Il fu Mattia Pascal (1904)
Riassunto: dopo le due
premesse (nella prima il protagonista presenta se stesso, accennando a problemi
relativi alla propria identità e dicendo di essere stato, per due anni, custode
della biblioteca lasciata da un tal monsignor Boccamazza e “allogata” presso
una chiesa sconsacrata; nella seconda, definita “filosofica, a mo’ di scusa”,
dice che lui continua a frequentare la biblioteca (di cui ora custode è don
Eligio Pellegrinotto) e che per impulso di quest’ultimo (lui non vorrebbe
farlo, perché non crede all’importanza dei libri) si è accinto a scrivere la
propria storia.
Col cap. III comincia, appunto, la storia vera e
propria, che si può suddividere in tre parti: la prima (dal cap. III al cap.
VII) in cui si raccontano le vicende di Mattia a Miragno (toponimo
inventato dall’autore e collocato in Liguria) dall’infanzia, all’inferno
coniugale, alla vincita a Montecarlo, alla lettura della notizia della propria
morte (le ricchezze dell’agiata famiglia vengono a poco a poco dilapidate dal
disonesto amministratore Batta Malagna; il giovane Mattia comincia a
frequentare Romilda, su cui hanno delle mire sia l’amico Pomino sia lo stesso
Malagna - zio di Romilda - che non riesce ad avere figli dalla propria moglie
Oliva; Romilda si fa mettere incinta da Mattia, quindi lo lascia, su consiglio
della madre - la terribile vedova Pescatore - sostenendo che il figlio è di
Malagna; costui, tanta è la voglia di aver figli, è disposto a riconoscerlo, ma
Mattia, che ha capito la manovra delle due donne, ingravida anche la di lui
moglie Oliva e quindi Malagna riconosce come proprio solo quest’ultimo: restano
“fregate” Romilda e la madre, ma anche Mattia che, malgrado sia riluttante, si
vede costretto a sposare Romilda; inizia una convivenza impossibile fra Mattia,
la propria madre – peraltro dolce e buona – la moglie e la suocera; muoiono le
due gemelle nate da Romilda, muore la madre, maltrattata dalle due megere; per
il funerale della madre, cui provvede la zia Scolastica, il fratello Berto
manda a Mattia 500 lire; con questi soldi Mattia progetta di imbarcarsi a
Marsiglia e andarsene in America, ma giunto a Nizza cambia idea, va a Montecarlo
e al casinò vince 82.000 lire; tornerebbe da trionfatore a Miragno, se non
fosse che in treno legge su un giornale la notizia del ritrovamento del suo
cadavere mezzo putrefatto nella gora di un mulino, e tuttavia riconosciuto da
moglie e suocera; coglie quindi l’occasione per vivere una nuova vita,
viaggiando per l’Europa e attribuendosi una nuova identità: Adriano Meis); la
seconda (dal cap. VIII al cap. XVI) in cui si raccontano le vicende di
Adriano Meis a Roma fino al suo finto suicidio (si stabilisce presso la
pensione di certo Anselmo Paleari, della cui figlia, Adriana, s’innamora, e
dove soggiornano anche una maestra di pianoforte fallita, dedita anche
all’attività di medium – la signorina Caporale – e un losco individuo, che ha delle mire su Adriana,
della cui sorella è vedovo – Terenzio Papiano; Mattia-Adriano, privo di una
vera identità anagrafica, non può sposare Adriana, né, derubato da Papiano, può
denunciare il furto, e nemmeno, avendo litigato con un pittore, può sfidarlo a
duello; decide quindi di inscenare un finto suicidio, lasciando bastone e
cappello su un ponte del Tevere); la terza (cap. XVII e XVIII) tratta
del ritorno di Mattia a Miragno e quindi della sua decisione di vivere come “fu
Mattia Pascal” (la moglie si è risposata con Pomino, il vecchio amico di
Mattia, da cui ha avuto una figlia; Mattia non può reinserirsi nella vita
normale; non gli rimane altra possibilità che guardare da lontano gli altri e
rifugiarsi nella vecchia biblioteca del paese, da dove esce di tanto in tanto per
portare fiori sulla tomba che reca il suo nome).
Tecnica narrativa: complesso il rapporto fra autore, narratore e testo: l’autore mette in
campo un narratore che narra in prima persona (contro la terza delle due
precedenti prove: L’esclusa e Il turno); l’io narrante non è un
semplice testimone che riferisce vicende altrui (così in Il treno ha
fischiato), ma è il protagonista stesso che, a vicenda conclusa, dichiara
di volere scrivere la propria storia (quindi è omnisciente, perché della storia
conosce percorsi ed esiti; ma, ovviamente, non c’è un distacco oggettivo
rispetto ai fatti, ma un’interpretazione soggettiva degli stessi, “filtrati”
dalla coscienza dell’io-narrante); è una “meta-narrazione”, perché si
narra di un narratore che narra; tale dimensione meta-narrativa, preminente
nelle due premesse, e ripresa nell’ultimo capitolo, riaffiora anche lungo il
romanzo (alla fine del cap. III, all’inizio del X, ecc.); l’effetto è quello di
uno sdoppiamento fra l’io narrante e l’io protagonista, con una sorta di
ricorrente dialogo fra i due (del tipo: “agii così, perché pensavo così; adesso
capisco che avrei dovuto pensarla diversamente”) e con una disarticolazione del
“normale” ordine cronologico (la consequenzialità del “prima” e del “poi” è
interrotta dalle interferenze del presente del narratore sul passato della
vicenda).
Inoltre la narratività tradizionale si dilata fino ad
accogliere ampi inserti di esposizione teorica (il cap. sulla
“lanternino-sofia”) o un dialogato di tipo teatrale (capp. IX e XVII); c’è un
uso grafico-visivo della parola (stampatelli, maiuscoli, grassetti, corsivi; la
necrologia di Lodoletta, listata a lutto, al cap. VII; la riproduzione
dell’epigrafe tombale nell’ultima pagina; ecc.).
Spunti tematici: nella seconda premessa, Mattia sostiene l’inutilità di scrivere libri, in
quanto, dopo Copernico, l’uomo non ha più quella centralità (e quindi
quella autoconsiderazione, quell’importanza degna di minute narrazioni) che
aveva nell’universo geocentrico; l’uomo si sente “su un’invisibile
trottolina”, su “un granellino di sabbia impazzito” e non può non
essere consapevole della propria “infinita piccolezza”. Questa
considerazione non solo è alla base del relativismo conoscitivo di
Pirandello (in un simile universo, non si può presumere di conoscere la verità
oggettiva), ma bene esprime la crisi d’identità dell’uomo moderno.
Mattia-Adriano si stabilisce a Roma; ma questa
Roma non è la Roma barocca, raffinata, aristocratica che fa da sfondo a Il
piacere di D’Annunzio; è una Roma piccolo borghese, moribonda,
ben definita da Anselmo Paleari (che nel romanzo sembra essere il
portavoce dell’autore) nel cap. X (Acquasantiera e portacenere): Adriana
aveva collocato un’acquasantiera nella stanza di Adriano, ma costui l’aveva
distrattamente usata come portacenere; Adriana l’aveva quindi ripresa, ma le
era caduta di mano, si era rotta ed era finita sulla scrivania di Anselmo per
essere usata, appunto, come portacenere; tale è il destino di Roma: era
un’acquasantiera (con un alone di sacralità), è diventata un portacenere (luogo
del rifiuto e della volgarità). In un altro momento, Mattia-Adriano racconta di
una sua passeggiata notturna fino a piazza S. Pietro, e dice: “il silenzio
pareva accresciuto dal continuo fragore delle due fontane. M’accostai ad una di
esse, e allora quell’acqua soltanto mi sembrò viva, lì, e tutto il resto quasi
spettrale e profondamente malinconico nella silenziosa, immota solennità”.
All’inizio del cap. XII, Anselmo Paleari dice
che delle marionette automatiche rappresenteranno la tragedia di Oreste (l’Elettra
di Sofocle); e però, se nel bel mezzo della rappresentazione si strappasse
il cielo di carta, Oreste rimarrebbe sconcertato e si trasformerebbe
in Amleto: qui sta la differenza fra la tragedia antica e quella
moderna. Il parallelo fra le due tragedie non è casuale: in ambedue il
protagonista vendica l’uccisione del padre uccidendo la madre e il di lei
amante. Ma Oreste vive in un mondo di certezze, aderisce pienamente alla vita,
la sua identità e il suo mondo sono certi, i suoi sentimenti sono elementari e
determinati; se “il cielo si strappa”(e il teatro è evidentemente
metafora della vita), Oreste perde i propri punti di riferimento, non è più
sicuro dell’universo in cui vive, non può non porsi domande su se stesso, sul
senso del suo rapporto con gli altri e con il mondo; è irrimediabilmente sdoppiato,
non vive ma si vede vivere, non agisce ma medita sull’azione (diventa, appunto,
Amleto).
Nel cap. XIII (Il lanternino) Anselmo Paleari,
fissato con lo spiritismo, espone la seguente teoria (la “lanterninosofia”)
ad Adriano, quando questi deve stare per un certo periodo al buio a seguito
dell’operazione a un occhio (fatta per “raddrizzare” lo strabismo e nello
stesso tempo cambiare i connotati di Mattia): a differenza degli altri elementi
naturali (alberi, animali), noi ci sentiamo vivere, ci sentiamo cioè distinti
dalla realtà che ci circonda; tale realtà è per noi come un grande buio,
rispetto al quale noi siamo come un lanternino che illumina una piccola sfera
circostante; la luce è la nostra visione della realtà, determinata dalle idee
dominanti nelle diverse epoche, è il modo di illuminare il buio: più forti sono
le certezze, più grande è la luce; oggi ci sono luci piccole e allo sbando
(mancano fedi, ideali, certezze). Ma se questo buio non fosse che un’illusione,
privilegio e maledizione dell’uomo, che ha il lanternino? Se questo buio (della
realtà fuori di noi e dopo di noi) non fosse che una creazione, per contrasto,
della luce? Allora la morte non sarebbe un precipitare nel buio, ma solo uno
spegnersi del lanternino, finalmente, che ci consentirebbe di appartenere
(come siamo sempre appartenuti, del resto, ma non più con il sentimento della
propria individualità separata, e con la relativa paura) alla vita
universale, all’Essere, alla Verità.
Nel cap. XV (Io e l’ombra mia) si racconta di
quando, dovendo pagare la parcella al chirurgo che l’ha operato all’occhio,
Adriano si accorge di essere stato derubato da Terenzio Papiano, ma, malgrado
le insistenze di Adriana, non può denunciarlo, per la stessa ragione per cui
non può legalizzare il suo amore per Adriana: non ha identità anagrafica.
Angosciato da questa condizione di impotenza, esce di casa e passeggia per
Roma. Alla vista della propria ombra, comincia a parlarle rabbiosamente come se
fosse un’entità reale, un altro se stesso che vorrebbe annientare (gioisce
quando un carro le passa sopra), ma da cui non riesce a separarsi (“se mi
metto a correre, mi seguirà”). E’ insomma esplicitato il motivo del
“doppio”, antico motivo ricorrente nella letteratura (dal mito di Narciso, all’Amphitruo
di Plauto, alla Meravigliosa storia di Peter Schlemihl di Adalbert von
Chamisso – 1814 – a Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde di
Stevenson – 1886): Pirandello dà in questo modo concretezza alla sua
particolare ossessione, quella per cui i suoi personaggi hanno perso la
certezza (e la compattezza) della propria identità, non vivono con
immediatezza, ma si guardano vivere, si sentono irrimediabilmente spezzati fra
un io che vive e un io che riflette su quel vivere (“riflette”, come uno
specchio, strumento inquietante, da sempre associato, come l’ombra, al motivo
del “doppio”).
Avvertenza sugli scrupoli della fantasia: in appendice, in occasione di una nuova pubblicazione del romanzo,
Pirandello cita due episodi di cronaca (il secondo – una storia di bigamia
fondata sulla morte presunta di un coniuge – molto simile alla storia di Mattia
Pascal) a testimonianza del fatto che la vita, a volte, è più inverosimile
dell’arte (e quindi, accusare il romanzo di inverosimiglianza rispetto alla
vita, è una sciocchezza). E’ lo zoologo che, studiando l’uomo come specie, lo
rappresenta secondo un modello astratto e generale; ma gli individui concreti
sono l’uno diverso dall’altro (così come lo sono le loro storie), ed è questa
la verità che l’arte rappresenta (ed è una verità che prescinde dalla
“verosimiglianza zoologica”). Infine controbatte anche l’accusa di
“cerebralismo”, di eccesso di ragionamento (per cui i suoi personaggi sarebbero
poco umani perché in essi prevale il ragionamento sul sentimento). Ma il
ragionare è proprio dell’uomo, e vieppiù quando soffre (laddove la bestia
soffre senza ragionare).
Si ribadisce, insomma, che la condanna dell’uomo moderno è quella di vedersi vivere, di
non riuscire ad aderire pienamente alla vita: ed è la questione al centro della
problematica di Svevo (v. la scheda su Svevo-Leopardi). D’altra parte
tale questione (in quanto implica una sorta di sdoppiamento fra io-vivente ed io-cosciente) rimanda
anche al Montale di Non chiederci la parola (“Ah, l’uomo che
se ne va sicuro / agli altri ed a se stesso amico / e l’ombra sua non cura...”).
Infine l’idea della morte come spegnersi del lanternino, come un disperdersi
nel buio, apparente, della realtà, è ritrovabile nella novella Di sera, un
geranio.
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