Ulisse nella
letteratura italiana (e altrove)
La
tradizione
1) Omero nell’introduzione
dell’Odissea, laddove invoca la
Musa , chiama Ulisse polìtropos, ovvero “dal multiforme ingegno” e dice che nel
suo viaggio di ritorno da Troia “vide
molte città e di molti uomini conobbe il noon,
il pensiero, l’indole, la mente”. Qui c’è già il doppio aspetto del carattere di Ulisse, giacchè da una parte, con
il riferimento alla versatilità dell’ingegno, si allude alla sua astuzia,
dall’altra, con il riferimento al suo peregrinare di gente in gente, si allude
al suo desiderio di conoscenza.
2) E’ dunque una fama doppia quella che caratterizza il
personaggio di Ulisse sin dalle origini; ed è
una doppiezza che ritorna nella tradizione, a cominciare dagli autori
latini. Infatti Virgilio nell’Eneide
lo chiama scelerum inventor, cioè inventore di scelleratezze, di inganni,
ma anche fandi fictor, che significa creatore, inventore di discorsi,
falsificatore di parole, intendendo sempre inventore di inganni tramite parole.
Anche Ovidio, nel libro XIII delle Metamorfosi,
laddove si riporta la contesa per ereditare le armi di Achille fra Aiace ed
Ulisse (contesa vinta da quest’ultimo grazie all’uso astuto dell’abilità di
parola), lo chiama hortator scelerum, istigatore di scelleratezze.
3) Invece Cicerone,
Orazio, Seneca ne parlano come di un uomo bramoso, sopra ogni cosa, di
conoscenza. Così dice di lui Orazio,
nella seconda epistola del I libro (vv. 17-22):
Si
propone, come utile esempio di ciò che possono virtú e saggezza (quid virtus et quid sapientia possit),
Ulisse, che dopo aver vinto Troia, si
preoccupò di conoscere le città e i costumi di molte genti (multorum providus urbes, et mores hominum
inspexit) , mentre sull'ampia distesa del mare, cercando il ritorno per sé
e per i suoi, soffrì travagli d'ogni genere, senza lasciarsi mai sommergere dai
marosi dell'avversa fortuna.
E Seneca, in un passo del De constantia sapientis (II, 2), in
cui vuole elogiare la superiore saggezza di Catone l’Uticense, ricorda che nei
tempi antichi altrettanto saggio era ritenuto Ulisse:
(…)
quanto a Catone, gli dei immortali ci hanno dato un esempio di uomo sapiente
ancora più alto di quello che ci avevano dato con Ercole e Ulisse nei secoli
precedenti. Questi ultimi infatti vennero
dichiarati sapienti dai nostri (maestri) stoici, perché invincibili nelle fatiche, sprezzanti del
piacere e vincitori di tutte le paure (sapientes
pronuntiaverunt, invictos laboribus et contemptores voluptatis et victores
omnium terrorum).
Infine Cicerone, in un passo del De
finibus bonorum et malorum (V, 18), laddove sostiene che il desiderio
di conoscere è proprio dell’uomo e che chi ama la conoscenza è disposto per lei
ad ogni sacrificio, interpreta in questo senso l’episodio dell’Odissea in cui
si narra del passaggio di Ulisse presso l’isola delle Sirene:
Non
vediamo forse che chi si diletta degli studi e delle arti non tiene conto né
della salute né degli interessi familiari e tutto sopporta, preso dalla
conoscenza e dal sapere, e trova un compenso delle grandissime fatiche nel piacere
che prova nell’imparare? Tanto che a me sembra che Omero abbia concepito
qualcosa di questo genere in quei versi che ha composto sui canti delle Sirene.
Non mi sembra infatti che fossero solite attirare coloro che passavano con la
dolcezza della voce o con la novità e la bellezza del canto, ma perché dichiaravano di sapere molte cose, così che
gli uomini andavano a sbattere contro i loro scogli per bramosia di sapere.
Così infatti attirano Ulisse (…) Omero capì che la storia non poteva essere
creduta se un uomo tanto grande fosse stato attirato con delle canzonette; è la conoscenza che (le Sirene) promettono,
e non è incredibile che questa fosse più cara della patria per un uomo bramoso
di sapienza (cupido sapientiae).
Dante
4)
E’ questa doppiezza della tradizione che arriva a Dante: Ulisse è sia scelerum
inventor (e fandi fictor) sia cupidus sapientiae, e di questa
doppiezza il canto XXVI dell’Inferno rende testimonianza. Come “scelerum inventor”
Ulisse è dannato nella bolgia dei consiglieri frodolenti (è detto
esplicitamente da Virgilio, laddove indica le colpe per cui Ulisse e Diomede “insieme vanno”: l’agguato del cavallo,
l’inganno a Deidamia, il furto del Palladio). Ed è un peccato per il quale
Dante si sente particolarmente coinvolto, visto che, al solo ricordo della
bolgia, sente il bisogno di ammonire se stesso (vv. 19-24). E’ un peccato che
ha a che fare non solo con l’intelligenza (questo vale per tutte le bolge), ma
particolarmente con l’uso frodolento
della parola, dunque con l’uso distorto di una capacità altamente umana,
quella di parlare, di cui un letterato come Dante più di altri dispone: che di
questo si tratti non mi pare dubbio, visto che un aspetto del contrappasso consiste proprio nella difficoltà ad
articolare parole (come è evidente qui, ma ancora di più nel canto successivo,
con Guido da Montefeltro):
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando
mi diparti’ da Circe…
5)
Sono tutte espressioni che indicano la fatica di parlare, di emettere la voce. Piccola
parentesi: Dante non aveva letto l’Odissea, e forse nemmeno dei riassunti,
tant’è che – forse sulla scorta di ciò che dice Ovidio in un passo delle Metamorfosi (XIV, 436 ss.) – immagina che Ulisse parta per il suo viaggio
fatale dopo il soggiorno presso Circe, mentre noi sappiamo che nella narrazione
omerica dopo quell’episodio seguono altre avventure fino al ritorno ad Itaca. Ma
torniamo al testo di Dante. Il racconto di Ulisse sulla propria morte, non ha a
che fare con il peccato per cui è dannato (a
meno che non si voglia vedere nell’ “orazion picciola” il consiglio frodolento,
cosa davvero difficile visto che si fa appello a valori nobilissimi, quali la
superiorità dell’uomo sui bruti e l’aspirazione alla conoscenza):
"O frati", dissi, "che per
cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d'i nostri sensi ch'è del rimanenteperigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
non vogliate negar l'esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".
6)
E’ invece la narrazione di una vicenda che si conclude tragicamente perché l’umanissimo desiderio di conoscere del
pagano Ulisse non è sostenuto dalla grazia divina. Per questo suo desiderio
di conoscere (l’ardore / ch’i’ ebbi a
divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore) Ulisse era
esaltato dalla tradizione classica (si veda come lo rappresentano gli auctores sopra citati). E così Dante lo
recepisce. Ma il cristiano Dante sa anche che senza l’aiuto della grazia la
conoscenza non può giungere alla verità. Per
questo il “volo” di Ulisse è “folle”, e la follia in Dante (si veda il
canto II: “temo che la venuta non sia
folle”) indica appunto la
presunzione dell’intelletto di giungere alla verità con le sole sue forze,
senza la Rivelazione ,
senza la grazia (se questo fosse stato possibile, “mestier non era parturir Maria”, dice Virgilio in Pg. III pensando
con tristezza alla condizione di pagani dotati di grande intelligenza). Dunque
quel viaggio verso una verità inconoscibile con le sole forze umane non può che
fallire, la nave di Ulisse non può che
naufragare in vista della montagna del Purgatorio.
7)
L’alter ego di Ulisse è Dante stesso,
che compie, come lui, un viaggio al di là delle capacità umane (e infatti aveva
temuto che fosse “folle”); ma, diversamente dall’eroe omerico, Dante è
sostenuto dalla grazia divina, lui potrà giungere alla spiaggia del Purgatorio
(dove, non a caso, ricorderà ancora il fallimento del viaggio di Ulisse: non
diversamente si deve intendere il riferimento di Pg. I, 130-132).
Venimmo poi in sul
lito diserto,
che mai non vide
navicar sue acque
omo, che di tornar
sia poscia esperto.
Primo Levi
8)
Facciamo un salto nel cuore del Novecento, perché ritroviamo l’Ulisse di Dante
in Se
questo è un uomo, il libro in cui Primo
Levi racconta della sua deportazione e del suo internamento nel lager di Auschwitz.
Il
canto di Ulisse è il titolo di uno dei capitoli più belli e commoventi
del libro. Primo Levi fa amicizia con un altro internato, Jean, il Pikolo (era chiamato così, dice Levi, chi aveva la carica
di fattorino-scritturale, addetto a varie mansioni, fra cui quella di tenere la
contabilità delle ore di lavoro); Jean parla francese e tedesco e vorrebbe
imparare l’italiano e Primo si propone di cominciare a insegnarglielo durante
il tragitto che fanno per andare a prendere e trasportare la marmitta con il
rancio.
9) Gli viene in mente
il canto di Ulisse, se lo ricorda a pezzi, spiega al Pikolo i versi che ricorda
e si accorge lui stesso di scoprirne dei significati che, fuori da quella
tragica condizione, gli erano sempre sfuggiti: dovevo venire al lager, dice,
per capire meglio. “E misi me per l’alto mare aperto”; nel “mettere sé” c’è un’idea dello slanciarsi, più forte di un semplice
dirigersi; e poi c’è il “mare aperto”,
quello che ha per limite soltanto l’orizzonte. E quegli uomini, la cui umanità
era annientata, si commuovevano ascoltando il monito di Ulisse: Fatti non foste per viver come bruti…
Quel monito, il ricordo di essere uomini e non bestie, li aiuta a sopravvivere:
…
Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo
tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligente
capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto. (…. ) Jean è attentissimo, ed io
comincio, lento e accurato:
Lo
maggior corno della fiamma antica
cominciò
a crollarsi mormorando,
pur
come quella cui vento affatica.
Indi,
la cima in qua e in là menando
come
fosse la lingua che parlasse
mise
fuori la voce, e disse: Quando…
Qui mi fermo e
cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia
l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della
lingua e mi suggerisce il termine appropriato per rendere «antica». E dopo
«Quando»? Il nulla. Un buco nella memoria. «Prima che sì Enea la nominasse».
Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile; «… la piéta Del
vecchio padre, né ’l debito amore Che doveva Penelope far lieta…» sarà poi
esatto?
… Ma misi me per
l’alto mare aperto.
Di questo sì, di
questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché
«misi me» non è «je me mis», è molto più forte e più audace, è un vincolo
infranto, è scagliare se stessi al di là
di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto:
Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non
c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane. […] «Mare
aperto», «Mare aperto». So che rima con «diserto»: «… quella compagna Picciola,
dalla qual non fui diserto», ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche
il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che
tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato
che un verso, ma vale la pena fermarcisi:
… Acciò che l’uom più oltre non si metta.
«Si metta»: dovevo
venire nel Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, «e misi
me». Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una osservazione
importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno
è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda. Ecco, attento Pikolo, apri gli
orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate
la vostra semenza:
fatti
non foste a viver come bruti,
ma
per seguir virtute e conoscenza.
Come
se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la
voce di Dio. Per
un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. Pikolo mi prega di ripetere.
Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è
qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre
e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha
sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in
specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe
della zuppa sulle spalle.
Li
miei compagni fec’io si acuti...
...e mi sforzo, ma
invano, di spiegare quante cose vuoi dire questo «acuti». Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile. «...
Lo lume era di sotto della luna» o qualcosa di simile; ma prima?... Nessuna
idea, «keine Ahnung» come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato
almeno quattro terzine (..).
Quando
mi apparve una montagna, bruna
Per
la distanza, e parvemi alta tanto
Che
mai veduta non ne avevo alcuna.
Sì, sì, «alta
tanto», non «molto alta», proposizione consecutiva. E le montagne, quando si
vedono di lontano.. le montagne... oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non
lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera
quando tornavo in treno da Milano a Torino!
Basta, bisogna
proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e
mi guarda.
Darei la zuppa di
oggi per saper saldare «non ne avevo alcuna» col finale. Mi sforzo di
ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non
serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi: «...la terra
lagrimosa diede vento ...» no, è un’altra cosa. È tardi, è tardi, siamo
arrivati alla cucina, bisogna concludere:
Tre
volte il fe’ girar con tutte l’acque,
Alla
quarta levar la poppa in suso
E
la prora ire in giù, come altrui piacque...
Trattengo Pikolo,
è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo «come altrui piacque», prima che sia
troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più,
devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure
inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso
ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui...
Siamo oramai nella
fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa
degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. – Kraut und
Rüben? – Kraut und Rüben –. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di
cavoli e rape: – Choux et navets. – Káposzta és répak.
Infin
che ‘l mar fu sopra noi rinchiuso.
Foscolo
10)
Facciamo un passo indietro, andiamo a Foscolo, autore nel quale ritorna la
figura di Ulisse nella sua doppiezza. Tutti ricordiamo A Zacinto
di Foscolo. Lì l’eroe greco è definito “bello di fama e di
sventura”. E’ diventato un eroe
romantico, cui il poeta si sente simile, e che è reso “bello” dalla
“sventura”, dalla sofferenza. Il dolore è un segno di nobiltà, è privilegio di
animi non mediocri (“soffri e sii grande!” dice Anfrido ad Adelchi,
nella tragedia manzoniana). Di questo privilegio-maledizione Ulisse è il
simbolo, e Foscolo se ne serve per mostrarci che lui è ancora più “bello”, se non
di “fama”, certamente di “sventura”, visto che, a differenza dell’eroe omerico
che alla fine riesce a baciare “la sua petrosa Itaca”, per lui la
sofferenza dell’esilio non avrà termine (“a noi prescrisse il fato
illacrimata sepoltura”).
11) Ma nell’opera di Foscolo c’è un’altra rappresentazione di Ulisse: nei Sepolcri Ulisse viene contrapposto come “itaco astuto” al magnanimo Aiace; è colui che con l’astuzia è riuscito a farsi assegnare le armi di Achille, che invece, per valore guerriero, sarebbero spettate ad Aiace. Costui impazzisce e si uccide, ma “a’ generosi / giusta di glorie dispensiera è morte”, e dunque, per volontà degli dei, Ulisse farà naufragio e il mare riporterà sul sepolcro di Aiace (“alle prode Retèe”, sul promontorio Retèo, vicino a Troia) le armi ingiustamente sottrattegli. Così dice il poeta, rivolgendosi ad Ippolito Pindemonte, il dedicatario del carme:
Felice
te che il regno ampio de’ venti,
Ippolito,
a’ tuoi verdi anni correvi!
E
se il piloto ti drizzò l’antenna
Oltre
l’isole Egée, d’antichi fatti
Certo
udisti suonar dell’Ellesponto
I
liti, e la marea mugghiar portando
Alle
prode Retèe l’armi d’Achille
Sovra
l’ossa d’Ajace: a’ generosi
Giusta
di glorie dispensiera è morte:
Nè
senno astuto, nè favor di regi
All’Itaco
le spoglie ardue serbava,
Chè
alla poppa raminga le ritolse
L’onda
incitata dagl’inferni Dei.
Sembra
qui ritornare lo scelerum inventor,
che si contrappone all’altro Ulisse, quello che, per amore di conoscenza, è
disposto ad affrontare ogni sacrificio.
Leopardi e Manzoni
12)
Per restare ai grandi dell’Ottocento, è interessante il pensiero di Leopardi. Leopardi, pur essendo
affascinato da Cristoforo Colombo (e Colombo era stato indicato da Tasso, nella
Liberata, come colui che aveva
portato a compimento l’impresa di Ulisse), non amava l’Ulisse omerico, lo riteneva
non “amabile”, anzi, per certi versi
“odioso”, non amava le sue qualità, la “saviezza” e la “pazienza”; diceva
di lui nello Zibaldone (p. 3602):
Or dunque
volgendoci a' poemi epici veggiamo nell'Odissea che Ulisse, molto stimabile, in molte parti ammirabile e straordinario,
in nessuna amabile, benchè sventurato per quasi tutto il poema, niente
interessa. Ei non è giovane, anzi n'è ben lontano, benchè Omero si sforza di farlo
apparire ancor giovane e bello per grazia speciale degli Dei, di Minerva ec. o
per una meraviglia (che niente ci persuade perchè inverisimile), piuttosto che
per natura, anzi contro natura. Ma il lettore segue la natura, malgrado del
poeta e Ulisse non gli pare nè giovane
nè bello. Le qualità nelle quali
Ulisse eccede, sono in gran parte altrettanto forse odiose quanto stimabili.
La pazienza non è odiosa, ma tanto è lungi da essere amabile, che anzi
l'impazienza si è amabile….(e poi in nota)
La pazienza è di tutte le virtù forse la
più odiosa o la meno amabile, e ciò massimamente doveva essere presso gli
antichi, e presso noi ancora, quando la consideriamo in personaggi e
circostanze antiche, come in Ulisse.
E
nei Pensieri
(LXXIV):
Achille è
perfettamente amabile; laddove la bontà di Enea e di Goffredo, e la saviezza di questi medesimi e di Ulisse,
generano quasi odio.
13) Quanto a Manzoni, il discorso è diverso. Manzoni
non nomina Ulisse nella sua opera, ma la vicenda vissuta
da Renzo nei Promessi sposi sembra ripetere la struttura dell’Odissea. E’ stato Raimondi a
mostrare come, essendo l’Iliade e l’Odissea i due archetipi
fondamentali per tutto il romanzo occidentale, i Promessi sposi siano
riconducibili al poema di Ulisse: è Renzo che, come succede ad Ulisse, compie
un percorso (che è un viaggio lontano dalla “patria”, ricco di peripezie e di
ostacoli da superare), al termine del quale tornerà a casa vincitore e con una
coscienza superiore (è un cercatore di giustizia, e alla fine apprende che la
più alta forma di giustizia risiede nel perdono, come gli ha insegnato fra Cristoforo
al lazzaretto). Esemplare l’episodio narrato nel cap. XVI, quando Renzo,
in fuga verso l’Adda, si ferma all’osteria di Gorgonzola. Lì giunge anche un
mercante che narra agli avventori che lo ascoltano a bocca aperta le grandi
vicende (le agitazioni per il pane) che stanno succedendo a Milano; e narra
anche di quel caporione venuto da fuori, che era stato arrestato ma che era
riuscito a fuggire. Anche Renzo ascolta, ben sapendo che si sta parlando di
lui. La situazione ricorda quella di Ulisse, quando, ancora sconosciuto, è
ospite presso la reggia di Alcinoo; e lì, in mezzo ai Feaci, ascolta il cantore
Demodoco che narra le vicende della guerra di Troia e, fra gli eroi, esalta
l’astuto Ulisse, che ha ideato l’inganno del cavallo.
Pascoli
14)
Facciamo un altro salto. Ritroviamo la figura di Ulisse in ben tre testi della
produzione di Pascoli. Tre testi di grande suggestione, nei quali
Pascoli rievoca l’eroe omerico allo scopo di dare corpo alle proprie, personali
inquietudini. L’Ulisse di Pascoli non è
né uno scelerum inventor né un eroe
della conoscenza, è un vecchio che rievoca con nostalgia le gloriose avventure
della sua giovinezza e si interroga sul senso di quelle avventure, che è poi il
senso della sua vita.
15) Il
ritorno (da Odi e inni). Ulisse,
accompagnato dai Feaci, sbarca ad Itaca. Dorme, viene depositato sulla spiaggia
insieme a tutti i suoi beni e i Feaci ripartono. Quando l’eroe si sveglia,
crede di essere stato ingannato, perché non riconosce in quella terra aspra e
rocciosa la sua Itaca, l’isola dei suoi ricordi, della fonte Aretusa,
dell’antro delle ninfe, degli alberi fioriti. E’ una fanciulla che viene alla
fonte per lavare le vesti a rivelargli che quella è proprio Itaca, e lo invita
a guardare la trasparenza dell’acqua per riconoscere che quella è proprio la
fonte Aretusa. Ulisse guarda, si specchia nella fonte, vede se stesso vecchio e
rugoso, stenta a riconoscersi. Con amarezza capisce che non è l’isola ad essere
cambiata, ma lui stesso (“Io era, io era mutato! / Tu, patria, sei come a
quei giorni! / Io, sì, mio soave passato, / ritorno, ma tu non ritorni…/”).
La gloria e la bellezza sono nel
ricordo, non esistono più; il presente è la triste banalità del quotidiano. Nel
finale, il coro delle ninfe lo invita a mordere il fiore del loto: solo così
troverà la serenità e potrà rivedere, in sogno, le vicende irrevocabili del
passato:
Al fonte arguto
s’appressò l’eroe,
e vide sè nel puro
fior dell’acque.
Arida vide la sua
cute, vide
grigi i capelli, e
pieni d’ombra gli occhi;
e la fronte
solcata era di rughe,
curvo il dosso, nè
più molli le membra.
Vide; e rivide ciò
che più non era:
sè biondo e
snello, coi grandi occhi aperti.
Rivide nella
stessa onda, e compianse,
la sua lontana
fanciullezza estinta.
(….) il reduce
Odisseo
tutto conobbe, poi
che sè conobbe;
ed alla patria
protendea le braccia:
OD. Io era, io era mutato!
Tu,
patria, sei come a quei giorni!
Io
sì, mio soave passato,
ritorno;
ma tu non ritorni...
(….)
E le ninfe divine,
anime verdi
d’alberi,
cristalline anime d’acque,
avean pietà del
vecchio eroe, che pianse
quando non vide, e
pianse quando vide.
voci di cose piccole e care,
t’addormiremo, vecchio; e potrai
ricominciare.
E quando il mare, nella tua
sera,
mesto nell’ombra manda il suo
grido,
sciogliere ancora potrai la nera
nave dal lido.
Vedrai le terre de’ tuoi ricordi,
del tuo patire dolce e remoto:
là resta, e il molto dolce là
mordi
fiore del loto.
Sarai qui presso. Rotto il tuo
remo
sopra il tuo capo stanco sarà.
Sul tuo sepolcro noi canteremo
la tua lontana felicità.
16) L’ultimo
viaggio (dai Poemi conviviali) è
un poema, composto da 24 sezioni, che
già nel numero vuole ripetere la struttura in 24 canti dell’Odissea. Il
vecchio Ulisse ha seguito i dettami
della profezia di Tiresia (con un remo sulla spalla, giungerai presso
uomini che non conoscono mare, né navi, né cibi conditi col sale; lì, un altro
viandante scambierà il tuo remo per un ventilabro, quindi pianterai a terra il
remo e offrirai sacrifici a Poseidone) è tornato ad Itaca dove, sempre secondo
la profezia, lo attende in vecchiezza, serenamente, circondato da popoli ricchi,
“la morte che viene dal mare” (thanatos
ex halòs: qualcuno traduce “fuori dal mare”, interpretando diversamente il
senso della profezia). Ma Ulisse è stanco di quella vita inerte, vuole
riprendere il mare insieme ai vecchi compagni (che lo hanno sempre aspettato,
tenendo pronta la nave), al pitocco Iro e all’aedo Femio; non vuole partire – come l’Ulisse di Dante – per conoscere nuove genti
e nuovi mondi, vuole rivedere i luoghi indimenticabili del passato, rivivere le
proprie avventure, accompagnato dal canto eternatore dell’aedo. Vuole
ripercorrere i luoghi del suo viaggio, non tanto per divenire “del mondo esperto e de li vizi umani e del
valore”, come dice Dante, ma per
conoscere se stesso: vuole capire ciò che non ha capito, vuole capire il
senso della vita. Ma ciò che la prima volta era sembrato grande ed eroico si
rivela ora banale e quotidiano (o meglio: demitizzato da una spiegazione
naturalistica). All’isola di Circe
non si sentono i leoni che ruggiscono, né si sente il canto della maga, se
non di notte, come in sogno; di giorno, si
sentono “ruggir le quercie / a qualche
rara raffica, e cantare / lontan lontano eternamente il mare”. L’aedo
muore, e la sua cetra resta appesa a un albero. All’isola di Polifemo non ci sono ciclopi, ma, in quello che fu
l’antro del gigante, solo un pastore che li accoglie ospitale; dice di non
avere mai visto ciclopi, ma bensì l’occhio
rosso di un monte (un vulcano) che faceva piovere (eruttava) pietre nel mare.
All’isola delle Sirene, dove l’eroe
vorrebbe ora sentire quel canto senza essere legato da funi all’albero maestro, dove vorrebbe ottenere quella
conoscenza che esse promettono, non vede
altro che scogli, dall’aspetto di sirene, verso cui una corrente “rapida
e soave” trascina la nave. Ulisse vorrebbe la conoscenza, una conoscenza
che dia significato alle peripezie della sua vita (“Son io! Son io, che
torno per sapere!”), vuole la conoscenza di se stesso, anche a costo di
aggiungere le sue alle altre ossa che biancheggiano sugli scogli (“Solo mi
resta un attimo. Vi prego! / Ditemi almeno chi son io! Chi ero!”). E sugli
scogli si sfascia la sua nave:
Ed
il prato fiorito era nel mare,
nel
mare liscio come un cielo; e il canto
non
risonava delle due Sirene,
ancora,
perché il prato era lontano.
E
il vecchio Eroe sentì che una sommessa
forza, corrente sotto il mare
calmo,
spingea la nave verso le Sirene;
e
disse agli altri d’inalzare i remi:
La nave corre ora da sé, compagni!
Non
turbi il rombo del remeggio i canti
delle
Sirene. Ormai le udremo. Il canto
placidi
udite, il braccio su lo scalmo.
E la corrente tacita e soave
più
sempre avanti sospingea la nave.
(…)
E il vecchio vide che le due Sirene,
le
ciglia alzate su le due pupille,
avanti
sé miravano, nel sole
fisse,
od in lui, nella sua nave nera.
E
su la calma immobile del mare,
alta
e sicura egli inalzò la voce.
Son
io! Son io, che torno per sapere!
Ché molto io vidi, come voi
vedete
me. Sì; ma tutto ch’io guardai
nel mondo,
mi riguardò; mi domandò: Chi
sono?
E la corrente rapida e soave
più
sempre avanti sospingea la nave.
E il Vecchio vide un grande mucchio d’ossa
d’uomini,
e pelli raggrinzate intorno,
presso
le due Sirene, immobilmente
stese
sul lido, simili a due scogli.
Vedo. Sia pure. Questo duro ossame
cresca
quel mucchio. Ma, voi due, parlate!
Ma
dite un vero, un solo a me, tra il tutto,
prima
ch’io muoia, a ciò ch’io sia vissuto!
E la corrente rapida e soave
più
sempre avanti sospingea la nave.
E s’ergean su la nave alte le fronti,
con
gli occhi fissi, delle due Sirene.
Solo mi resta un attimo. Vi prego!
Ditemi
almeno chi sono io! chi ero!
E tra i due scogli si spezzò la nave.
Ma
le onde del mare lo trasportano fin sulla spiaggia dell’isola di Calypso, la Nasconditrice (tale
è il significato del suo nome, dal greco kalýptein,
nascondere). La dea (l’unica che dunque esiste veramente) ritrova morto l’uomo
che rifiutò il suo amore e rifiutò l’immortalità che lei gli offriva, per ritornare
al mare e al suo dolore:
E
il mare azzurro che l’amò, più oltre
spinse
Odisseo, per nove giorni e notti,
e
lo sospinse all’isola lontana,
alla
spelonca, cui fioriva all’orlo
carica
d’uve la pampinea vite.
(…)
Ed
ella che tessea dentro cantando,
presso
la vampa d’olezzante cedro,
stupì,
frastuono udendo nella selva,
e
in cuore disse: Ahimè, ch’udii la voce
delle
cornacchie e il rifiatar dei gufi!
(…)
In
odio hanno gli dei la solitaria
Nasconditrice.
E ben lo so, da quando
l’uomo
che amavo, rimandai sul mare
al
suo dolore. O che vedete, o gufi
dagli
occhi tondi, e garrule cornacchie?
Ed ecco usciva con la spola in mano,
d’oro,
e guardò. Giaceva in terra, fuori
del
mare, al piè della spelonca, un uomo,
sommosso
ancor dall’ultima onda: e il bianco
capo
accennava di saper quell’antro,
tremando
un poco; e sopra l’uomo un tralcio
pendea
con lunghi grappoli dell’uve.
Era Odisseo: lo riportava il mare
alla
sua dea: lo riportava morto
alla
Nasconditrice solitaria,
all’isola
deserta che frondeggia
nell’ombelico
dell’eterno mare.
Nudo
tornava chi rigò di pianto
le
vesti eterne che la dea gli dava;
bianco
e tremante nella morte ancora,
chi
l’immortale gioventù non volle.
Ed ella avvolse l’uomo nella nube
dei
suoi capelli; ed ululò sul flutto
sterile,
dove non l’udia nessuno:
—
Non esser mai! non esser mai! più nulla,
ma
meno morte, che non esser più! —
Ed è lei, Calypso, che
svela l’attesa verità: “Non esser mai! Non esser mai! Più nulla, / ma meno
morte, che non esser più!”; il segreto è il non
essere mai nato; questo, rispetto alla morte, al “non esser più”, è un
nulla maggiore, un “più nulla”, ma meno doloroso della morte, “meno
morte”, in quanto esclude l’attraversamento della vita, l’esperienza del
dolore e, soprattutto, la coscienza del nulla da cui si emerge e in cui si
precipita). E dunque il vecchio Ulisse è come un Don Chisciotte cui Sancho
Panza mostra l’inconsistenza dei suoi sogni: non sirene, ma scogli, non il
ciclope, ma un vulcano (non i giganti, ma i mulini a vento). La vita eroica è
pura illusione, esiste nel canto degli aedi, nel sogno, nel ricordo (nei
romanzi di cavalleria, per Don Chisciotte); nella vita reale esiste la banalità
del quotidiano, incapace di riempire di senso la vita. Ma d’altra parte non c’è
altro senso che quello rivelato da Calypso, ed è la terribile verità della
sapienza silenica.
17) Il
sonno di Odisseo (dai Poemi conviviali).
Partendo del testo omerico (Odissea, X, 28-55) che racconta in pochi
versi del momento in cui, dopo nove giorni di navigazione, i compagni di
Ulisse, invidiosi delle ricchezze che presumono che lui stia portando ad Itaca,
aprono gli otri in cui Eolo aveva benevolmente rinchiusi i venti contrari alla
navigazione, Pascoli costruisce un poemetto (sette strofe) carico di
significati allusivi ed inquietanti (come è proprio della sua sensibilità). E’
un componimento particolarmente
elaborato, sia per l’uso insistito di espressioni omeriche (la nera nave, l’eccelsa casa, l’asta dalla bronzea punta, ecc.), sia per
la struttura perfettamente circolare, segnalata dai versi finali delle strofe e
da una fitta rete di richiami, parallelismi, simmetrie. Ulisse vede all’orizzonte “non sapea che nero: nuvola o terra?”,
ma sfinito si addormenta. Le strofe
che seguono descrivono l’avvicinarsi della nave all’isola e, come in una ripresa cinematografica, il
comparire del porcaro Eumeo intento al suo lavoro, dell’ “eccelsa casa”
di Ulisse (da cui si sente provenire il suono del “garrulo telaio” di
Penelope), di Telemaco che aspetta nel porto appoggiato alla lancia “dalla
bronzea punta”, del cane Argo che corre scodinzolando, di Laerte che
interrompe il lavoro dei campi per guardare “l’infinito mare” appoggiato
alla marra. Ma poi gli otri vengono aperti, la nave è trascinata lontano,
Odisseo si sveglia e vede ancora quel “non
sapea che nero”:
I
Per
nove giorni, e notte e dì, la nave
nera
filò, ché la portava il vento
e
il timoniere, e ne reggeva accorta
la
grande mano d’Odisseo le scotte;
né,
lasso, ad altri le cedea, ché verso
la
cara patria lo portava il vento.
Per
nove giorni, e notte e dì, la nera
nave
filò, né l’occhio mai distolse
l’eroe,
cercando l’isola rupestre
tra
il cilestrino tremolìo del mare;
pago
se prima di morir vedesse
balzarne
in aria i vortici del fumo.
Nel
decimo, là dove era vanito
il
nono sole in un barbaglio d’oro,
ora gli apparse non sapea che
nero:
nuvola
o terra? E gli balenò vinto
dall’alba
dolce il grave occhio: e lontano
s’immerse il cuore d’Odisseo nel
sonno.
II
E venne incontro al volo della nave,
ecco, una terra, e veleggiava
azzurra
tra il cilestrino tremolìo del
mare;
e
con un monte ella prendea del cielo,
e
giù dal monte spumeggiando i botri (scoscesi
fossati)
scendean
tra i ciuffi dell’irsute stipe; (sterpi
spinosi)
e
ne’ suoi poggi apparvero i filari
lunghi
di viti, ed a’ suoi piedi i campi
vellosi
della nuova erba del grano:
e
tutta apparve un’isola rupestre,
dura,
non buona a pascere polledri,
ma
sì di capre e sì di buoi nutrice:
e
qua e là sopra gli aerei picchi
morian
nel chiaro dell’aurora i fuochi
de’
mandrïani; e qua e là sbalzava
il
mattutino vortice del fumo,
d’Itaca,
alfine: ma non già lo vide
notando il cuore d’Odisseo nel
sonno.
III
Ed ecco a prua dell’incavata nave
volar
parole, simili ad uccelli,
con
fuggevoli sibili. La nave
radeva
allora il picco alto del Corvo
e
il ben cerchiato fonte; e se n’udiva
un
grufolare fragile di verri;
ed
ampio un chiuso si scorgea, di grandi
massi
ricinto ed assiepato intorno
di
salvatico pero e di prunalbo;
ed
il divino mandrïan dei verri,
presso
la spiaggia, della nera scorza
spogliava
con l’aguzza ascia un querciolo
e
grandi pali a rinforzare il chiuso
poi
ne tagliò coi morsi aspri dell’ascia;
e
sì e no tra lo sciacquìo dell’onde
giungeva
al mare il roco ansar dei colpi,
d’Eumeo
fedele: ma non già li udiva
tuffato il cuore d’Odisseo nel
sonno.
IV
E già da prua, sopra la nave, a poppa,
simili
a freccie, andavano parole
con
fuggevoli fremiti. La nave
era
di faccia al porto di Forkyne;
e
in capo ad esso si vedea l’olivo,
grande,
fronzuto, e presso quello un antro:
l’antro
d’affaccendate api sonoro,
quando
in crateri ed anfore di pietra
filano
la soave opra del miele:
e
si scorgeva la sassosa strada
della
città: si distinguea, tra il verde
d’acquosi
ontani, la fontana bianca
e
l’ara bianca, ed una eccelsa casa:
l’eccelsa casa d’Odisseo: già forse
stridea
la spola fra la trama, e sotto
le
stanche dita ricrescea la tela,
ampia,
immortale... Oh! non udì né vide
perduto il cuore d’Odisseo nel
sonno.
V
E su la nave, nell’entrare il porto,
il
peggio vinse: sciolsero i compagni
gli
otri, e la furia ne fischiò dei venti:
la
vela si svoltò, si sbatté, come
peplo,
cui donna abbandonò disteso
ad
inasprire sopra aereo picco:
ecco,
e la nave lontanò dal porto;
e
un giovinetto stava già nel porto,
poggiato
all’asta dalla bronzea punta:
e
il giovinetto sotto il glauco olivo
stava
pensoso; ed un veloce cane
correva
intorno a lui scodinzolando:
e
il cane dalle volte irrequïete
sostò,
con gli occhi all’infinito mare;
e
com’ebbe le salse orme fiutate,
ululò
dietro la fuggente nave:
Argo,
il suo cane: ma non già l’udiva
tuffato il cuore d’Odisseo nel
sonno.
VI
E la nave radeva ora una punta
d’Itaca
scabra. E tra due poggi un campo
era,
ben culto; il campo di Laerte;
del
vecchio re; col fertile pometo;
coi
peri e meli che Laerte aveva
donati
al figlio tuttavia fanciullo;
ché
lo seguiva per la vigna, e questo
chiedeva
degli snelli alberi e quello:
tredici
peri e dieci meli in fila
stavano,
bianchi della lor fiorita:
all’ombra
d’uno, all’ombra del più bianco,
era
un vecchio, poggiato su la marra:
il
vecchio, volto all’infinito mare
dove
mugghiava il subito tumulto,
limando
ai faticati occhi la luce,
riguardò
dietro la fuggente nave:
era suo padre: ma non già lo vide
notando il cuore d’Odisseo nel
sonno.
VII
Ed i venti portarono la nave
nera
più lungi. E subito aprì gli occhi
l’eroe,
rapidi aprì gli occhi a vedere
sbalzar
dalla sognata Itaca il fumo;
e
scoprir forse il fido Eumeo nel
chiuso
ben
cinto, e forse il padre suo nel
campo
ben
culto: il padre che sopra la marra
appoggiato
guardasse la sua nave;
e
forse il figlio che poggiato
all’asta
la
sua nave guardasse: e lo seguiva,
certo,
e intorno correa scodinzolando
Argo,
il suo cane; e forse la sua casa,
la
dolce casa ove la fida moglie
già
percorreva il garrulo telaio:
guardò:
ma vide non sapea che nero
fuggire
per il violaceo mare,
nuvola
o terra? e dileguar lontano,
emerso il cuore d’Odisseo dal
sonno.
Non
sappiamo se tutto ciò che è stato descritto sia apparso realmente mentre Ulisse
dormiva, o si sia trattato di un sogno: le formule verbali o avverbiali che
introducono le apparizioni sono volutamente ambigue (“e venne incontro”,
“apparve”, “ed ecco”, ecc.). Ma l’ipotesi del sogno sembra più convincente: le immagini appaiono in
una loro fissità a-temporale (come è proprio del ricordo e del sogno) e il preciso parallelismo fra il momento
dell’addormentamento e quello del risveglio fanno pensare che l’unica cosa reale
che Ulisse vede sia quel “non sapea che nero” (allusione al male, alla morte?) e che tutto ciò che sta nel mezzo
sia la visione sognata (espressione di un desiderio che mai si realizza, sempre
sfugge?), come sembra testimoniare l’uso
ripetuto del “forse” nell’ultima strofa.
D’Annunzio
18)
La demitizzazione dell’eroe, che abbiamo visto soprattutto ne L’ultimo viaggio, è probabilmente anche
una risposta alla esaltata idealizzazione che ne aveva fatto D’Annunzio in Maia, il primo libro delle Laudi, un paio d’anni prima (1903). La
idealizzazione romantica dell’eroe, che abbiamo visto in A Zacinto, diventa in Maia di D’Annunzio raffigurazione
del super-uomo (strumento dunque per dare corpo a quell’ideologia a lui
così cara). Il poeta, mentre naviga nel mar Jonio con i suoi compagni, immagina
di incrociare la rotta di Ulisse che affronta il mare da solo, come si addice a
chi si è innalzato al di sopra della mediocrità e in questa altezza non può
avere compagni. Il poeta e i suoi amici lo chiamano, pregandolo di prenderli
con sé; Ulisse nemmeno volge il capo verso di loro, ma quando è il poeta da
solo a invocarlo (“Tra costoro io sono il più forte! / Mettimi a prova!”),
lo folgora con lo sguardo (“e il folgore degli occhi suoi / mi ferì per
mezzo alla fronte”), quindi prosegue nella sua rotta. Ma quello sguardo
basta perché il poeta si senta eletto e da
quel momento i suoi compagni sentano il peso della sua volontà di potenza.
Incontrammo
colui
che
i Latini chiamano Ulisse,
nelle
acque di Leucade, sotto
le
rogge (color ruggine) e bianche rupi
che
incombono al gorgo vorace,
presso
l'isola macra (arida, pietrosa)
come
corpo di rudi
ossa
incrollabili estrutto
e
sol d'argentea cintura
precinto.
Lui vedemmo
su
la nave incavata. E reggeva
ei
nel pugno la scotta (cima che consente di
orientare la vela)
spiando
i volubili vènti,
silenzioso;
e il pìleo (copricapo a forma conica, con
la punta tondeggiante)
tèstile
dei marinai
coprivagli
il capo canuto,
la
tunica breve il ginocchio
ferreo,
la palpebra alquanto
l'occhio
aguzzo; e vigile in ogni
muscolo
era l'infaticata
possa
del magnanimo cuore.
(…)
«O
Laertiade» gridammo,
e
il cuor ci balzava nel petto
come
ai Coribanti dell'Ida
per
una virtù furibonda
e
il fegato acerrimo ardeva
«o
Re degli Uomini, eversore
di
mura, piloto di tutte
le
sirti, ove navighi? A quali
meravigliosi
perigli
conduci
il legno tuo nero?
Liberi
uomini siamo
e
come tu la tua scotta
noi
la vita nostra nel pugno
tegnamo,
pronti a lasciarla
in
bando o a tenderla ancóra.
Ma,
se un re volessimo avere,
te
solo vorremmo
per
re, te che sai mille vie.
Prendici
nella tua nave
tuoi
fedeli insino alla morte!»
Non
pur degnò volgere il capo.
Come
a schiamazzo di vani
fanciulli,
non volse egli il capo
canuto;
e l'aletta vermiglia
del
pìleo gli palpitava
al
vento su l'arida gota
che
il tempo e il dolore
solcato
aveano di solchi
venerandi.
«Odimi» io gridai
sul
clamor dei cari compagni
«odimi,
o Re di tempeste!
Tra costoro io sono il più forte.
Mettimi alla prova. E, se tendo
l'arco
tuo grande,
qual
tuo pari prendimi teco.
Ma,
s'io nol tendo, ignudo
tu
configgimi alla tua prua.»
Si
volse egli men disdegnoso
a
quel giovine orgoglio
chiarosonante
nel vento;
e
il fólgore degli occhi suoi
mi
ferì per mezzo alla fronte.
Poi
tese la scotta allo sforzo
del
vento; e la vela regale
lontanar
pel Ionio raggiante
guardammo
in silenzio adunati.
Ma
il cuor mio dai cari compagni
partito
era per sempre;
ed
eglino ergevano il capo
quasi
dubitando che un giogo
fosse per scender su loro
intollerabile. E io tacqui
in
disparte, e fui solo;
per
sempre fui solo sul Mare.
E in me solo credetti.
Uomo, io non credetti ad altra
virtù se non a quella
inesorabile d'un cuore possente.
E a me solo fedele
io fui, al mio solo disegno.
Gozzano
19)
Non stupirà di ritrovare in Gozzano il rovesciamento ironico di quella
figura. Non stupirà, perché l’anti-eroico
ed anti-dannunziano Gozzano, così come ha rivisitato in maniera ironica le
immagini del super-uomo (Totò Merumeni è appunto un super-uomo
fallito, un inetto che ha rinunciato ad ogni aspirazione eroica ed ora,
appartato dal mondo, si consola con un “esile fiorita di versi consolatori”)
e della donna fatale (La signorina Felicita, nella sua semplicità
ed ignoranza campagnola è il rovescio della donna di lusso, della “intellettuale
gemebonda”, che appartiene al mondo, reale e letterario, di D’Annunzio),
così in un delizioso componimento (L’ipotesi, pubblicato fra le Poesie
sparse, ma composto prima de La signorina Felicita) propone in chiave
ironico-parodistica quell’Ulisse esaltato da D’Annunzio nei modi suddetti.
Il poeta immagina di avere sposato la signorina Felicita, di avere avuto con
lei una vita felice e di ritrovarsi, loro
due ormai settantenni (“un giorno d’estate, nel mille e… novecento… quaranta”),
a discutere con amici di vari argomenti; e siccome il discorso cade sul “Re
di Tempeste” Odisseo, il poeta immagina di raccontarne la storia “ad uso
della consorte ignorante”. Il racconto si risolve in una straordinaria dissacrazione
della figura di Ulisse, che investe non
solo D’Annunzio ma risale fino al canto di Dante (il testo è fitto di citazioni
letterali delle espressioni dantesche): l’eroe omerico è infatti
rappresentato come uno scapestrato, marito infedele, “che visse a bordo d’un
yacht / toccando tra liete brigate / le spiagge più frequentate / dalle famose
cocottes…”; decise poi di andare in America a cercar fortuna, ma sbagliò
rotta e, invece di giungere in California o Perù, si trovò davanti il monte del
Purgatorio, dove la nave fece naufragio “e Ulisse piombò nell’inferno dove
ci resta tuttora”:
Il
Re di Tempeste era un tale
che
diede col vivere scempio
un
bel deplorevole esempio
d’infedeltà
maritale,
che
visse a bordo d’un yacht
toccando
tra liete brigate
le
spiaggie più frequentate
dalle
famose cocottes...
Già
vecchio, rivolte le vele
al
tetto un giorno lasciato,
fu
accolto e fu perdonato
dalla
consorte fedele...
Poteva
trascorrere i suoi
ultimi
giorni sereni,
contento
degli ultimi beni
come
si vive tra noi...
Ma
né dolcezza di figlio,
né
lagrime, né pietà
del
padre, né il debito amore
per
la sua dolce metà
gli
spensero dentro l’ardore
della
speranza chimerica
e
volse coi tardi compagni
cercando
fortuna in America...
-
Non si può vivere senza
danari,
molti danari...
Considerate,
miei cari
compagni,
la vostra semenza! -
Vïaggia
vïaggia vïaggia
vïaggia
nel folle volo
vedevano
già scintillare
le
stelle dell’altro polo...
vïaggia
vïaggia vïaggia
vïaggia
per l’alto mare:
si
videro innanzi levare
un’alta
montagna selvaggia...
Non
era quel porto illusorio
ma
il monte del Purgatorio
che
trasse la nave all’in giù.
E
il mare sovra la prora
si
fu rinchiuso in eterno.
E
Ulisse piombò nell’Inferno
dove ci resta
tuttora...
Saba
20)
Nella poesia di Saba (Ulisse) è il poeta stesso che si identifica con Ulisse. Ricorda gli
isolotti pericolosamente affioranti quando da ragazzo navigava lungo le coste
dalmate: insidiosi, ma “al sole / belli come smeraldi”. Ora riconosce in quei luoghi l’autenticità
della vita: “il porto / accende ad altri i suoi lumi”, ma per sé il
poeta vuole ancora quella vita, l’unica degna di essere vissuta, quella che
richiede “non domato spirito” e che si ama “con doloroso amore”:
Nella mia
giovanezza ho navigato
lungo le coste
dalmate . Isolotti
a fior d’onda
emergevano, ove raro
un uccello sostava
intento a prede
coperti d’alghe,
scivolosi, al sole
belli come
smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte
li annullava, vele
sottovento
sbandavano più al largo,
per fuggirne
l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende
ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge
ancora il non domato spirito,
e
della vita il doloroso amore.
Joyce
21) Nel cuore del Novecento, la figura di Ulisse è rievocata dal capolavoro di Joyce.
Il titolo annuncia che quella del protagonista del romanzo (Leopold Bloom) è
una moderna Odissea, e infatti lo stesso autore aveva indicato (nel cosiddetto
“schema Linati”: una lettera del 1920 al suo primo traduttore italiano)
per i diversi capitoli riferimenti precisi ad episodi del poema omerico (Circe
per l’episodio del bordello, Proteo per il monologo interiore di Stephen
sulla spiaggia, Eolo per l’episodio di Leopold al giornale, ecc.). La
vicenda ha come ambientazione non il Mediterraneo, ma la Dublino dei
primi del Novecento e si svolge non nel tempo di dieci anni, ma
di una giornata (precisamente, il 16 giugno del 1904); ha come
protagonisti Leopold Bloom (di professione agente pubblicitario),
Stephen Dedalus (un giovane insegnante, ribelle ed
anticonformista, ossessionato dal ricordo della madre morta e della debolezza
della figura paterna), Molly (la moglie infedele di Leopold,
cantante lirica in declino). L’opera è strutturata in 18 capitoli, suddivisi in
tre sezioni:
a. la “telemachia”
(i primi tre, con al centro Stephen, che in fondo è alla ricerca del padre di
cui ha sempre sentito la mancanza),
b. la vera e propria “odissea”
(i dodici capitoli che seguono, con al centro Leopold e le sue peregrinazioni
dublinesi: più volte incrocia Stephen, finchè lo incontra in un bordello),
c. il “nòstos”
(gli ultimi tre capitoli, che appunto riguardano il ritorno a casa: nel
bordello Leopold soccorre Stephen dopo una rissa e se lo porta a casa; quindi
Stephen se ne va, Bloom si addormenta e l’ultimo episodio è dedicato al celebre
monologo interiore – vero e proprio flusso di coscienza, senza coesione
sintattica e senza punteggiatura – in cui Molly, che non riesce a prendere
sonno, rievoca il suo rapporto con il marito).
22) E dunque, in questi termini, l’Ulisse di Joyce sembra diventare una parodia
dell’Ulisse omerico: di fatto, non c’è niente di più anti-eroico di
quel personaggio, cui capitano quelle vicende (le vicende della banalità
quotidiana, dove le battaglie diventano risse da bordello) e che ha in moglie
una donna, sensuale e infedele, che può ricordare Penelope solo per
opposizione. Eppure anche questa moderna Odissea si caratterizza per avere al
centro l’esplorazione di un territorio nuovo: e sono i meandri
della psiche, ma anche le tecniche narrative (i narratori
e i tipi di focalizzazione sono molteplici: e la ricerca si spinge fino
all’estremo di registrare i fatti psichici nella forma, sconnessa e
frammentaria, dello stream of consciousness) e infine la lingua
(utilizzata in tutte le sue possibilità espressive, dal drammatico, al
satirico, all’osceno, ecc., in un straordinaria mescolanza).
Adorno-Horkheimer
23) Concludo ricordando l’interpretazione che Adorno-Horkheimer, in Dialettica
dell’illuminismo, hanno dato dell’episodio dell’incontro con le Sirene.
Il canto delle Sirene non è altro che il richiamo di un mondo diverso da quello
esistente, il mondo della soddisfazione, che si oppone a quello del
sacrificio e della rinuncia. Ma quel richiamo i marinai non lo possono
sentire, a loro è ordinato di turarsi le orecchie con la cera: piegati sui
remi, continuano a lavorare, sul loro lavoro si fondano i rapporti sociali
esistenti, è bene che non sappiano che un mondo diverso è possibile. Il
signore, Ulisse, può sentire quel canto, ma si è fatto legare all’albero
maestro: può sentirne la bellezza e la promessa di felicità, ma non può
abbandonarsi ad esso, perché vorrebbe dire perdere il proprio “sé”, annullare
la propria identità faticosamente costruita in opposizione alla natura,
perdersi nella comunione con il tutto. Quella interpretazione diventava dunque,
per i pensatori di Francoforte, metafora della situazione in cui si trova
il mondo attuale: l’enorme sviluppo tecnologico che caratterizza la nostra
società consentirebbe una vita libera, bella e giocosa per l’umanità
(consentirebbe cioè il passaggio alla cosiddetta dimensione ludico-estetica),
se non fosse che gli interessi costituiti, i detentori del potere reale,
intendono conservare a proprio vantaggio la situazione esistente, basata
sull’oppressione e sul dominio. Il canto delle Sirene indica quella dimensione
liberata, ma noi, come i marinai di Ulisse, siamo incapaci di sentirlo; e chi
lo sente, non vuole lasciarsene sedurre perché ha paura di quell’altra
dimensione in cui non valgono più identità e rapporti esistenti, tutto si
configura in modo radicalmente diverso (il modo, appunto, ludico-estetico).
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