La Vita nova
Composta fra il 1292 e il 1293 (dopo la
morte di Beatrice, avvenuta nel 1290), si tratta di una scelta di poesie
scritte per lei, collegate da una narrazione in prosa (42 capitoli),
spiegando la ragione che le ha ispirate e fornendone la “divisione” (o commento
sulla struttura) (1).
Il titolo indica la vita rinnovata dall’amore, dopo l’incontro
con Beatrice a nove anni (all’inizio di lei, alla fine di lui). La
rivede a diciotto anni (2) e ne riceve il saluto; segue la
visione di Amore che tiene in braccio Beatrice e le offre in pasto il cuore di
Dante. Segue un periodo di dispersione spirituale (segnato dall’adesione al convenzionale
galateo cortese: le due “donne dello schermo”, per la seconda delle
quali la dedizione è tale che Beatrice gli toglie il saluto, addirittura lo “gabba”,
sorridendone con altre donne, quando lo vede sconvolto dalla sua presenza). Qui
culmina la fase cavalcantiana, dell’amore inteso come passione
angosciosa, sconvolgente (legato al contraccambio, alla corrispondenza da parte
della donna amata - e quindi frustrato da quella mancanza).
Con la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore
si ha una svolta: il nuovo ideale, poetico ed amoroso, è quello di un amore
soddisfatto di se stesso e della lode della donna amata (l’amore si esplica
come poesia di lode) (3) .
In seguito alla morte del padre di lei, Dante ha la
visione di Beatrice morta: il presagio si avvera l’otto giugno del 1290.
Lui quindi si consola con una “donna gentile”, finché Beatrice non gli
compare (ne ha la visione splendente Oltre la spera che più larga gira,
cioè nell’Empireo) e lo richiama a sé. Dante promette di non parlarne più
finché non potrà dire di lei “quello che mai non fue detto d’alcuna ”.
Più che di un documento autobiografico (di una
storia reale, determinata da uno spazio e da un tempo concreti) sembra
trattarsi di un viaggio in verticale (di un approfondimento interiore)
verso la comprensione della suprema nobiltà dell’amore e della poesia che lo
canta. Tutt’altro che realisticamente determinati sono infatti lo spazio e il
tempo: si pensi al ricorrere dell’astratta allegoria del nove o a stilizzazioni
di ambiente (la “cittade”, la “camera de li sospiri”), in assenza quasi
totale di riferimenti precisi alla vita cittadina (a parte la “pintura”
alla quale Dante si appoggia, ben poco vediamo della casa e delle persone nella
scena del gabbo, che pure si prestava a descrizioni realistiche).
Quindi, storia del raffinamento di un amore,
del suo diventare da terreno ultraterreno (tramite all’amore per Dio); ma anche
storia dello sviluppo di una poetica, fino alla coscienza della superiorità
di una poesia che esprime una verità nuova: la funzione beatificante
dell’amore (che ha valore in sé, a prescindere dal contraccambio, ovvero
dal saluto: era questo l’equivoco che generava il dolore, l’equivoco su cui
si era impantanato l’amico Cavalcanti).
E’ un amore paragonabile a quello dei mistici, è un Itinerarium
mentis in deum (un viaggio dell’anima verso Dio, secondo il titolo
dell’opera di S. Bonaventura): oltre la tradizione cortese, secondo cui
l’amore, per quanto raffinato e sublimato, è pur sempre una passione terrena,
oltre Cavalcanti, come s’è visto, ma anche oltre Guinizzelli, il quale
paragonava sì la donna a un angelo, ma il cui amore per la donna si risolveva
in sé, non era tramite all’amore per Dio.
Dante invece riconosce nella donna una figura celeste
(un angelo), la cui funzione è di condurre all’amore per Dio. E il percorso
del suo amore sembra essere quello dei mistici, attraverso tre stadi: extra
nos (l’anima ama Dio attraverso le cose esteriori, riconosciute come un suo
dono), intra nos (l’anima scopre Dio dentro se stessa e lo ama per se
stesso), super nos (questo amore trasporta l’anima sopra se stessa, fino
a ricongiungerla con Dio).
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1) Modelli potevano essere le razos provenzali
(“ragioni”, o didascalie, premesse alle poesie dei trovatori) e il De
consolatione philosophiae di Severino Boezio (480-526: imprigionato dal re
dei Goti, Teodorico, aveva scritto quell’opera, in prosa e versi, per sostenere
che, al di là dei mutamenti della fortuna, esiste una provvidenza che
governa il mondo).
2) Il valore simbolico del nove (la sua radice è il
tre, il numero della Trinità, e Dante stesso, nel cap. XXIX, dice che il suo
significato è quello del miracolo) è ribadito dal fatto che con tale numero
inizia l’opera, dopo il proemio, e che esso ricorre nove volte in tutto il
libro.
3) “La beatitudine si realizza nell’atto dello scriver
versi: dunque il favore della donna cessa di essere l’obiettivo dell’amante. Il
nuovo principio di poetica sancisce la non-comunicazione con l’oggetto reale
del desiderio. L’amore, sottratto alle vicende empiriche e perciò alle
occasioni di sofferenza che il rapporto vissuto con la donna potrebbe
provocare, è proposto come fenomeno puramente intellettuale e si attua con
pienezza nella rappresentazione di se stesso.” (M.I., 3, p. 726).
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