stampatelli, maiuscoli, grassetti, corsivi; la necrologia di Lodoletta, listata a lutto, al cap. VII; la riproduzione dell’epigrafe tombale nell’ultima pagina; ecc.).

Spunti tematici: nella seconda premessa, Mattia sostiene l’inutilità di scrivere libri, in quanto, dopo Copernico, l’uomo non ha più quella centralità (e quindi quella autoconsiderazione, quell’importanza degna di minute narrazioni) che aveva nell’universo geocentrico; l’uomo si sente “su un’invisibile trottolina”, su “un granellino di sabbia impazzito” e non può non essere consapevole della propria “infinita piccolezza”. Questa considerazione non solo è alla base del relativismo conoscitivo di Pirandello (in un simile universo, non si può presumere di conoscere la verità oggettiva), ma bene esprime la crisi d’identità dell’uomo moderno.

Mattia-Adriano si stabilisce a Roma; ma questa Roma non è la Roma barocca, raffinata, aristocratica che fa da sfondo a Il piacere di D’Annunzio; è una Roma piccolo borghese, moribonda, ben definita da Anselmo Paleari (che nel romanzo sembra essere il portavoce dell’autore) nel cap. X (Acquasantiera e portacenere): Adriana aveva collocato un’acquasantiera nella stanza di Adriano, ma costui l’aveva distrattamente usata come portacenere; Adriana l’aveva quindi ripresa, ma le era caduta di mano, si era rotta ed era finita sulla scrivania di Anselmo per essere usata, appunto, come portacenere; tale è il destino di Roma: era un’acquasantiera (con un alone di sacralità), è diventata un portacenere (luogo del rifiuto e della volgarità). In un altro momento, Mattia-Adriano racconta di una sua passeggiata notturna fino a piazza S. Pietro, e dice: “il silenzio pareva accresciuto dal continuo fragore delle due fontane. M’accostai ad una di esse, e allora quell’acqua soltanto mi sembrò viva, lì, e tutto il resto quasi spettrale e profondamente malinconico nella silenziosa, immota solennità”.

All’inizio del cap. XII, Anselmo Paleari dice che delle marionette automatiche rappresenteranno la tragedia di Oreste (l’Elettra  di Sofocle); e però, se nel bel mezzo della rappresentazione si strappasse il cielo di carta, Oreste rimarrebbe sconcertato e si trasformerebbe in Amleto: qui sta la differenza fra la tragedia antica e quella moderna. Il parallelo fra le due tragedie non è casuale: in ambedue il protagonista vendica l’uccisione del padre uccidendo la madre e il di lei amante. Ma Oreste vive in un mondo di certezze, aderisce pienamente alla vita, la sua identità e il suo mondo sono certi, i suoi sentimenti sono elementari e determinati; se “il cielo si strappa”(e il teatro è evidentemente metafora della vita), Oreste perde i propri punti di riferimento, non è più sicuro dell’universo in cui vive, non può non porsi domande su se stesso, sul senso del suo rapporto con gli altri e con il mondo; è irrimediabilmente sdoppiato, non vive ma si vede vivere, non agisce ma medita sull’azione (diventa, appunto, Amleto).

Nel cap. XIII (Il lanternino) Anselmo Paleari, fissato con lo spiritismo, espone la seguente teoria (la “lanterninosofia”) ad Adriano, quando questi deve stare per un certo periodo al buio a seguito dell’operazione a un occhio (fatta per “raddrizzare” lo strabismo e nello stesso tempo cambiare i connotati di Mattia): a differenza degli altri elementi naturali (alberi, animali), noi ci sentiamo vivere, ci sentiamo cioè distinti dalla realtà che ci circonda; tale realtà è per noi come un grande buio, rispetto al quale noi siamo come un lanternino che illumina una piccola sfera circostante; la luce è la nostra visione della realtà, determinata dalle idee dominanti nelle diverse epoche, è il modo di illuminare il buio: più forti sono le certezze, più grande è la luce; oggi ci sono luci piccole e allo sbando (mancano fedi, ideali, certezze). Ma se questo buio non fosse che un’illusione, privilegio e maledizione dell’uomo, che ha il lanternino? Se questo buio (della realtà fuori di noi e dopo di noi) non fosse che una creazione, per contrasto, della luce? Allora la morte non sarebbe un precipitare nel buio, ma solo uno spegnersi del lanternino, finalmente, che ci consentirebbe di appartenere (come siamo sempre appartenuti, del resto, ma non più con il sentimento della propria individualità separata, e con la relativa paura) alla vita universale, all’Essere, alla Verità.

Nel cap. XV (Io e l’ombra mia) si racconta di quando, dovendo pagare la parcella al chirurgo che l’ha operato all’occhio, Adriano si accorge di essere stato derubato da Terenzio Papiano, ma, malgrado le insistenze di Adriana, non può denunciarlo, per la stessa ragione per cui non può legalizzare il suo amore per Adriana: non ha identità anagrafica. Angosciato da questa condizione di impotenza, esce di casa e passeggia per Roma. Alla vista della propria ombra, comincia a parlarle rabbiosamente come se fosse un’entità reale, un altro se stesso che vorrebbe annientare (gioisce quando un carro le passa sopra), ma da cui non riesce a separarsi (“se mi metto a correre, mi seguirà”). E’ insomma esplicitato il motivo del “doppio”, antico motivo ricorrente nella letteratura (dal mito di Narciso, all’Amphitruo di Plauto, alla Meravigliosa storia di Peter Schlemihl di Adalbert von Chamisso – 1814 – a Lo strano caso del  Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Stevenson – 1886): Pirandello dà in questo modo concretezza alla sua particolare ossessione, quella per cui i suoi personaggi hanno perso la certezza (e la compattezza) della propria identità, non vivono con immediatezza, ma si guardano vivere, si sentono irrimediabilmente spezzati fra un io che vive e un io che riflette su quel vivere (“riflette”, come uno specchio, strumento inquietante, da sempre associato, come l’ombra, al motivo del “doppio”).

Avvertenza sugli scrupoli della fantasia: in appendice, in occasione di una nuova pubblicazione del romanzo, Pirandello cita due episodi di cronaca (il secondo – una storia di bigamia fondata sulla morte presunta di un coniuge – molto simile alla storia di Mattia Pascal) a testimonianza del fatto che la vita, a volte, è più inverosimile dell’arte (e quindi, accusare il romanzo di inverosimiglianza rispetto alla vita, è una sciocchezza). E’ lo zoologo che, studiando l’uomo come specie, lo rappresenta secondo un modello astratto e generale; ma gli individui concreti sono l’uno diverso dall’altro (così come lo sono le loro storie), ed è questa la verità che l’arte rappresenta (ed è una verità che prescinde dalla “verosimiglianza zoologica”). Infine controbatte anche l’accusa di “cerebralismo”, di eccesso di ragionamento (per cui i suoi personaggi sarebbero poco umani perché in essi prevale il ragionamento sul sentimento). Ma il ragionare è proprio dell’uomo, e vieppiù quando soffre (laddove la bestia soffre senza ragionare).

Si ribadisce, insomma, che la condanna dell’uomo moderno è quella di vedersi vivere, di non riuscire ad aderire pienamente alla vita: ed è la questione al centro della problematica di Svevo (v. la scheda su Svevo-Leopardi). D’altra parte tale questione (in quanto implica una sorta di sdoppiamento fra io-vivente ed io-cosciente) rimanda anche al Montale di Non chiederci la parola (“Ah, l’uomo che se ne va sicuro / agli altri ed a se stesso amico / e l’ombra sua non cura...”). Infine l’idea della morte come spegnersi del lanternino, come un disperdersi nel buio, apparente, della realtà, è ritrovabile nella novella Di sera, un geranio.

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