Tacito
Nasce,
presumibilmente, fra il 55 e il 60 (1). Difficile stabilire famiglia e
luogo di nascita (anche se, da una lettera di Plinio, si deduce che non fosse romano) (2): è vero che nel
III sec. l’imperatore Tacito, di Terni, si vantava discendente dello storico,
ma è anche vero che la diffusione del cognomen
Tacitus nella Cisalpina e nella Narbonese sembra un buon argomento a favore
dell’origine gallica. Avendo sposato la figlia dell’autorevole Giulio
Agricola, fece carriera sotto i Flavi (3) (questore, edile, pretore; poi,
probabilmente, propretore in Germania). Fu consul
suffectus (console che subentra al
console morto) sotto Nerva, infine proconsole in Asia sotto Traiano. Morì nei
primi anni del principato di Adriano, attorno al 120.
Oltre alle due
monografie (Agricola e Germania, pubblicate nel 98, quando
prese il potere Traiano) e alle due opere annalistiche (le Historiae e gli Annales),
gli è attribuito il Dialogus de oratoribus, dedicato al tema della decadenza
dell’oratoria. Ma la paternità è stata a lungo messa in discussione, sia per il
genere, sia per lo stile (molto ciceroniano e poco “tacitiano”). Generalmente
si risolve il problema ritenendola un’opera giovanile, in cui l’autore non ha
ancora maturato il suo stile personale; ma giovanile non può essere, visto che
la data in cui si immagina avvenuto il dialogo è il 75 (4) e lo scrittore dice di rievocare discorsi sentiti nella sua
giovinezza (5). Bisognerà pensare, allora, ad uno stile ciceroniano adottato in
quanto appropriato al genere (il De
oratore è chiaramente il modello a
cui si ispira).
Marco Apro e Giulio Secondo (uomini eloquentissimi,
maestri e modelli del giovane Tacito che li accompagna) si recano a far visita
a Curiazio Materno (che ha
abbandonato l’oratoria per la poesia tragica) e discutono, dapprima della
superiorità fra oratoria e poesia, quindi (arriva un quarto interlocutore, Vipstano
Messalla) della differenza fra oratoria antica e moderna. Apro difende
l’oratoria moderna, sostenendo che lo stile rapido e brillante è segno di
un’evoluzione del gusto del pubblico. Messalla invece parla di decadenza,
determinata dalla negligenza dei genitori nell’educare i figli, dal livello
scadente delle scuole in cui la retorica è ridotta ad un formulario di regole
tecniche, dall’abuso di esercitazioni su argomenti fittizi (le suasoriae e le controversiae) (6). Materno invece ne dà una spiegazione
politica (7): la competizione politica, propria dell’età repubblicana,
favoriva l’oratoria, il principato la uccide. Peraltro Materno non vuole dare
un giudizio politico negativo sulla situazione attuale; e infatti dice che la
grande eloquenza è alumna licentiae, quam
stulti libertatem vocant (40, 2), mentre non si sviluppa in bene constitutis civitatibus, poiché
in essi le decisioni non sono lasciate all’arbitrio della folla ignorante, ma
sono prese da uno solo, il più saggio (sapientissimus
et unus).
Il De
vita Iulii Agricolae (Agricola) è la biografia encomiastica del
suocero, che aveva raggiunto il culmine della carriera (governatore della
Britannia) sotto Domiziano. Il personaggio potrebbe dunque essere visto come un
opportunista servile, che non ha saputo o voluto opporsi al tiranno, come
invece avevano fatto, a prezzo della vita, uomini come Tràsea Peto
(contro Nerone) o Elvidio Prisco (messo a morte da Vespasiano). Ma
Tacito da una parte fa notare come Domiziano non amasse la grandezza di
Agricola (al punto che, alla sua morte, si era diffuso il rumor che fosse stato avvelenato dall’imperatore), dall’altra
argomenta che la morte eroica degli oppositori, per quanto bella, è inutile
alla patria, mentre è bene che gli uomini onesti e capaci operino per
l’interesse superiore della res publica,
anche quando (anzi, ancor più) questa è vittima di un potere tirannico (8). La
biografia dedica poi molto spazio alla narrazione della conquista della
Britannia, con descrizione dei luoghi e dei popoli. Notevoli i capitoli dove si
parla della resistenza dei Calèdoni e si riporta il discorso che il loro
re, Calgaco, rivolge ai suoi
uomini prima della battaglia: memorabile e spietata accusa all’imperialismo
romano, che non è portatore di pace e civiltà, ma di massacri, violenza e
sopraffazione.
Il De
origine et situ Germanorum (Germania) è una monografia di tipo
etnografico, che ha come fonti il Bellum
gallicum di Cesare e probabilmente opere andate perdute, quali il Bella Germaniae di Plinio il Vecchio
(23-79 d. C.) e un Bellum Germanicum
di Aufidio Basso (sotto Nerone). Si descrivono popoli e costumi della Germania,
ma sempre avendo in mente il confronto con la degenerazione romana. Roma ha
raggiunto il massimo della civiltà, ma i suoi costumi corrotti (così diversi da
quelli delle origini) ne preannunciano l’inevitabile crollo. I Germani sono,
sì, barbari, ma sono moralmente sani e fisicamente forti (sintomatico il
comportamento casto delle donne, che non assistono agli spettacoli, non
partecipano ai banchetti, non affidano alle ancelle l’allevamento dei figli).
Questa gente non potrà che avere il sopravvento su Roma: si tratta di un
destino per ora soltanto procrastinato, grazie alla litigiosità dei popoli
germanici che non si coalizzano contro il comune nemico.
Nell’Agricola aveva preannunciato l’intenzione
di celebrare i tempi presenti (di Nerva e Traiano) in contrapposizione con la prior servitus (di Domiziano). E ancora
nel proemio delle Historiae aveva
detto di riservare alla vecchiaia la trattazione del principato di Nerva e
Traiano (9). In verità non lo farà mai, in quanto dopo le Historiae (che
narravano le vicende dalla morte di Nerone alla morte di Domiziano: 69 - 96),
sceglie di risalire alle origini del principato (gli Annales: dalla morte
di Augusto alla morte di Nerone: 14 - 69): forse perché avverte anche nel
principato di Traiano i germi della degenerazione?
Le due opere, insieme,
constavano di 30 libri: presumibilmente 14 erano di Historiae e 16 di Annales. Ci restano i primi quattro e
mezzo delle Historiae (le guerre civili dopo la morte di Nerone,
fino all’affermarsi di Vespasiano); i primi sei e gli ultimi sei (mutili)
degli Annales (l’impero di
Tiberio, poi quelli di Claudio e Nerone). il metodo è quello annalistico,
anche se talvolta lo schema viene modificato, ad esempio per narrare di guerre
che si protraggono per più di un anno.
La convinzione dello
storico è che il principato sia necessario (come altrimenti governare uno Stato
così ampio? E come garantirsi dalla rissosità interna, che nella repubblica
aveva raggiunto punte estreme?) (10) e che funzioni nel migliore dei modi
quando c’è equilibrio fra l’autorità del princeps e l’autonomia della nobilitas. Ma esso sembra ineluttabilmente degenerare nel
dispostismo, per una sorta di male intrinseco alla natura umana che fa sì che
il principe si voglia affermare in maniera assoluta e il senato accetti di
ridursi ad una assemblea consultiva, quando non ad un coacervo di adulatori
servili.
Bello il proemio delle
Historiae, dove si denuncia la
produzione storiografica successiva alla battaglia di Azio, che ha tradito la
verità vuoi per piaggeria (libido
adsentandi) vuoi per astiosa malevolenza (obtrectatio et livor); senonché, mentre è facile condannare la
prima (a tutti ripugna il servilismo: adulationi
foedum crimen servitutis), la seconda trova consensi perché l’attacco,
sempre e comunque, a chi gestisce il potere viene scambiato per amore di
libertà (malignitati falsa species
libertatis inest). Invece io, dice Tacito, intendo narrare libero da
pregiudizi (senza amore né odio: neque
amore... et sine odio), come deve fare chi vuole essere fedele alla verità.
(11)
1) L’amico Plinio il Giovane in una lettera allo stesso Tacito (VII,
20, 3) definisce sé e l’amico aetate,
dignitate propemodo aequales, ma se stesso (nato nel 61-62) più giovane (adulescentulus, cum iam tu fama gloriaque
floreres).
2) In IX, 23, 2 riferisce un aneddoto raccontatogli dallo stesso
Tacito: al Circo un cavaliere che gli sedeva vicino gli aveva chiesto se fosse
italico o provinciale (dunque, dalla pronuncia si capiva che non era romano); e
alla sua risposta (mi conosci per le mie opere) gli aveva chiesto se fosse
Tacito o Plinio.
3) Lo dichiara, non senza un certo imbarazzo, in Historiae, I, 1, 3: dignitatem
nostram, a Vespasiano inchoatam, a Tito auctam, a Domitiano longius provectam,
non abnuerim (non potrei negare).
4) In un passo (17, 3)
si afferma che ormai da sei anni Vespasiano si prende cura dello Stato.
5) La data più probabile sembra essere il 102, anno in cui fu console
il dedicatario dell’opera, Fabio Giusto: sono infatti da escludere i quindici
anni del regno di Domiziano (Tacito dichiara di averli trascorsi per silentium: Agricola, 3, 2) nonché gli anni dopo il 96, quando fu impegnato
nella stesura dell’Agricola e della Germania.
6) Qualcosa di simile
aveva sostenuto Quintiliano nell’Institutio
oratoria.
7) Per la verità è
Giulio Secondo che associa il fiorire della grande oratoria ai forti contrasti
politici propri dell’età repubblicana; Materno si aggancia al suo discorso (il
testo è lacunoso) per sottolineare che, se col principato si è persa la libera
dialettica politica, si è acquistato però il bene prezioso della pace sociale.
8) Altrimenti lo Stato resta
totalmente nelle mani dei disonesti e dei malvagi. E’ lo stesso argomento usato
da Guicciardini, in uno dei Ricordi,
quando si difende dall’accusa di avere collaborato con i Medici.
9) Si vita suppeditet,
principatum divi Nervae et imperium Traiani, uberiorem securioremque materiam,
senectuti seposui, rara temporum felicitate, ubi sentire quae velis et quae
sentias dicere licet. (I, 1, 4)
10) Omnem potentiam ad unum conferre pacis
interfuit (Historiae, I, 1, 1). Non aliud discordantis patriae remedium fuisse
quam ut ab uno regeretur (Annales,
I, 9, 4).
11) Initium
mihi operis Servius Galba iterum Titus Vinius consules erunt. Nam post conditam
urbem octingentos et viginti prioris aevi annos multi auctores rettulerunt, dum
res populi Romani memorabantur pari eloquentia ac libertate: postquam bellatum
apud Actium atque omnem potentiam ad unum conferri pacis interfuit, magna illa
ingenia cessere; simul veritas pluribus modis infracta, primum inscitia rei
publicae ut alienae, mox libidine adsentandi aut rursus odio adversus
dominantis: ita neutris cura posteritatis inter infensos vel obnoxios. Sed
ambitionem scriptoris facile averseris, obtrectatio et livor pronis auribus
accipiuntur; quippe adulationi foedum crimen servitutis, malignitati falsa
species libertatis inest. Mihi Galba Otho Vitellius nec beneficio nec iniuria
cogniti. Dignitatem nostram a Vespasiano inchoatam, a Tito auctam, a Domitiano
longius provectam non abnuerim: sed incorruptam fidem professis neque amore
quisquam et sine odio dicendus est. Quod si vita suppeditet, principatum divi Nervae et imperium
Traiani, uberiorem securioremque materiam, senectuti seposui, rara temporum
felicitate ubi sentire quae velis et quae sentias dicere licet. (Historiae, I, 1)
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