Leopardi: il pensiero
Premessa
1.
Ho pensato di
parlare del pensiero di Leopardi, piuttosto che della sua poesia, sia perché
della sua poesia si parla già abbastanza spesso, sia perché Leopardi è stato,
sì, un grande poeta, ma è stato anche un grande pensatore. Ho sentito una volta
un esperto di filosofia come Massimo
Cacciari dire che Leopardi è stato
un gigante della filosofia europea dell’Ottocento.
2.
Il pensiero di
Leopardi spazia in diversi campi, ma io vorrei soffermarmi su due aspetti:
anzitutto chiarire le caratteristiche del cosiddetto pessimismo leopardiano, quindi parlare del suo pensiero politico.
3.
Di tale pensiero
sono documento, com’è ovvio, le sue stesse poesie, che non sono poesie idilliache ma testimoniano passo dopo passo il
progredire di una consapevolezza sempre
più acuta della dolorosa condizione dell’esistenza umana; ma lo sono anche
le prose delle Operette morali e lo
sono soprattutto le pagine dello Zibaldone, una vera e propria
miniera di riflessioni filosofiche, filologiche, poetiche, esistenziali.
4.
Lo Zibaldone
è come un grande laboratorio in cui prendono corpo le idee che poi diventano
materia per l’opera letteraria; raccoglie riflessioni varie dal luglio del 1817
al dicembre del 1832. Tenendo conto che Leopardi muore nel 1837, le ultime testimonianze del suo pensiero
sono affidate alle ultime poesie (in particolare a quello straordinario
componimento che è La ginestra) e alle opere di satira politica (i Paralipomeni della Batracomiomachia, la Palinodia al marchese Gino Capponi, la
satira I nuovi credenti).
5.
Ciò che mi ha
sempre colpito seguendo l’evoluzione di questo pensiero, sia che parli della
natura della poesia, sia che parli della condizione umana, è una sorta di rovesciamento delle posizioni di partenza;
in altre parole, Leopardi finisce per abbracciare le idee che, in una prima
fase, aveva avversato.
Il
“pessimismo storico”
6.
Penso che tutti
abbiate memoria di quella distinzione scolastica fra “pessimismo storico” e “pessimismo
cosmico”; è una distinzione proposta da Carducci che, pur nel suo
schematismo, serve a mostrare il ribaltamento di cui dicevo; ed è un
ribaltamento che investe specificamente le idee di “natura” e di “ragione”.
7.
Per “pessimismo storico” si intende la fase
in cui Leopardi ritiene che l’infelicità
sia causata dal divenire storico, dal progresso, dalla crescita della ragione,
scientifica e filosofica, mentre i popoli antichi e primitivi, nelle
condizioni di totale naturalità, di innocenza e di armonia con la natura, privi delle conoscenze filosofiche e
scientifiche e invece ricchi di immaginazione come i fanciulli, erano
sostanzialmente felici. La ragione indagatrice, nel momento in
cui svela le verità scientifiche e filosofiche connesse all’esistenza, toglie
anche, senza rimedio, il piacere delle illusioni, di quelli che Leopardi chiama
gli “ameni inganni”, su cui si
fondava la felicità primitiva.
8.
Nella evoluzione storica della società
succede la stessa cosa che succede nella crescita dell’individuo, che passa dall’infanzia
all’età adulta, per cui l’età primitiva è come l’età fanciulla,
dominata dalla fantasia (e quindi dalla poesia) e non dalla ragione (e quindi dalla scienza), la quale invece è propria dell’età adulta, così come dell’umanità
progredita. Così nel Discorso di un
italiano sulla poesia romantica:
quello che furono gli
antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo,
siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella
ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella
sterminata operazione della fantasia…. Ora che la memoria della fanciullezza e
dei pensieri e delle immaginazioni di quell’età ci sia straordinariamente cara
e dilettevole nel progresso della vita nostra, non voglio nè dimostrarlo nè
avvertirlo: non è uomo vivo che non lo sappia e non lo provi alla giornata….
Ecco dunque manifesta e palpabile in noi, e manifesta e palpabile a chicchessia
la prepotente inclinazione al primitivo…. dal genio che tutti abbiamo alle
memorie della puerizia si deve stimare quanto sia quello che tutti abbiamo alla
natura invariata e primitiva, la quale è nè più nè meno quella natura che si
palesa e regna ne’ putti, e le immagini fanciullesche e la fantasia che
dicevamo, sono appunto le immagini e la fantasia degli antichi …”
(p. 479-80, Discorso)
9. E
ancora, nelle prime pagine dello Zibaldone:
La ragione è nemica di
ogni grandezza, la ragione è nemica
della natura: la natura è grande, la ragione è piccola. (Voglio dire che un
uomo tanto meno, o tanto più difficilmente, sarà grande, quanto più sarà dominato
dalla ragione; ché pochi possono esser grandi (e nelle arti e nella poesia
forse nessuno) se non sono dominati dalle illusioni)
10.
Sempre nello Zibaldone, Leopardi si serve della favola di Psiche (che lui associa al racconto del peccato originale
nella Genesi: l’infelicità
dell’umanità nasce dalla volontà di Adamo ed Eva di sapere, mangiando il frutto
dell’albero della scienza del bene e del male; così, nel romanzo di Apuleio,
l’infelicità di Psiche nasce dalla sua volontà di conoscere il suo amante segreto,
Amore, che la visita solo di notte) per convalidare questa idea della negatività della ragione, della conoscenza
del vero che soppianta l’immaginazione:
“la favola di Psiche,
cioè dell'Anima, che era felicissima senza conoscere, e contentandosi di godere,
e la cui infelicità provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così
conveniente e preciso, e nel tempo stesso così profondo, della natura dell'uomo
e delle cose, della nostra destinazione vera su questa terra, del danno del sapere, della felicità
che ci conveniva, che unendo questa considerazione, al manifesto significato
del nome di Psiche, appena posso discredere che quella favola non sia un parto
della più profonda sapienza, e cognizione della natura dell’uomo e di questo
mondo… Del resto combinando quest’osservazione col racconto della Genesi, dove
l’origine immediata della infelicità e decadimento dell’uomo si attribuisce
manifestamente al sapere… mi si fa verisimile che queste gran massime, l’uomo non è fatto per il sapere, la
cognizione del vero è nemica della felicità, la ragione è nemica della natura…
fossero non solamente note, ma proprie e quasi fondamentali dell’antica
sapienza…” (10/2/21, pp. 637-638);
Dalle lunghe
considerazioni da me fatte circa quello che voglia significare nella Genesi
l'albero della scienza ec., dalla favola di Psiche della quale ho parlato
altrove, e da altre o favole o dogmi ec. antichissimi… si può raccogliere non
solo quello che generalmente si dice, che la corruzione e decadenza del genere
umano da uno stato migliore, sia comprovata da una remotissima, universale,
costante e continua tradizione, ma che eziandio sia comprovato da una tal
tradizione e dai monumenti della più antica storia e sapienza, che questa corruttela e decadimento del genere
umano da uno stato felice, sia nato dal sapere, e dal troppo conoscere, e che
l'origine della sua infelicità sia stata la scienza e di se stesso e del mondo,
e il troppo uso della ragione.”(luglio 23)
11.
Ed è una concezione che si ritrova anche
nelle canzoni giovanili, ad esempio nella canzone Ad Angelo Mai, dove, dopo aver ricordato l’impresa di Colombo, e
quindi la scoperta, oltre le mitiche colonne d’Ercole, di terre prima sconosciute all’umanità, così
continua:
Ahi, ahi! ma conosciuto il mondo
non cresce, anzi si scema, e assai piú vasto
l’etra sonante e l’alma terra e il mare
al fanciullin, che non al saggio, appare.
Nostri sogni leggiadri ove son giti
dell’ignoto ricetto
d’ignoti abitatori, o del diurno
degli astri albergo, e del rimoto letto
della giovane Aurora, e del notturno
occulto sonno del maggior pianeta?
Ecco svaniro a un punto,
e figurato è il mondo in breve carta;
ecco, tutto è simile, e, discoprendo,
solo il nulla s’accresce. A noi ti vieta
il vero, appena è giunto,
o caro immaginar; da te s’apparta
nostra mente in eterno; allo stupendo
poter tuo primo ne sottraggon gli anni;
e il conforto perí de’ nostri affanni.
non cresce, anzi si scema, e assai piú vasto
l’etra sonante e l’alma terra e il mare
al fanciullin, che non al saggio, appare.
Nostri sogni leggiadri ove son giti
dell’ignoto ricetto
d’ignoti abitatori, o del diurno
degli astri albergo, e del rimoto letto
della giovane Aurora, e del notturno
occulto sonno del maggior pianeta?
Ecco svaniro a un punto,
e figurato è il mondo in breve carta;
ecco, tutto è simile, e, discoprendo,
solo il nulla s’accresce. A noi ti vieta
il vero, appena è giunto,
o caro immaginar; da te s’apparta
nostra mente in eterno; allo stupendo
poter tuo primo ne sottraggon gli anni;
e il conforto perí de’ nostri affanni.
Il
“pessimismo cosmico”
12.
Il passaggio al cosiddetto “pessimismo cosmico” non è così
netto, ma certo non si sbaglia
individuando nelle Operette morali il luogo e il tempo (attorno al ’24)
in cui la nuova concezione è messa a punto.
13.
In operette come il Dialogo della
natura e un islandese o il Cantico del gallo silvestre emerge con
chiarezza l’idea di una natura non
benevola nei confronti delle sue creature, ma indifferente al loro dolore, e
quindi “madre di parto, e di voler
matrigna” (così nella Ginestra, peraltro unico luogo in cui si
trova l’appellativo di “matrigna”).
14.
E’ un islandese che vuol sapere dalla
natura il senso della infelicità umana. L’islandese si è messo a viaggiare per
il mondo, credendo che la causa della sua infelicità fosse il fatto di
risiedere in una terra inospitale quale l’Islanda, una terra particolarmente
sfavorita dalla natura. Ma viaggiando si è reso conto che sofferenza e infelicità sono ovunque, quindi ne chiede ragione alla
Natura, che lui incontra nell’interno dell’Africa, in figura di una donna
gigantesca “seduta in terra, col busto
ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna”. Interrogata
dall’Islandese, la Natura si dichiara indifferente alla sorte delle sue
creature, bada solo alla conservazione della totalità dell’universo mondo,
attraverso un “perpetuo ciclo di
produzione e distruzione”:
Immaginavi
tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra?
Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie… sempre ebbi
ed ho l'intenzione a tutt'altro che alla felicità degli uomini o
all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo,
io non me n'avveggo…: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io
non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle
tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E
finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non
me ne avvedrei.
15.
Ma
l’Islandese insiste, pone la questione in altri termini, si serve di un
esempio:
Ponghiamo caso che uno m'invitasse spontaneamente a
una sua villa, con grande instanza; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi
fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in
continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla
pioggia. Egli, non che si prendesse cura d'intrattenermi in alcun passatempo o
di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il
bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare,
schernire, minacciare e battere da' suoi figliuoli e dall'altra famiglia. Se
querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho
fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia
gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de' tuoi sollazzi, e di
farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai
fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma
poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di
fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza
travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il
mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e
ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t'ho io forse pregato di
pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia?
Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva
sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non
è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno,
almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l'abitarvi non mi
noccia? E questo che dico di me, dicolo
di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura.
16.
La risposta della Natura a questo punto,
più che con parole è data con i fatti. Ecco la conclusione dell’operetta, una conclusione terribile, anche se esposta
con sorridente leggerezza:
Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è
fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall'inedia, che
appena ebbero forza di mangiarsi quell'Islandese; come fecero; e presone un
poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano
questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l'Islandese
parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di
sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella
mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so
quale città di Europa.
17.
Dunque se così è, se “quel che è distrutto patisce, e quel che
distrugge non gode”, si tratta di una “vita
infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose
che lo compongono”. Non c’è
possibilità di felicità, in nessuna condizione, civilizzata o naturale,
antica o moderna, umana, animale o vegetale. Così si rivolge al sole il
gallo silvestre
Vedi tu di presente o
vedesti mai la felicità dentro ai confini del mondo? In qual campo soggiorna,
in qual bosco, in qual montagna, in qual valle, in qual paese abitato o
deserto, in qual pianeta dei tanti che le tue fiamme illustrano e scaldano?
Forse si nasconde dal tuo cospetto, e siede nell’imo delle spelonche, o nel
profondo della terra e del mare? Qual
cosa animata ne partecipa, qual pianta o che altro che tu vivifichi, qual creatura
provveduta o sfornita di virtù vegetative o animali?
18.
Ma ricordate anche il finale del Canto
notturno di un pastore errante dell’Asia, laddove il pastore, che dichiara di sentirsi sempre insoddisfatto, assalito dal
tedio, si rivolge al gregge che gli pare, invece, capace di sentirsi appagato:
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse
in qual forma, in quale
Stato
che sia, dentro covile o cuna,
E'
funesto a chi nasce il dì natale.
La
noia
19.
Queste considerazioni
sull’insoddisfazione, sul tedio, sulla noia del vivere a prescindere da
occasioni specifiche di sofferenza, si ritrovano in un altro scritto di
Leopardi, in un pensiero specifico sulla noia, con il conseguente corollario,
che l’animo infinito sarebbe soddisfatto solo abbracciando l’infinito universo,
un corollario presente anche nel Canto
notturno, laddove il poeta dice che vorrebbe “volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono
errar di giogo in giogo”
La noia è in qualche modo
il più sublime dei sentimenti umani… Il non potere essere soddisfatto da alcuna
cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l'ampiezza
inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e
trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio;
immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che
l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo;
e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e
voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si
vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun
momento, e pochissimo o nulla agli altri animali. (dai Pensieri, LXVIII)
20.
Qualcosa di simile si trova anche in Schopenhauer:
Il desiderio è, per sua
natura, dolore: il conseguimento genera tosto sazietà: la meta era solo
apparente: il possesso disperde l’attrazione: in nuova forma si ripresenta il
desiderio, il dolore: altrimenti, segue monotonia, vuoto, noia, contro cui è
battaglia altrettanto tormentosa quanto contro il bisogno. (da Il mondo come volontà e rappresentazione)
La
teoria del piacere
21.
Sono considerazioni che ci mettono di
fronte ad un’altra argomentazione, decisiva per la convinzione di Leopardi che l’infelicità sia un dato
insopprimibile di natura, sia connaturata all’esistenza.
22.
Mi pare che tale argomentazione si debba
individuare nella elaborazione della teoria
del piacere, iniziata nel luglio del 20 e più volte ripresa successivamente
(Zibaldone: 12/2/21, 2/5/22). Il ragionamento è semplice e stringente
nella sua logica: esistere comporta “amor proprio” e della propria
conservazione; l’amor proprio, che è senza limite, implica a sua volta il
desiderio, per sé, del piacere; tale desiderio del piacere, adeguato ad un amor
proprio senza limite, non riesce ad essere colmato da nessun piacere
particolare, e quindi (per quanto possa essere, occasionalmente, “ingannato”,
“mitigato”, “addormentato”) resta in stato di perenne tensione insoddisfatta; se ne conclude che
l’insoddisfazione, ovvero l’infelicità,
è congenita all’esistenza e non ha termine se non con il termine dell’esistenza. L’infelicità è quindi opera di una natura che, al fondo, non è benigna verso
le sue creature, siano esse uomini civilizzati o uomini primitivi; di più: siano uomini o animali o piante: tutto ciò
che esiste, sarà questa la conclusione, è in condizioni di sofferenza. Sono
affermazioni che si possono ritrovare più volte nello Zibaldone:
La felicità
è impossibile a chi la desidera, perché il desiderio, sì come è desiderio
assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti
necessariamente... Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di
non poter essere soddisfatto. Ora questo desiderio è conseguenza necessaria,
anzi si può dir tutt’uno coll’amor proprio. E questo amore è conseguenza
necessaria della vita... Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi
si ama, e quindi desidera assolutamente
la felicità, vale a dire una felicità senza limiti, e questa è impossibile, e
quindi il desiderio suo non può essere soddisfatto), per ciò stesso, dico,
che vive, non può essere attualmente felice.” (648, 12/2/21)
“Dove non
v’ha piacere, quivi ha patimento, perché v’ha desiderio non soddisfatto di
piacere, e il desiderio non soddisfatto è pena. Né v’ha stato intermedio, come
si crede, tra il soffrire e il godere; perché il vivente desiderando sempre per
necessità di natura il piacere, e desiderando perciò appunto ch’ei vive, quando
e’ non gode, ei soffre.... Né altrimenti ei può cessare o intermettere di
soffrire, che o cessando veramente di vivere, o non sentendo la vita, ch’ è
quasi come intermetterla, e lasciare per un certo intervallo di essere vivente.
In questi soli casi il vivente può non soffrire. Vivendo e sentendo di vivere,
ei nol può mai; e ciò per propria essenza sua e della vita, e perciò appunto
ch’egli è vivente, ed in quanto egli è tale...(3551-52, 29/9/23).”
23.
Ed è una condizione che riguarda non solo
l’uomo, ma, secondo una certa gradazione, ogni essere vivente:
“Una specie di viventi rispetto
all’altra o all’altre generalm. ec. è tanto più felice, cioè tanto meno
infelice, tanto più scarsa d’infelicità positiva, quanto meno dell’altra ella
sente l’esistenza, cioè quanto men vive e più s’accosta ai generi non animali.
(Dunque la specie de’ polipi, zoofiti
ec. è la più felice delle viventi)”. (3848, 7/11/23)
“... resta
che non solo gli uomini e gli animali, ma niun essere vi sia, che possa essere
né sia felice, che la felicità... sia di sua natura impossibile, e che
l’universo sia di propria natura incapace della felicità, la quale viene ad
essere un ente di ragione e una pura immaginazione degli uomini. E siccome
d’altronde l’assenza della felicità negli esseri amanti se med. importa
infelicità, segue che la vita, ossia
il sentimento di questa esistenza divisa fra tutti gli esseri dell’universo, sia di natura sua, e per virtù
dell’ordine eterno e del modo di essere delle cose, inseparabile e quasi tutt’uno colla infelicità e importante infelicità,
onde vivente e infelice sieno quasi sinonimi.” (4137, 3/5/25)
“Riconosciuta
la impossibilità tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo
sopra tutto, anzi unicamente... riconosciuto che l’infelicità dei viventi,
universale e necessaria, non consiste in altro né deriva da altro, che da
questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto
in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie
o individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo
possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consista
nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gli individui animali meno sensibili, men vivi per natura
loro, hanno il minor grado possibile di tal sentimento.” (4186, 13/7/26)
24.
L’idea che la sofferenza degli esseri viventi sia proporzionale alla capacità di
sentire la vita, e sia quindi più intensa nelle forme di vita superiori, è
un’idea che si ritrova anche in Schopenhauer, con il conseguente corollario
che fra gli individui umani la
sofferenza sia proporzionale allo sviluppo dell’intelligenza:
Così Leopardi:
“Dunque il più stupido degli uomini è di questi il più felice” (Zib., 3848); “Gli stati d’animo meno
sviluppato, e quindi di minor vita dell’animo, sono i meno sensibili, e quindi
i meno infelici degli stati umani.” (Zib.,
4186). E così Schopenhauer: “La più
elevata forza intellettuale fa proprio costoro [i più intelligenti] capaci di
ben maggiori sofferenze, di quante non possano mai sentire i più ottusi..” (Die Welt..., op. cit., p. 414).
25.
Che
sia una verità valida non solo per i
viventi “senzienti”, come uomini e animali (verità poeticamente ribadita,
abbiamo visto, nella chiusa del Canto notturno) ma anche per i viventi di vita vegetativa, lo si vede soprattutto
nel passo famoso dello Zibaldone in cui viene rovesciato il topos del locus
amoenus:
Non gli uomini
solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il
genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti
gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i
regni, i globi, i sistemi, i mondi. Entrate in un giardino di piante, d'erbe,
di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell'anno.
Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del
patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual
individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la
vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da
un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si
fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili
tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri
fiorellini. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da
mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato
dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o
nelle radici; quell'altro ha più foglie secche; quest'altro è roso, morsicato
nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo
caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo
secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello
stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per
arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di
sanità perfetta… Intanto tu strazi le erbe co' tuoi passi; le stritoli, le
ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi.… Certamente queste piante
vivono; alcune perchè le loro infermità non sono mortali, altre perchè ancora
con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere
qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all'entrare in
questo giardino ci rallegra l'anima, e di qui è che questo ci pare essere un
soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino
è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se
questi esseri sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l'essere.
(4175-77, 22/4/26)
La
sapienza silenica
26.
Alla fine di questo ragionamento ci
attende inevitabile la cosiddetta “sapienza
silenica”, ovvero la risposta del Sileno al re Mida che gli chiedeva il
segreto della felicità. Sileno era il precettore di Dioniso e, secondo il mito,
era il possessore di una grande saggezza. Per questo, come racconta Nietzsche nella Nascita
della tragedia, il re Mida lo
voleva catturare:
L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a
lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo.
Quando quello gli cadde infine fra le mani, il re domandò quale fosse la cosa
migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace;
finché, costretto dal re, esce da ultimo tra stridule risa in queste parole:
“Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi
costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è
per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere,
essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è - morire presto”.
27.
Nietzsche intende svelare, attraverso il
mito del Sileno, l’inquietante verità che corrode dall’interno la composta
armonia del mondo greco. Il cosiddetto “pessimismo greco” trova qui la sua
espressione più chiara e radicale: a fronte di tante altre occasioni in cui gli
autori greci si lasciano andare a considerazioni sconsolate sulla miseria e la
precarietà della condizione umana, le parole del Sileno sembrano fondare una
sorta di metafisica dell’infelicità:
l’infelicità è nel principio, è costitutiva dell’essere. Ed è una
concezione che ritorna più volte negli autori greci, nei lirici, nei tragici,
anche negli storici. Leopardi (ma qualcosa
di simile si potrebbe dire anche per Schopenhauer) sembra ereditarla:
se questi esseri sentono, o vogliamo dire,
sentissero (si riferisce agli esseri
viventi di vita vegetativa), certo è
che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l'essere.
Desiderare la vita, in
qualunque caso, e in tutta l’estensione di questo desiderio, non è insomma
altro che desiderare l’infelicità; desiderare
di vivere è quanto desiderare di essere infelice. (829-30, 20/3/21)
28.
Ed è un’eredità di cui Leopardi è
consapevole. Così si esprime Tristano nel Dialogo di Tristano ed un amico:
Ma poi, ripensando, mi ricordai ch’ella [la mia
filosofia dolorosa, ma vera] era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e
i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni,
pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità
umana; e chi di loro dice che l’uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e,
per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli dei, muore in
giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare.
- Il riferimento a Salomone è un riferimento all’Antico Testamento, giacchè anche lì si trovano i segni della sapienza silenica: laddove Giobbe maledice il giorno in cui nella casa di suo padre si annunciò che era nato un figlio, e ancora, laddove l’Ecclesiaste esprime la propria disperazione con parole che, per il riferimento caratterizzante al “non essere nato”, ricordano proprio quelle del Sileno:
E proclamai i morti
più beati dei vivi,
e più felici d’entrambi chi non è nato ancora
Contro
il suicidio
30.
Se poi qualcuno si chiedesse quale
fosse, a questo punto, il pensiero di
Leopardi sul suicidio, troverebbe la risposta in una delle Operette morali, il Dialogo di Plotino e Porfirio,
laddove Porfirio argomenta in maniera stringente a favore del suicidio come unica
scelta per sottrarsi al dolore di vivere, ma infine è convinto a desistere
dall’ultima obiezione di Plotino:
Sia ragionevole l'uccidersi; sia contro ragione
l'accomodar l'animo alla vita: certamente quello è un atto fiero e inumano. E
non dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto di essere secondo ragione un
mostro, che secondo natura uomo. E perché anche non vorremo noi avere alcuna
considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei
fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e domestiche,
colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare
per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa separazione;
né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona
cara o consueta, e per l'atrocità del caso?.... Aver per nulla il dolore
della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl'intrinsechi, dei compagni;
o non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente,
ma di barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli
amici e i domestici; è di non curante d'altrui, e di troppo curante di se
medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero
alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così
dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in
questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido,
o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al
mondo.
(…) Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la
memoria degli anni che fin qui è durata l'amicizia nostra, lascia cotesto
pensiero; non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni,
che ti amano con tutta l'anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia
più dolce. Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che così, senza
altro pensiero di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e
confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci
ha stabilita, dei mali della nostra specie. Si bene attendiamo a tenerci
compagnia l'un l'altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso
scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita.
31.
E con questa idea, che il senso della vita consista nella
solidarietà fra uomini che si sostengono a vicenda nella comune lotta contro il
male di vivere, siamo all’ultimo canto, La
ginestra. Ma poiché questo canto ha anche un significato politico, sarà
bene, prima di affrontarlo, fare un breve excursus sull’atteggiamento politico
di Leopardi nel contesto storico del suo tempo.
Il
pensiero politico: dalle canzoni giovanili ai moti del 1831
32.
Le canzoni
giovanili, fra il 1818 e il 1820 (famosa quella All’Italia), sono ispirate da un forte sentimento patriottico. Sono gli anni successivi alla
rivoluzione francese e alle imprese napoleoniche, sono gli anni della
restaurazione. Leopardi lamenta la decadenza dell’Italia dall’antica grandezza,
invoca il ritorno dell’antica virtù nel cuore degli italiani. Ma si ha sempre l’impressione di componimenti
letterari, frutto di suggestioni letterarie, come se il giovane Leopardi
avesse in mente la canzone All’Italia
di Petrarca o anche, a me sembra, il
carme Dei sepolcri di Foscolo.
33.
Seguono gli anni dei moti risorgimentali.
Nel 1831 scoppiano i moti nei territori dello Stato della Chiesa. Il comitato
del governo provvisorio di Recanati
chiede a Leopardi (che in quegli anni si trova a Firenze) di essere il loro rappresentante
all’assemblea di Bologna, che ha dichiarato decaduto il governo temporale
dei papi e ha l’incarico di redigere la nuova costituzione. Leopardi declina l’invito. E’ vero che
a Bologna erano già intervenuti gli austriaci e quindi l’assemblea era stata
sciolta (e infatti Leopardi adduce questa ragione per rifiutare l’incarico), ma
è anche vero che lo sviluppo del suo
pensiero aveva portato Leopardi ad essere scettico nei confronti delle lotte risorgimentali
e a trovarsi in forte contrasto con gli amici di Firenze, amici di ispirazione cattolico-liberale
(Colletta, Capponi, Tommaseo) che invece quelle lotte sostenevano.
Il
pensiero politico: l’errore di De Sanctis
34.
De
Sanctis, patriota del Risorgimento, grande critico
letterario e poi ministro della pubblica istruzione nel neonato regno d’Italia,
aveva per primo notato, in un famoso saggio, l’affinità di pensiero fra
Leopardi e Schopenhauer; ma poi aveva concluso che, mentre quel pensiero aveva portato Schopenhauer, al tempo delle insurrezioni
del 1848, a posizioni politiche fortemente reazionarie, Leopardi invece, se fosse vissuto fino al
’48 “sarebbe stato con noi sulle barricate” (per inciso, nel film di
Luchetti Il portaborse, Silvio
Orlando, che è un insegnante liceale, in una scena in cui parla di Leopardi ai
suoi studenti, attribuisce erroneamente a Binni la suddetta frase).
35.
Ma in sostanza io credo che su questo De Sanctis si sbagliasse. Se si leggono non
solo le opere di satira politica, ma
anche certe considerazioni che Leopardi
fa nelle lettere, si vede come i rapporti con cosiddetti “amici di Firenze”
si andassero sempre più deteriorando, proprio a causa del pessimismo
leopardiano che si riversava anche sul suo pensiero politico.
Il pensiero politico: i Paralipomeni e I nuovi
credenti in polemica con i cattolico-liberali di Firenze e di Napoli
36.
Il poemetto eroicomico Paralipomeni
della Batracomiomachia, scritto nel 1831, mette in campo una guerra fra
topi (che rappresentano i liberali) rane (sono i reazionari)
e granchi (rappresentano gli austriaci) ed è una satira feroce dei
moti del 20-21 e del 30-31. Scontata
l’ottusità di rane e granchi (questi ultimi sono "birri… d’Europa e
boia" in virtù della loro "crosta" durissima e dell’"esser
senza né cervel né fronte"), oggetto
della satira sono i topi (per il loro settarismo e per la loro presunzione
di poter cambiare la sostanza profonda delle cose - l’infelicità umana - con un altro travestimento del potere: la
monarchia costituzionale).
37.
Del 1835 è la satira I
nuovi credenti, in cui sono presi di mira i progressisti napoletani, ritenuti degli opportunisti, più interessati
ai maccheroni che agli ideali (S’arma
Napoli a gara alla difesa / de’ maccheroni suoi; ch’ai maccheroni / anteposto
il morir, troppo le pesa). E ancora:
Voi prodi e forti, a cui la vita è cara,
/ a cui grava il morir; noi femminette, / cui la morte è in desio, la vita
amara.
Il
pensiero politico: la visione profetica della Palinodia
38.
Ma le opere in cui più pienamente si
dispiega il pensiero politico di Leopardi sono la Palinodia al marchese Gino
Capponi e infine la Ginestra.
39.
Nella Palinodia (è della primavera del 1835: significa ritrattazione, e
infatti il poeta finge di ritrattare le sue idee pessimiste e di condividere
l’ottimismo progressista) Leopardi salta le tipiche problematiche
ottocentesche, relative all’indipendenza e all’unità nazionale. Leopardi ha la vista lunga, non si
lascia sedurre dall’ottimismo per le invenzioni della tecnica (macchina a
vapore, mongolfiera, telegrafo, ferrovie) e per il conseguente sviluppo
industriale; Leopardi è profetico,
anticipa il Novecento, si rende conto che dominante è la logica del profitto e vede
addirittura la minaccia di guerre mondiali per la conquista dei mercati;
ecco cosa dice, dopo aver immaginato ironicamente il prossimo avvento di una
nuova età dell’oro:
Ben molte volte
argento ed òr disprezzerá, contenta
a pólizze di cambio. E giá dal caro
sangue de’ suoi non asterrá la mano
la generosa stirpe: anzi coverte
fien
di stragi l’Europa e l’altra riva
dell’atlantico
mar,
fresca nutrice
di pura civiltá, sempre che spinga
contrarie in campo le fraterne schiere
di pepe o di cannella o d’altro aroma
fatal cagione, o di melate canne,
o cagion qual
si sia ch’ad auro torni.
40.
Qui si parla di spezie e di canna da
zucchero, ma si dice anche
“cagion qual si sia
ch’ad auro torni”, quale che sia la causa, la merce, che
renda oro, che faccia arricchire. Dunque oggi, nel primo Ottocento di Leopardi,
le spezie, domani, nel Novecento, il
petrolio o l’uranio o chissà che altro.
41.
Il discorso continua: sotto ogni regime, monarchico o
repubblicano, oligarchico o democratico, varrà sempre la legge del più
forte, l’avidità provocherà guerre e ingiustizie; per le generazioni future ci sarà un aumento dei beni di consumo, ma
anche una enorme diffusione delle “gazzette”, ovvero dei giornali, che
tenderanno a diventare l’unica fonte di
sapere.
(….) a milioni
impresse in un secondo, il piano e il poggio,
e credo anco del mar gl'immensi tratti,
(……..)
copriran le gazzette, anima e vita
dell'universo, e di savere a questa
ed
alle età venture unica fonte!
42.
Leopardi
insomma si rende conto della potenza di quelli che oggi chiamiamo mass-media,
comprendendo anche radio e televisione, e avverte il rischio che questo
comporti un ottundimento dell’intelligenza, una perdita dello spirito critico.
43.
Naturalmente sono idee non condivise
dagli “amici di Firenze”, che non vanno tanto per il sottile quando parlano di
Leopardi. Ecco qualche documento:
Capponi, a cui la Palinodia
era indirizzata, in una lettera a
Viesseux: “Quel maledetto gobbo s’è messo in capo di coglionarmi”. Colletta a Capponi: "Ho riletto
parecchi dei componimenti antichi, qualcuno dei nuovi; e ti dico all’orecchio
che niente mi è piaciuto. La medesima, eterna, ormai non sopportabile,
melanconia; gli stessi argomenti; nessuna idea, nessun concetto nuovo;
tristezza affettata e qualche secentismo". Tommaseo, sempre critico nei confronti di L., arrivava a dire, in
una lettera a Capponi, di avergli dedicato
simili versi: "Natura con un pugno lo sgobbò / 'Canta', gli disse irata;
ed ei cantò". "Il povero L. aveva scusa nell’esser gobbo; ma non è
forse una piccolezza il non saper viver gobbi?" : così commentava Capponi post mortem, incolpando, fra
l’altro, Giordani di una sorta di subornazione d’incapace.
Il
pensiero politico: la valorizzazione della ragione ne La ginestra
44.
Ed ora La ginestra, canto
straordinario, non solo perché innovativo
nello stile, in quanto tutto ragionato, filosofico, con poche concessioni
alle seduzioni dell’immaginazione, ma anche perché si porta a compimento quel rovesciamento del rapporto fra natura e
ragione di cui parlavo all’inizio e si chiarisce definitivamente il
pensiero politico di Leopardi, anzi, rispetto alla precedente totale chiusura, sembra aprirsi uno spiraglio nuovo, si
intravede un senso dell’azione umana nella storia.
45.
Due parole sul senso complessivo della
poesia. Anzitutto l’epigrafe, tratta dal vangelo di Giovanni, con cui si apre: kai
egàpesan oi ànthropoi mallon to skotos e to phos, e gli uomini
preferirono le tenebre alla luce. In Giovanni significa che gli uomini
preferiscono le tenebre del peccato alla luce della salvezza, ma qui il significato è di stampo chiaramente
illuminista: gli uomini preferiscono le tenebre dell’ignoranza perché hanno
paura di guardare la verità alla luce della ragione. Leopardi è esplicitamente polemico nei confronti dei fideismi sia di
tipo religioso che di tipo laico, e, di fronte al ritorno dello
spiritualismo nell’età romantica, si richiama alla precedente età
dell’illuminismo, rivendicando il valore
imprescindibile dell’analisi razionale della realtà.
46.
La ginestra è “il fiore del deserto”, cresce sull’“arida schiena” del Vesuvio, dunque in un terreno ostile, ricoperto
dalla lava, memoria perenne della potenza distruttiva del vulcano. A tale
potenza distruttiva la ginestra, col suo colore vivo e col suo profumo, sembra
opporre resistenza, proprio perché
umile, proprio perché consapevole della propria debolezza e del destino che l’attende
alla prossima eruzione. La ginestra è il simbolo di chi guarda in faccia
con coraggio la verità della condizione umana e non si fa illusioni
consolatorie né di tipo religioso né di tipo laico-progressista. Sentite questi
versi:
(…) A queste piagge
venga colui che d'esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all'amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell'uman seme,
cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può
con moti
poco
men lievi ancor subitamente
annichilare
in tutto.
Dipinte
in queste rive
son
dell'umana gente
le
magnifiche sorti e progressive.
47.
“Le
magnifiche sorti e progressive” è in corsivo nel testo, perché si tratta di
una citazione tratta da uno scritto di un suo cugino, il pesarese Terenzio
Mamiani, e sono parole che Leopardi riporta con ironia, come è ben chiaro dal
testo.
Il
pensiero politico: la poesia “stellare” de La
ginestra
48.
Più oltre c’è una strofa bellissima, laddove
il poeta dice che a volte si siede di
notte su questo terreno indurito dalla lava e guarda il cielo stellato.
Guarda le costellazioni lontane anni luce, guarda quei “nodi di stelle” che sembrano nebbia, e quindi rovescia lo sguardo,
immagina di guardare la terra da quelle lontananze infinite e capisce quanto
insignificante sia il nostro pianeta, un
granello di polvere nell’universo e quindi quanto risibile sia la presunzione dell’uomo che si ritiene (ora come
nelle età antiche) privilegiato dalla divinità:
Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e sulla mesta landa
in purissimo azzurro
veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto seren brillar il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch'a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente; a cui
l'uomo non pur, ma questo
globo ove l'uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto; e quando miro
quegli ancor più senz'alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o così paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell'uomo? E rimembrando
il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto, e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell'universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
sogni rinnovellando, ai saggi insulta
fin la presente età, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
49.
L’uomo che immagina che gli autori “dell’universe cose” scendano su questo
granello di sabbia a conversare con lui è senz’altro l’uomo pagano; ma come non vedere anche un riferimento
all’uomo cristiano che ha concepito ugualmente un dio che si fa uomo e che su
questo granello di sabbia conversa con gli altri uomini?
Il
pensiero politico: la nuova apertura de La
ginestra
50.
Ma ora, ecco l’aspetto politico, la riflessione sul senso dell’azione umana
almeno per ridurre, se non per eliminare, la condizione di infelicità, il male
di vivere. Ed è un discorso che si riallaccia a quanto diceva Plotino a
Porfirio, nell’operetta morale prima citata: uniamoci, amico mio, e
sosteniamoci a vicenda in questa comune lotta contro la natura avversa. Qui
Leopardi dice che solo a partire dalla
consapevolezza della fragilità della condizione umana, senza stupidi orgogli e
presunzioni, si può progettare una società migliore; solo capendo che gli
uomini devono essere uniti, essere “confederati”,
al di là di ogni differenza di nazionalità, di classe, di religione, contro il comune nemico che è la natura;
capendo che attribuire ad altri uomini la colpa della propria infelicità e
quindi combatterli – come è sempre successo nella storia – è come se, in un
accampamento assediato dal nemico, gli assediati si mettessero a combattersi a
vicenda:
Nobil natura è quella
che a sollevar s'ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra se nel soffrir, nè gli odii e l'ire
fraterne,
ancor più gravi
d'ogni altro danno, accresce
alle
miserie sue, l'uomo incolpando
del
suo dolor, ma dà la colpa a quella
che
veramente è rea, che de' mortali
madre
è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l'umana compagnia,
tutti
fra se confederati estima
gli
uomini, e tutti abbraccia
con
vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune. Ed alle offese
dell'uomo armar la destra, e laccio porre
al vicino ed inciampo,
stolto crede così, qual fora in campo
cinto d'oste contraria, in sul più vivo
incalzar degli assalti,
gl'inimici obbliando, acerbe gare
imprender con gli amici,
e sparger fuga e fulminar col brando
infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
quando fien, come fur, palesi al volgo,
e quell'orror che primo
contra l'empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper, l'onesto e il retto
conversar
cittadino,
e
giustizia e pietade, altra radice
avranno
allor che non superbe fole,
ove fondata probità del volgo
così star suole in piede
quale star può quel ch'ha in error la sede.
51.
Solo il “verace sapere” può essere la radice di una società migliore,
fondata su onestà e giustizia (questo si intende quando si parla di “onesto
e retto conversar cittadino, e giustizia e pietade”), non le “superbe fole”, ovvero la illusoria e
sciocca presunzione che per l’uomo ci sia un destino di felicità, in questo o
nell’altro mondo.
52.
L’idea di una impossibile redenzione, espressa in
termini netti nella Palinodia ("Sempre... sempre..."),
subisce ne La ginestra un cambiamento
radicale, perché l’umanità cosciente si
ribella e concepisce un grandioso progetto contro la natura.
53.
Certo, più che di un progetto in positivo, si tratta
di un progetto di resistenza al male: ma lucido e disilluso,
perché non fondato su vane
"fole", ma sulla consapevolezza che dimostra Tristano nell’ultima delle Operette morali:
...calpesto la vigliaccheria degli
uomini, rifiuto ogni consolazione ed ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di
sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto
della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare
tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera.
54.
E’ perciò un progetto intrinsecamente "progressivo",
perché "finché l’uomo è certo che esiste il male e lo chiama col suo
nome, il male ha trovato una soglia dove arrestarsi".
L’ultima
osservazione
55.
Ma io voglio fare un’ulteriore osservazione. E’ vero, che cosa voglia dire in positivo, cioè in
concreto, la lotta contro la natura avversa da parte degli uomini
confederati, Leopardi non lo dice esplicitamente, ma, a mio parere, lo si
deduce facilmente da ciò che è scritto nello Zibaldone, nella Palinodia,
nella stessa Ginestra: vuol dire impiegare le risorse economiche e le
energie intellettuali non per perfezionare gli armamenti, ma per, ad esempio,
bonificare i deserti, combattere la fame nel mondo, contrastare i terremoti,
curare le malattie mortali. Certo, tutto ciò, secondo il pensiero di
Leopardi, non può eliminare l’infelicità che è connaturata, abbiamo visto, allo
stesso vivere, ma è l’unico senso
giusto che uomini consapevoli possono dare alla propria vita.
Appendice
Così Leopardi si
ribella al pregiudizio (diffuso peraltro anche presso i contemporanei) secondo
cui sarebbero le sue personali disgrazie fisiche a determinare quel pensiero
radicalmente negativo:
“Quali che siano le mie
sventure, che si è creduto giusto sbandierare e forse un po’ esagerare, io ho
avuto abbastanza coraggio per non cercare di diminuirne il peso, né con frivole
speranze di una pretesa felicità futura e sconosciuta, né con una vile
rassegnazione…. E’ stato proprio per questo coraggio che, essendo stato
condotto dalle mie vicende ad una filosofia disperata, non ho esitato ad
abbracciarla tutta intera; mentre, d’altro canto, è stato solo a causa della
debolezza degli uomini, che hanno bisogno d’essere persuasi del valore
dell’esistenza, che si è voluto considerare le mie opinioni filosofiche come il
risultato delle mie personali sofferenze e che ci si ostina ad attribuire alle
mie circostanze materiali, ciò che si deve soltanto al mio intelletto. Prima di
morire, io voglio protestare contro questa invenzione della debolezza e della
volgarità, e pregare i miei lettori di cercare di demolire le mie osservazioni
e i miei ragionamenti piuttosto che accusare i miei malanni.” (dalla lettera
al De Sinner del 24/5/1832, in francese nell’originale)
Carlo Michelstaedter,
per spiegare lo stato di perenne aspirazione insoddisfatta (propria dell’esistere,
secondo Leopardi), sviluppa, con grande efficacia, un esempio tratto da
Schopenhauer (Il mondo come volontà e
rappresentazione, Bari 1984, p. 176 e 408): quello del peso che, in quanto
tale, ha sempre “fame” del punto più basso; e quando non l’avesse più, non
sarebbe quello che è, cioè un peso:
“Un peso pende ad un
gancio, e per pender soffre che non può scendere: non può uscire dal gancio,
poiché quant’è peso pende e quanto pende dipende. Lo vogliamo soddisfare: lo
liberiamo dalla sua dipendenza; lo lasciamo andare, che sazi la sua fame del
più basso, e scenda indipendente fino a che sia contento di scendere. Ma in
nessun punto raggiunto fermarsi lo accontenta e vuol pur scendere, ché il
prossimo punto supera in bassezza quello che esso ogni volta tenga. E nessuno
dei punti futuri sarà tale da accontentarlo, che necessario sarà alla sua vita,
fintanto che lo aspetti, un punto più basso; ma ogni volta fatto presente, ogni
punto gli sarà fatto vuoto di ogni attrattiva non più essendo più basso; così che in ogni punto esso manca dei punti più
bassi e vieppiù questi lo attraggono: sempre lo tiene un’ugual fame del più
basso, e infinita gli resta pur sempre la volontà di scendere. Che se in un
punto gli fosse finita e in un punto potesse possedere l’infinito scendere dell’infinito futuro – in quel punto
esso non sarebbe più quello che è: un peso.
La sua vita è questa mancanza della sua vita. Quando esso non mancasse più di
niente – ma fosse finito, perfetto: possedesse se stesso, esso avrebbe finito
di esistere.” (da C. Michelstaedter, La
persuasione e la rettorica, Milano
1982, pp. 39-40)
...
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