LEOPARDI (lezioni: il pensiero 2)


Leopardi: il pensiero



Premessa

1.      Ho pensato di parlare del pensiero di Leopardi, piuttosto che della sua poesia, sia perché della sua poesia si parla già abbastanza spesso, sia perché Leopardi è stato, sì, un grande poeta, ma è stato anche un grande pensatore. Ho sentito una volta un esperto di filosofia come Massimo Cacciari dire che Leopardi è stato un gigante della filosofia europea dell’Ottocento.

2.      Il pensiero di Leopardi spazia in diversi campi, ma io vorrei soffermarmi su due aspetti: anzitutto chiarire le caratteristiche del cosiddetto pessimismo leopardiano, quindi parlare del suo pensiero politico.

3.      Di tale pensiero sono documento, com’è ovvio, le sue stesse poesie, che non sono poesie idilliache ma testimoniano passo dopo passo il progredire di una consapevolezza sempre più acuta della dolorosa condizione dell’esistenza umana; ma lo sono anche le prose delle Operette morali e lo sono soprattutto le pagine dello Zibaldone, una vera e propria miniera di riflessioni filosofiche, filologiche, poetiche, esistenziali.

4.      Lo Zibaldone è come un grande laboratorio in cui prendono corpo le idee che poi diventano materia per l’opera letteraria; raccoglie riflessioni varie dal luglio del 1817 al dicembre del 1832. Tenendo conto che Leopardi muore nel 1837, le ultime testimonianze del suo pensiero sono affidate alle ultime poesie (in particolare a quello straordinario componimento che è La ginestra) e alle opere di satira politica (i Paralipomeni della Batracomiomachia, la Palinodia al marchese Gino Capponi, la satira I nuovi credenti).

5.      Ciò che mi ha sempre colpito seguendo l’evoluzione di questo pensiero, sia che parli della natura della poesia, sia che parli della condizione umana, è una sorta di rovesciamento delle posizioni di partenza; in altre parole, Leopardi finisce per abbracciare le idee che, in una prima fase, aveva avversato.



Il “pessimismo storico”



6.      Penso che tutti abbiate memoria di quella distinzione scolastica fra “pessimismo storico” e “pessimismo cosmico”; è una distinzione proposta da Carducci che, pur nel suo schematismo, serve a mostrare il ribaltamento di cui dicevo; ed è un ribaltamento che investe specificamente le idee di “natura” e di “ragione”.

7.      Per “pessimismo storico” si intende la fase in cui Leopardi ritiene che l’infelicità sia causata dal divenire storico, dal progresso, dalla crescita della ragione, scientifica e filosofica, mentre i popoli antichi e primitivi, nelle condizioni di totale naturalità, di innocenza e di armonia con la natura, privi delle conoscenze filosofiche e scientifiche e invece ricchi di immaginazione come i fanciulli, erano sostanzialmente felici. La ragione indagatrice, nel momento in cui svela le verità scientifiche e filosofiche connesse all’esistenza, toglie anche, senza rimedio, il piacere delle illusioni, di quelli che Leopardi chiama gli “ameni inganni”, su cui si fondava la felicità primitiva.

8.      Nella evoluzione storica della società succede la stessa cosa che succede nella crescita dell’individuo, che passa dall’infanzia all’età adulta, per cui l’età primitiva è come l’età fanciulla, dominata dalla fantasia (e quindi dalla poesia) e non dalla ragione (e quindi dalla scienza), la quale invece è propria dell’età adulta, così come dell’umanità progredita. Così nel Discorso di un italiano sulla poesia romantica:

quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia…. Ora che la memoria della fanciullezza e dei pensieri e delle immaginazioni di quell’età ci sia straordinariamente cara e dilettevole nel progresso della vita nostra, non voglio nè dimostrarlo nè avvertirlo: non è uomo vivo che non lo sappia e non lo provi alla giornata…. Ecco dunque manifesta e palpabile in noi, e manifesta e palpabile a chicchessia la prepotente inclinazione al primitivo…. dal genio che tutti abbiamo alle memorie della puerizia si deve stimare quanto sia quello che tutti abbiamo alla natura invariata e primitiva, la quale è nè più nè meno quella natura che si palesa e regna ne’ putti, e le immagini fanciullesche e la fantasia che dicevamo, sono appunto le immagini e la fantasia degli antichi …” (p. 479-80, Discorso)

9.      E ancora, nelle prime pagine dello Zibaldone:

La ragione è nemica di ogni grandezza, la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola. (Voglio dire che un uomo tanto meno, o tanto più difficilmente, sarà grande, quanto più sarà dominato dalla ragione; ché pochi possono esser grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non sono dominati dalle illusioni)

10.  Sempre nello Zibaldone, Leopardi si serve della favola di Psiche (che lui associa al racconto del peccato originale nella Genesi: l’infelicità dell’umanità nasce dalla volontà di Adamo ed Eva di sapere, mangiando il frutto dell’albero della scienza del bene e del male; così, nel romanzo di Apuleio, l’infelicità di Psiche nasce dalla sua volontà di conoscere il suo amante segreto, Amore, che la visita solo di notte) per convalidare questa idea della negatività della ragione, della conoscenza del vero che soppianta l’immaginazione:

“la favola di Psiche, cioè dell'Anima, che era felicissima senza conoscere, e contentandosi di godere, e la cui infelicità provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così conveniente e preciso, e nel tempo stesso così profondo, della natura dell'uomo e delle cose, della nostra destinazione vera su questa terra, del danno del sapere, della felicità che ci conveniva, che unendo questa considerazione, al manifesto significato del nome di Psiche, appena posso discredere che quella favola non sia un parto della più profonda sapienza, e cognizione della natura dell’uomo e di questo mondo… Del resto combinando quest’osservazione col racconto della Genesi, dove l’origine immediata della infelicità e decadimento dell’uomo si attribuisce manifestamente al sapere… mi si fa verisimile che queste gran massime, l’uomo non è fatto per il sapere, la cognizione del vero è nemica della felicità, la ragione è nemica della natura… fossero non solamente note, ma proprie e quasi fondamentali dell’antica sapienza…” (10/2/21, pp. 637-638);

Dalle lunghe considerazioni da me fatte circa quello che voglia significare nella Genesi l'albero della scienza ec., dalla favola di Psiche della quale ho parlato altrove, e da altre o favole o dogmi ec. antichissimi… si può raccogliere non solo quello che generalmente si dice, che la corruzione e decadenza del genere umano da uno stato migliore, sia comprovata da una remotissima, universale, costante e continua tradizione, ma che eziandio sia comprovato da una tal tradizione e dai monumenti della più antica storia e sapienza, che questa corruttela e decadimento del genere umano da uno stato felice, sia nato dal sapere, e dal troppo conoscere, e che l'origine della sua infelicità sia stata la scienza e di se stesso e del mondo, e il troppo uso della ragione.”(luglio 23)

11.  Ed è una concezione che si ritrova anche nelle canzoni giovanili, ad esempio nella canzone Ad Angelo Mai, dove, dopo aver ricordato l’impresa di Colombo, e quindi la scoperta, oltre le mitiche colonne d’Ercole,  di terre prima sconosciute all’umanità, così continua:

Ahi, ahi! ma conosciuto il mondo
non cresce, anzi si scema, e assai piú vasto
l’etra sonante e l’alma terra e il mare
al fanciullin, che non al saggio, appare.

     Nostri sogni leggiadri ove son giti
dell’ignoto ricetto
d’ignoti abitatori, o del diurno
degli astri albergo, e del rimoto letto
della giovane Aurora, e del notturno
occulto sonno del maggior pianeta?
Ecco svaniro a un punto,
e figurato è il mondo in breve carta;
ecco, tutto è simile, e, discoprendo,
solo il nulla s’accresce. A noi ti vieta
il vero, appena è giunto,
o caro immaginar; da te s’apparta
nostra mente in eterno; allo stupendo
poter tuo primo ne sottraggon gli anni;
e il conforto perí de’ nostri affanni.

Il “pessimismo cosmico”

12.  Il passaggio al cosiddetto “pessimismo cosmico” non è così netto,  ma certo non si sbaglia individuando nelle Operette morali il luogo e il tempo (attorno al ’24) in cui la nuova concezione è messa a punto.

13.  In operette come il Dialogo della natura e un islandese o il Cantico del gallo silvestre emerge con chiarezza l’idea di una natura non benevola nei confronti delle sue creature, ma indifferente al loro dolore, e quindi “madre di parto, e di voler matrigna(così nella Ginestra, peraltro unico luogo in cui si trova l’appellativo di “matrigna”). 

14.  E’ un islandese che vuol sapere dalla natura il senso della infelicità umana. L’islandese si è messo a viaggiare per il mondo, credendo che la causa della sua infelicità fosse il fatto di risiedere in una terra inospitale quale l’Islanda, una terra particolarmente sfavorita dalla natura. Ma viaggiando si è reso conto che sofferenza e infelicità sono ovunque, quindi ne chiede ragione alla Natura, che lui incontra nell’interno dell’Africa, in figura di una donna gigantesca “seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna”. Interrogata dall’Islandese, la Natura si dichiara indifferente alla sorte delle sue creature, bada solo alla conservazione della totalità dell’universo mondo, attraverso un “perpetuo ciclo di produzione e distruzione”:



Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie… sempre ebbi ed ho l'intenzione a tutt'altro che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n'avveggo…: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.



15.   Ma l’Islandese insiste, pone la questione in altri termini, si serve di un esempio:



Ponghiamo caso che uno m'invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande instanza; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d'intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da' suoi figliuoli e dall'altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de' tuoi sollazzi, e di farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t'ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l'abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura.



16.  La risposta della Natura a questo punto, più che con parole è data con i fatti. Ecco la conclusione dell’operetta, una conclusione terribile, anche se esposta con sorridente leggerezza:



Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall'inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell'Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l'Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa.



17.  Dunque se così è, se “quel che è distrutto patisce, e quel che distrugge non gode”, si tratta di una “vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono”. Non c’è possibilità di felicità, in nessuna condizione, civilizzata o naturale, antica o moderna, umana, animale o vegetale. Così si rivolge al sole il gallo silvestre

Vedi tu di presente o vedesti mai la felicità dentro ai confini del mondo? In qual campo soggiorna, in qual bosco, in qual montagna, in qual valle, in qual paese abitato o deserto, in qual pianeta dei tanti che le tue fiamme illustrano e scaldano? Forse si nasconde dal tuo cospetto, e siede nell’imo delle spelonche, o nel profondo della terra e del mare? Qual cosa animata ne partecipa, qual pianta o che altro che tu vivifichi, qual creatura provveduta o sfornita di virtù vegetative o animali? 

18.  Ma ricordate anche il finale del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, laddove il pastore, che dichiara di sentirsi sempre insoddisfatto, assalito dal tedio, si rivolge al gregge che gli pare, invece, capace di sentirsi appagato:



O greggia mia che posi, oh te beata,

Che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perchè d'affanno

Quasi libera vai;

Ch'ogni stento, ogni danno,

Ogni estremo timor subito scordi;

Ma più perchè giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,

Tu se' queta e contenta;

E gran parte dell'anno

Senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,

E un fastidio m'ingombra

La mente, ed uno spron quasi mi punge

Sì che, sedendo, più che mai son lunge

Da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

E non ho fino a qui cagion di pianto.

Quel che tu goda o quanto,

Non so già dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.

Se tu parlar sapessi, io chiederei:

Dimmi: perchè giacendo

A bell'agio, ozioso,

S'appaga ogni animale;

Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?



Forse s'avess'io l'ale

Da volar su le nubi,

E noverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,

Più felice sarei, dolce mia greggia,

Più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:

Forse in qual forma, in quale

Stato che sia, dentro covile o cuna,

E' funesto a chi nasce il dì natale.



La noia



19.  Queste considerazioni sull’insoddisfazione, sul tedio, sulla noia del vivere a prescindere da occasioni specifiche di sofferenza, si ritrovano in un altro scritto di Leopardi, in un pensiero specifico sulla noia, con il conseguente corollario, che l’animo infinito sarebbe soddisfatto solo abbracciando l’infinito universo, un corollario presente anche nel Canto notturno, laddove il poeta dice che vorrebbe “volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo”



La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani… Il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali. (dai Pensieri, LXVIII)



20.  Qualcosa di simile si trova anche in Schopenhauer:



Il desiderio è, per sua natura, dolore: il conseguimento genera tosto sazietà: la meta era solo apparente: il possesso disperde l’attrazione: in nuova forma si ripresenta il desiderio, il dolore: altrimenti, segue monotonia, vuoto, noia, contro cui è battaglia altrettanto tormentosa quanto contro il bisogno. (da Il mondo come volontà e rappresentazione)



La teoria del piacere



21.  Sono considerazioni che ci mettono di fronte ad un’altra argomentazione, decisiva per la convinzione di Leopardi che l’infelicità sia un dato insopprimibile di natura, sia connaturata all’esistenza.  

22.  Mi pare che tale argomentazione si debba individuare nella elaborazione della teoria del piacere, iniziata nel luglio del 20 e più volte ripresa successivamente (Zibaldone: 12/2/21, 2/5/22). Il ragionamento è semplice e stringente nella sua logica: esistere comporta “amor proprio” e della propria conservazione; l’amor proprio, che è senza limite, implica a sua volta il desiderio, per sé, del piacere; tale desiderio del piacere, adeguato ad un amor proprio senza limite, non riesce ad essere colmato da nessun piacere particolare, e quindi (per quanto possa essere, occasionalmente, “ingannato”, “mitigato”, “addormentato”) resta in stato di perenne tensione insoddisfatta; se ne conclude che l’insoddisfazione, ovvero l’infelicità, è congenita all’esistenza e non ha termine se non con il termine dell’esistenza. L’infelicità è quindi opera di una natura che, al fondo, non è benigna verso le sue creature, siano esse uomini civilizzati o uomini primitivi; di più: siano uomini o animali o piante: tutto ciò che esiste, sarà questa la conclusione, è in condizioni di sofferenza. Sono affermazioni che si possono ritrovare più volte nello Zibaldone:

La felicità è impossibile a chi la desidera, perché il desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente... Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter essere soddisfatto. Ora questo desiderio è conseguenza necessaria, anzi si può dir tutt’uno coll’amor proprio. E questo amore è conseguenza necessaria della vita... Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi si ama, e quindi desidera assolutamente la felicità, vale a dire una felicità senza limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio suo non può essere soddisfatto), per ciò stesso, dico, che vive, non può essere attualmente felice.” (648, 12/2/21)

“Dove non v’ha piacere, quivi ha patimento, perché v’ha desiderio non soddisfatto di piacere, e il desiderio non soddisfatto è pena. Né v’ha stato intermedio, come si crede, tra il soffrire e il godere; perché il vivente desiderando sempre per necessità di natura il piacere, e desiderando perciò appunto ch’ei vive, quando e’ non gode, ei soffre.... Né altrimenti ei può cessare o intermettere di soffrire, che o cessando veramente di vivere, o non sentendo la vita, ch’ è quasi come intermetterla, e lasciare per un certo intervallo di essere vivente. In questi soli casi il vivente può non soffrire. Vivendo e sentendo di vivere, ei nol può mai; e ciò per propria essenza sua e della vita, e perciò appunto ch’egli è vivente, ed in quanto egli è tale...(3551-52, 29/9/23).” 

23.  Ed è una condizione che riguarda non solo l’uomo, ma, secondo una certa gradazione, ogni essere vivente:

“Una specie di viventi rispetto all’altra o all’altre generalm. ec. è tanto più felice, cioè tanto meno infelice, tanto più scarsa d’infelicità positiva, quanto meno dell’altra ella sente l’esistenza, cioè quanto men vive e più s’accosta ai generi non animali. (Dunque la specie de’ polipi, zoofiti ec. è la più felice delle viventi)”. (3848, 7/11/23)  

“... resta che non solo gli uomini e gli animali, ma niun essere vi sia, che possa essere né sia felice, che la felicità... sia di sua natura impossibile, e che l’universo sia di propria natura incapace della felicità, la quale viene ad essere un ente di ragione e una pura immaginazione degli uomini. E siccome d’altronde l’assenza della felicità negli esseri amanti se med. importa infelicità, segue che la vita, ossia il sentimento di questa esistenza divisa fra tutti gli esseri dell’universo, sia di natura sua, e per virtù dell’ordine eterno e del modo di essere delle cose, inseparabile e quasi tutt’uno colla infelicità e importante infelicità, onde vivente e infelice sieno quasi sinonimi.” (4137, 3/5/25)    

“Riconosciuta la impossibilità tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente... riconosciuto che l’infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro né deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gli individui animali meno sensibili, men vivi per natura loro, hanno il minor grado possibile di tal sentimento.”  (4186, 13/7/26)

24.  L’idea che la sofferenza degli esseri viventi sia proporzionale alla capacità di sentire la vita, e sia quindi più intensa nelle forme di vita superiori, è un’idea che si ritrova anche in Schopenhauer, con il conseguente corollario che fra gli individui umani la sofferenza sia proporzionale allo sviluppo dell’intelligenza:



Così Leopardi: “Dunque il più stupido degli uomini è di questi il più felice” (Zib., 3848); “Gli stati d’animo meno sviluppato, e quindi di minor vita dell’animo, sono i meno sensibili, e quindi i meno infelici degli stati umani.” (Zib., 4186). E così Schopenhauer: “La più elevata forza intellettuale fa proprio costoro [i più intelligenti] capaci di ben maggiori sofferenze, di quante non possano mai sentire i più ottusi..” (Die Welt..., op. cit., p. 414).



25.   Che sia una verità valida non solo per i viventi “senzienti”, come uomini e animali (verità poeticamente ribadita, abbiamo visto, nella chiusa del Canto notturno) ma anche per i viventi di vita vegetativa, lo si vede soprattutto nel passo famoso dello Zibaldone in cui viene rovesciato il topos del locus amoenus:

Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi. Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell'anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell'altro ha più foglie secche; quest'altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta… Intanto tu strazi le erbe co' tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi.… Certamente queste piante vivono; alcune perchè le loro infermità non sono mortali, altre perchè ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all'entrare in questo giardino ci rallegra l'anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l'essere. (4175-77, 22/4/26)

La sapienza silenica

26.  Alla fine di questo ragionamento ci attende inevitabile la cosiddetta “sapienza silenica”, ovvero la risposta del Sileno al re Mida che gli chiedeva il segreto della felicità. Sileno era il precettore di Dioniso e, secondo il mito, era il possessore di una grande saggezza. Per questo, come racconta Nietzsche nella Nascita della tragedia, il re Mida lo voleva catturare:



L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine fra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo tra stridule risa in queste parole: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non  essere, essere  niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è - morire presto”.



27.  Nietzsche intende svelare, attraverso il mito del Sileno, l’inquietante verità che corrode dall’interno la composta armonia del mondo greco. Il cosiddetto “pessimismo greco” trova qui la sua espressione più chiara e radicale: a fronte di tante altre occasioni in cui gli autori greci si lasciano andare a considerazioni sconsolate sulla miseria e la precarietà della condizione umana, le parole del Sileno sembrano fondare una sorta di metafisica dell’infelicità: l’infelicità è nel principio, è costitutiva dell’essere. Ed è una concezione che ritorna più volte negli autori greci, nei lirici, nei tragici, anche negli storici. Leopardi (ma qualcosa di simile si potrebbe dire anche per Schopenhauer) sembra ereditarla:



se questi esseri sentono, o vogliamo dire, sentissero (si riferisce agli esseri viventi di vita vegetativa), certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l'essere.

Desiderare la vita, in qualunque caso, e in tutta l’estensione di questo desiderio, non è insomma altro che desiderare l’infelicità; desiderare di vivere è quanto desiderare di essere infelice.  (829-30, 20/3/21)

28.  Ed è un’eredità di cui Leopardi è consapevole. Così si esprime Tristano nel Dialogo di Tristano ed un amico:



Ma poi, ripensando, mi ricordai ch’ella [la mia filosofia dolorosa, ma vera] era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni, pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l’uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e, per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare.

  1. Il riferimento a Salomone è un riferimento all’Antico Testamento, giacchè anche lì si trovano i segni della sapienza silenica: laddove Giobbe maledice il giorno in cui nella casa di suo padre si annunciò che era nato un figlio, e ancora, laddove l’Ecclesiaste esprime la propria disperazione con parole che, per il riferimento caratterizzante al “non essere nato”,  ricordano proprio quelle del Sileno:

E proclamai i morti più beati dei vivi,

e più felici d’entrambi chi non è nato ancora



Contro il suicidio

30.  Se poi qualcuno si chiedesse quale fosse, a questo punto, il pensiero di Leopardi sul suicidio, troverebbe la risposta in una delle Operette morali, il Dialogo di Plotino e Porfirio, laddove Porfirio argomenta in maniera stringente a favore del suicidio come unica scelta per sottrarsi al dolore di vivere, ma infine è convinto a desistere dall’ultima obiezione di Plotino:



Sia ragionevole l'uccidersi; sia contro ragione l'accomodar l'animo alla vita: certamente quello è un atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo. E perché anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta, e per l'atrocità del caso?.... Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl'intrinsechi, dei compagni; o non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici; è di non curante d'altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo.

(…) Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin qui è durata l'amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l'anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce. Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che così, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Si bene attendiamo a tenerci compagnia l'un l'altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita.



31.  E con questa idea, che il senso della vita consista nella solidarietà fra uomini che si sostengono a vicenda nella comune lotta contro il male di vivere, siamo all’ultimo canto, La ginestra. Ma poiché questo canto ha anche un significato politico, sarà bene, prima di affrontarlo, fare un breve excursus sull’atteggiamento politico di Leopardi nel contesto storico del suo tempo.



Il pensiero politico: dalle canzoni giovanili ai moti del 1831



32.  Le canzoni giovanili, fra il 1818 e il 1820 (famosa quella All’Italia), sono ispirate da un forte sentimento patriottico. Sono gli anni successivi alla rivoluzione francese e alle imprese napoleoniche, sono gli anni della restaurazione. Leopardi lamenta la decadenza dell’Italia dall’antica grandezza, invoca il ritorno dell’antica virtù nel cuore degli italiani. Ma si ha sempre l’impressione di componimenti letterari, frutto di suggestioni letterarie, come se il giovane Leopardi avesse in mente la canzone All’Italia di Petrarca o anche, a me sembra, il carme Dei sepolcri di Foscolo.

33.  Seguono gli anni dei moti risorgimentali. Nel 1831 scoppiano i moti nei territori dello Stato della Chiesa. Il comitato del governo provvisorio di Recanati chiede a Leopardi (che in quegli anni si trova a Firenze) di essere il loro rappresentante all’assemblea di Bologna, che ha dichiarato decaduto il governo temporale dei papi e ha l’incarico di redigere la nuova costituzione. Leopardi declina l’invito. E’ vero che a Bologna erano già intervenuti gli austriaci e quindi l’assemblea era stata sciolta (e infatti Leopardi adduce questa ragione per rifiutare l’incarico), ma è anche vero che lo sviluppo del suo pensiero aveva portato Leopardi ad essere scettico nei confronti delle lotte risorgimentali e a trovarsi in forte contrasto con gli amici di Firenze, amici di ispirazione cattolico-liberale (Colletta, Capponi, Tommaseo) che invece quelle lotte sostenevano.



Il pensiero politico: l’errore di De Sanctis



34.  De Sanctis, patriota del Risorgimento, grande critico letterario e poi ministro della pubblica istruzione nel neonato regno d’Italia, aveva per primo notato, in un famoso saggio, l’affinità di pensiero fra Leopardi e Schopenhauer; ma poi aveva concluso che, mentre quel pensiero aveva portato Schopenhauer, al tempo delle insurrezioni del 1848, a posizioni politiche fortemente reazionarie, Leopardi invece, se fosse vissuto fino al ’48 “sarebbe stato con noi sulle barricate” (per inciso, nel film di Luchetti Il portaborse, Silvio Orlando, che è un insegnante liceale, in una scena in cui parla di Leopardi ai suoi studenti, attribuisce erroneamente a Binni la suddetta frase).

35.  Ma in sostanza io credo che su questo De Sanctis si sbagliasse. Se si leggono non solo le opere di satira politica, ma anche certe considerazioni che Leopardi fa nelle lettere, si vede come i rapporti con cosiddetti “amici di Firenze” si andassero sempre più deteriorando, proprio a causa del pessimismo leopardiano che si riversava anche sul suo pensiero politico.

Scrive in una lettera del 5-12-1831 alla Targioni Tozzetti: "Sapete ch’io abbomino la politica, perché credo, anzi vedo che gli individui sono infelici sotto ogni forma di governo; colpa della natura che ha fatti gli uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice, composta d’individui non felici." Ma si veda anche la lettera al Giordani del 24-7-1828: "...considerando l’inutilità quasi perfetta degli studi fatti dalla età di Solone in poi per ottenere la perfezione degli stati civili e la felicità dei popoli, mi viene un poco da ridere di questo furore di calcoli ed arzigogoli politici e legislativi... Io tengo - e non a caso - che la società umana abbia principii ingeniti e necessari d’imperfezione, e che i suoi stati sieno cattivi più o meno, ma nessuno possa essere buono."


Il pensiero politico: i Paralipomeni e I nuovi credenti in polemica con i cattolico-liberali di Firenze e di Napoli


36.  Il poemetto eroicomico Paralipomeni della Batracomiomachia, scritto nel 1831, mette in campo una guerra fra topi (che rappresentano i liberali) rane (sono i reazionari) e granchi (rappresentano gli austriaci) ed è una satira feroce dei moti del 20-21 e del 30-31. Scontata l’ottusità di rane e granchi (questi ultimi sono "birri… d’Europa e boia" in virtù della loro "crosta" durissima e dell’"esser senza né cervel né fronte"), oggetto della satira sono i topi (per il loro settarismo e per la loro presunzione di poter cambiare la sostanza profonda delle cose - l’infelicità umana - con un altro travestimento del potere: la monarchia costituzionale).

37.  Del 1835 è la satira I nuovi credenti, in cui sono presi di mira i progressisti napoletani, ritenuti degli opportunisti, più interessati ai maccheroni che agli ideali  (S’arma Napoli a gara alla difesa / de’ maccheroni suoi; ch’ai maccheroni / anteposto il morir, troppo le pesa). E ancora: Voi prodi e forti, a cui la vita è cara, / a cui grava il morir; noi femminette, / cui la morte è in desio, la vita amara.



Il pensiero politico: la visione profetica della Palinodia



38.  Ma le opere in cui più pienamente si dispiega il pensiero politico di Leopardi sono la Palinodia al marchese Gino Capponi e infine la Ginestra.

39.  Nella Palinodia (è della primavera del 1835: significa ritrattazione, e infatti il poeta finge di ritrattare le sue idee pessimiste e di condividere l’ottimismo progressista) Leopardi salta le tipiche problematiche ottocentesche, relative all’indipendenza e all’unità nazionale. Leopardi ha la vista lunga, non si lascia sedurre dall’ottimismo per le invenzioni della tecnica (macchina a vapore, mongolfiera, telegrafo, ferrovie) e per il conseguente sviluppo industriale; Leopardi è profetico, anticipa il Novecento, si rende conto che dominante è la logica del profitto e vede addirittura la minaccia di guerre mondiali per la conquista dei mercati; ecco cosa dice, dopo aver immaginato ironicamente il prossimo avvento di una nuova età dell’oro:



Ben molte volte

argento ed òr disprezzerá, contenta

a pólizze di cambio. E giá dal caro

sangue de’ suoi non asterrá la mano

la generosa stirpe: anzi coverte

fien di stragi l’Europa e l’altra riva

dell’atlantico mar, fresca nutrice

di pura civiltá, sempre che spinga

contrarie in campo le fraterne schiere

di pepe o di cannella o d’altro aroma

fatal cagione, o di melate canne,

o cagion qual si sia ch’ad auro torni.



40.  Qui si parla di spezie e di canna da zucchero, ma si dice anchecagion qual si sia ch’ad auro torni”, quale che sia la causa, la merce, che renda oro, che faccia arricchire. Dunque oggi, nel primo Ottocento di Leopardi, le spezie, domani, nel Novecento, il petrolio o l’uranio o chissà che altro.

41.  Il discorso continua: sotto ogni regime, monarchico o repubblicano, oligarchico o democratico, varrà sempre la legge del più forte, l’avidità provocherà guerre e ingiustizie; per le generazioni future ci sarà un aumento dei beni di consumo, ma anche una enorme diffusione delle “gazzette”, ovvero dei giornali, che tenderanno a diventare l’unica fonte di sapere.



(….) a milioni

impresse in un secondo, il piano e il poggio,

e credo anco del mar gl'immensi tratti,

(……..)

copriran le gazzette, anima e vita

dell'universo, e di savere a questa

ed alle età venture unica fonte!



42.  Leopardi insomma si rende conto della potenza di quelli che oggi chiamiamo mass-media, comprendendo anche radio e televisione, e avverte il rischio che questo comporti un ottundimento dell’intelligenza, una perdita dello spirito critico.

43.  Naturalmente sono idee non condivise dagli “amici di Firenze”, che non vanno tanto per il sottile quando parlano di Leopardi. Ecco qualche documento:

Capponi, a cui la Palinodia era indirizzata, in una lettera a Viesseux: “Quel maledetto gobbo s’è messo in capo di coglionarmi”. Colletta a Capponi: "Ho riletto parecchi dei componimenti antichi, qualcuno dei nuovi; e ti dico all’orecchio che niente mi è piaciuto. La medesima, eterna, ormai non sopportabile, melanconia; gli stessi argomenti; nessuna idea, nessun concetto nuovo; tristezza affettata e qualche secentismo". Tommaseo, sempre critico nei confronti di L., arrivava a dire, in una lettera a Capponi, di avergli dedicato simili versi: "Natura con un pugno lo sgobbò / 'Canta', gli disse irata; ed ei cantò". "Il povero L. aveva scusa nell’esser gobbo; ma non è forse una piccolezza il non saper viver gobbi?" : così commentava Capponi post mortem, incolpando, fra l’altro, Giordani di una sorta di subornazione d’incapace.


Il pensiero politico: la valorizzazione della ragione ne La ginestra



44.  Ed ora La ginestra, canto straordinario, non solo perché innovativo nello stile, in quanto tutto ragionato, filosofico, con poche concessioni alle seduzioni dell’immaginazione, ma anche perché si porta a compimento quel rovesciamento del rapporto fra natura e ragione di cui parlavo all’inizio e si chiarisce definitivamente il pensiero politico di Leopardi, anzi, rispetto alla precedente totale chiusura, sembra aprirsi uno spiraglio nuovo, si intravede un senso dell’azione umana nella storia.

45.  Due parole sul senso complessivo della poesia. Anzitutto l’epigrafe, tratta dal vangelo di Giovanni, con cui si apre: kai egàpesan oi ànthropoi mallon to skotos e to phos, e gli uomini preferirono le tenebre alla luce. In Giovanni significa che gli uomini preferiscono le tenebre del peccato alla luce della salvezza, ma qui il significato è di stampo chiaramente illuminista: gli uomini preferiscono le tenebre dell’ignoranza perché hanno paura di guardare la verità alla luce della ragione. Leopardi è esplicitamente polemico nei confronti dei fideismi sia di tipo religioso che di tipo laico, e, di fronte al ritorno dello spiritualismo nell’età romantica, si richiama alla precedente età dell’illuminismo, rivendicando il valore imprescindibile dell’analisi razionale della realtà.  

46.  La ginestra è “il fiore del deserto”, cresce sull’“arida schiena” del Vesuvio, dunque in un terreno ostile, ricoperto dalla lava, memoria perenne della potenza distruttiva del vulcano. A tale potenza distruttiva la ginestra, col suo colore vivo e col suo profumo, sembra opporre resistenza, proprio perché umile, proprio perché consapevole della propria debolezza e del destino che l’attende alla prossima eruzione. La ginestra è il simbolo di chi guarda in faccia con coraggio la verità della condizione umana e non si fa illusioni consolatorie né di tipo religioso né di tipo laico-progressista. Sentite questi versi:



(…) A queste piagge

venga colui che d'esaltar con lode

il nostro stato ha in uso, e vegga quanto

è il gener nostro in cura

all'amante natura. E la possanza

qui con giusta misura

anco estimar potrà dell'uman seme,

cui la dura nutrice, ov'ei men teme,

con lieve moto in un momento annulla

in parte, e può con moti

poco men lievi ancor subitamente

annichilare in tutto.

Dipinte in queste rive

son dell'umana gente

le magnifiche sorti e progressive.



47.  Le magnifiche sorti e progressive” è in corsivo nel testo, perché si tratta di una citazione tratta da uno scritto di un suo cugino, il pesarese Terenzio Mamiani, e sono parole che Leopardi riporta con ironia, come è ben chiaro dal testo.



Il pensiero politico: la poesia “stellare” de La ginestra



48.  Più oltre c’è una strofa bellissima, laddove il poeta dice che a volte si siede di notte su questo terreno indurito dalla lava e guarda il cielo stellato. Guarda le costellazioni lontane anni luce, guarda quei “nodi di stelle” che sembrano nebbia, e quindi rovescia lo sguardo, immagina di guardare la terra da quelle lontananze infinite e capisce quanto insignificante sia il nostro pianeta, un granello di polvere nell’universo e quindi quanto risibile sia la presunzione dell’uomo che si ritiene (ora come nelle età antiche) privilegiato dalla divinità:



Sovente in queste rive,

che, desolate, a bruno

veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

seggo la notte; e sulla mesta landa

in purissimo azzurro

veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,

cui di lontan fa specchio

il mare, e tutto di scintille in giro

per lo vòto seren brillar il mondo.

E poi che gli occhi a quelle luci appunto,

ch'a lor sembrano un punto,

e sono immense, in guisa

che un punto a petto a lor son terra e mare

veracemente; a cui

l'uomo non pur, ma questo

globo ove l'uomo è nulla,

sconosciuto è del tutto; e quando miro

quegli ancor più senz'alcun fin remoti

nodi quasi di stelle,

ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo

e non la terra sol, ma tutte in uno,

del numero infinite e della mole,

con l'aureo sole insiem, le nostre stelle

o sono ignote, o così paion come

essi alla terra, un punto

di luce nebulosa; al pensier mio

che sembri allora, o prole

dell'uomo? E rimembrando

il tuo stato quaggiù, di cui fa segno

il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,

che te signora e fine

credi tu data al Tutto, e quante volte

favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

per tua cagion, dell'universe cose

scender gli autori, e conversar sovente

co' tuoi piacevolmente, e che i derisi

sogni rinnovellando, ai saggi insulta

fin la presente età, che in conoscenza

ed in civil costume

sembra tutte avanzar; qual moto allora,

mortal prole infelice, o qual pensiero

verso te finalmente il cor m'assale?

Non so se il riso o la pietà prevale.



49.  L’uomo che immagina che gli autori “dell’universe cose” scendano su questo granello di sabbia a conversare con lui è senz’altro l’uomo pagano; ma come non vedere anche un riferimento all’uomo cristiano che ha concepito ugualmente un dio che si fa uomo e che su questo granello di sabbia conversa con gli altri uomini?



Il pensiero politico: la nuova apertura de La ginestra



50.  Ma ora, ecco l’aspetto politico, la riflessione sul senso dell’azione umana almeno per ridurre, se non per eliminare, la condizione di infelicità, il male di vivere. Ed è un discorso che si riallaccia a quanto diceva Plotino a Porfirio, nell’operetta morale prima citata: uniamoci, amico mio, e sosteniamoci a vicenda in questa comune lotta contro la natura avversa. Qui Leopardi dice che solo a partire dalla consapevolezza della fragilità della condizione umana, senza stupidi orgogli e presunzioni, si può progettare una società migliore; solo capendo che gli uomini devono essere uniti, essere “confederati”, al di là di ogni differenza di nazionalità, di classe, di religione, contro il comune nemico che è la natura; capendo che attribuire ad altri uomini la colpa della propria infelicità e quindi combatterli – come è sempre successo nella storia – è come se, in un accampamento assediato dal nemico, gli assediati si mettessero a combattersi a vicenda:



Nobil natura è quella

che a sollevar s'ardisce

gli occhi mortali incontra

al comun fato, e che con franca lingua,

nulla al ver detraendo,

confessa il mal che ci fu dato in sorte,

e il basso stato e frale;

quella che grande e forte

mostra se nel soffrir, nè gli odii e l'ire

fraterne, ancor più gravi

d'ogni altro danno, accresce

alle miserie sue, l'uomo incolpando

del suo dolor, ma dà la colpa a quella

che veramente è rea, che de' mortali

madre è di parto e di voler matrigna.

Costei chiama inimica; e incontro a questa

congiunta esser pensando,

siccome è il vero, ed ordinata in pria

l'umana compagnia,

tutti fra se confederati estima

gli uomini, e tutti abbraccia

con vero amor, porgendo

valida e pronta ed aspettando aita

negli alterni perigli e nelle angosce

della guerra comune. Ed alle offese

dell'uomo armar la destra, e laccio porre

al vicino ed inciampo,

stolto crede così, qual fora in campo

cinto d'oste contraria, in sul più vivo

incalzar degli assalti,

gl'inimici obbliando, acerbe gare

imprender con gli amici,

e sparger fuga e fulminar col brando

infra i propri guerrieri.

Così fatti pensieri

quando fien, come fur, palesi al volgo,

e quell'orror che primo

contra l'empia natura

strinse i mortali in social catena,

fia ricondotto in parte

da verace saper, l'onesto e il retto

conversar cittadino,

e giustizia e pietade, altra radice

avranno allor che non superbe fole,

ove fondata probità del volgo

così star suole in piede

quale star può quel ch'ha in error la sede.



51.  Solo il “verace sapere” può essere la radice di una società migliore, fondata su onestà e giustizia (questo si intende quando si parla di “onesto e retto conversar cittadino, e giustizia e pietade”), non le “superbe fole”, ovvero la illusoria e sciocca presunzione che per l’uomo ci sia un destino di felicità, in questo o nell’altro mondo.

52.  L’idea di una impossibile redenzione, espressa in termini netti nella Palinodia ("Sempre... sempre..."), subisce ne La ginestra un cambiamento radicale, perché l’umanità cosciente si ribella e concepisce un grandioso progetto contro la natura.

53.  Certo, più che di un progetto in positivo, si tratta di un progetto di resistenza al male: ma lucido e disilluso, perché non fondato su vane "fole", ma sulla consapevolezza che dimostra Tristano nell’ultima delle Operette morali:



...calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione ed ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera.



54.  E’ perciò un progetto intrinsecamente "progressivo", perché "finché l’uomo è certo che esiste il male e lo chiama col suo nome, il male ha trovato una soglia dove arrestarsi".



L’ultima osservazione



55.  Ma io voglio fare un’ulteriore osservazione. E’ vero, che cosa voglia dire in positivo, cioè in concreto, la lotta contro la natura avversa da parte degli uomini confederati, Leopardi non lo dice esplicitamente, ma, a mio parere, lo si deduce facilmente da ciò che è scritto nello Zibaldone, nella Palinodia, nella stessa Ginestra: vuol dire impiegare le risorse economiche e le energie intellettuali non per perfezionare gli armamenti, ma per, ad esempio, bonificare i deserti, combattere la fame nel mondo, contrastare i terremoti, curare le malattie mortali. Certo, tutto ciò, secondo il pensiero di Leopardi, non può eliminare l’infelicità che è connaturata, abbiamo visto, allo stesso vivere, ma è l’unico senso giusto che uomini consapevoli possono dare alla propria vita.






Appendice



Così Leopardi si ribella al pregiudizio (diffuso peraltro anche presso i contemporanei) secondo cui sarebbero le sue personali disgrazie fisiche a determinare quel pensiero radicalmente negativo:



“Quali che siano le mie sventure, che si è creduto giusto sbandierare e forse un po’ esagerare, io ho avuto abbastanza coraggio per non cercare di diminuirne il peso, né con frivole speranze di una pretesa felicità futura e sconosciuta, né con una vile rassegnazione…. E’ stato proprio per questo coraggio che, essendo stato condotto dalle mie vicende ad una filosofia disperata, non ho esitato ad abbracciarla tutta intera; mentre, d’altro canto, è stato solo a causa della debolezza degli uomini, che hanno bisogno d’essere persuasi del valore dell’esistenza, che si è voluto considerare le mie opinioni filosofiche come il risultato delle mie personali sofferenze e che ci si ostina ad attribuire alle mie circostanze materiali, ciò che si deve soltanto al mio intelletto. Prima di morire, io voglio protestare contro questa invenzione della debolezza e della volgarità, e pregare i miei lettori di cercare di demolire le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che accusare i miei malanni.” (dalla lettera al De Sinner del 24/5/1832, in francese nell’originale)



Carlo Michelstaedter, per spiegare lo stato di perenne aspirazione insoddisfatta (propria dell’esistere, secondo Leopardi), sviluppa, con grande efficacia, un esempio tratto da Schopenhauer (Il mondo come volontà e rappresentazione, Bari 1984, p. 176 e 408): quello del peso che, in quanto tale, ha sempre “fame” del punto più basso; e quando non l’avesse più, non sarebbe quello che è, cioè un peso:

“Un peso pende ad un gancio, e per pender soffre che non può scendere: non può uscire dal gancio, poiché quant’è peso pende e quanto pende dipende. Lo vogliamo soddisfare: lo liberiamo dalla sua dipendenza; lo lasciamo andare, che sazi la sua fame del più basso, e scenda indipendente fino a che sia contento di scendere. Ma in nessun punto raggiunto fermarsi lo accontenta e vuol pur scendere, ché il prossimo punto supera in bassezza quello che esso ogni volta tenga. E nessuno dei punti futuri sarà tale da accontentarlo, che necessario sarà alla sua vita, fintanto che lo aspetti, un punto più basso; ma ogni volta fatto presente, ogni punto gli sarà fatto vuoto di ogni attrattiva non più essendo più basso; così che in ogni punto esso manca dei punti più bassi e vieppiù questi lo attraggono: sempre lo tiene un’ugual fame del più basso, e infinita gli resta pur sempre la volontà di scendere. Che se in un punto gli fosse finita e in un punto potesse possedere l’infinito scendere dell’infinito futuro – in quel punto esso non sarebbe più quello che è: un peso. La sua vita è questa mancanza della sua vita. Quando esso non mancasse più di niente – ma fosse finito, perfetto: possedesse se stesso, esso avrebbe finito di esistere.” (da C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Milano 1982, pp. 39-40)








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