giovedì 24 settembre 2015

D'Annunzio: La pioggia nel pineto

Lettura de La pioggia nel pineto
                       

Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
5parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
10Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
15divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
20piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
25leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
30che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
35verdura
con un crepitìo che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
40Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
45né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
50diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
55d’arborea vita viventi;
e il tuo vólto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
60auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.

65Ascolta, ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
70che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
75Più sordo, e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
80Non s’ode voce dal mare.
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
85il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
90è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
95E piove su le tue ciglia,
Ermione.

Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
100ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pèsca
105intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
son come mandorle acerbe.
110E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c’intrica i ginocchi)
115chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
120su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
125su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.                                        
 
La poesia intende sia proporre il motivo panico dell’identificazione del soggetto umano con la vita vegetale, sia riprodurre verbalmente la musicalità della pioggia.
Il panismo è attuato in un crescendo che ha il suo culmine nell’ultima strofa (la donna è “quasi... virente”, il cuore è “come pèsca intatta”, gli occhi “come polle tra l’erbe”, i denti “come mandorle acerbe”), ma che è anticipato già nelle strofe precedenti (vv. 20-21, “volti / silvani”, con significativo isolamento dell’aggettivo; poi nei versi finali, 55-61, della seconda strofa).(1)
Quanto alla ricercata musicalità del componimento (2), si vuole comunicare la grande sinfonia prodotta sia dal battere della pioggia sulle diverse piante (vv. 49-51, stromenti / diversi / sotto innumerevoli dita”) sia dal verso prima delle cicale, poi della rana (strumenti solisti). E tale “traduzione” è realizzata con diversi artifici, metrici e retorici.
Il metro è libero, non soggetto ad alcuno schema (campeggiano parole isolate, come in una poesia ungarettiana); libera è anche la rima: ora baciata, ora interna al verso (37, “e varia nell’aria”; 41, “al pianto il canto”; ma interne sono anche assonanze e consonanze: 11, “salmastre ed arse”; 17, “di fiori accolti” ; 38, “secondo le fronde” ) ora al mezzo (3-7, “parole che dici / umane.../ lontane” ; 97-99, “Piove su le tue ciglia nere / sì che par tu pianga / ma di piacere...”). Ricercata è anche la modulazione fonica: la mimesi della varietà di suono delle gocce sulle foglie è resa con la variazione tra i toni chiari della a e i toni cupi della o in posizione tonica (37-39, “e varia nell’aria / secondo le fronde / più rade men rade”); parimenti, il canto limpido delle cicale è reso con la predominanza della vocale tonica a (41-43, “al pianto il canto / delle cicale / che il pianto australe”), quello roco della rana con il predominio delle più oscure vocali o e u (74, “dall’umida ombra remota”; 93, “nell’ombra più fonda”); e il tremolio del canto delle cicale in diminuendo è reso con la frequenza della vibrante r (78-79, “ancor trema... risorge, trema...” ).
Scaltriti anche i procedimenti retorici: anafore (la serie insistita dei “piove” nella prima strofa), epifore (la triplice ripetizione della clausola “si spegne”, a proposito del canto delle cicale, 76-79), allitterazioni (“ciel cinerino”, spirto silvestre”, “vita viventi”, ecc.), ripetizione a distanza di clausole con minime variazioni (38-39, “secondo le fronde / più rade, meno rade” ; 86-87, “secondo la fronda / più folta, men folta” ).
 
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(1)  Ma è anche riconoscibile la umanizzazione della natura, laddove, nei versi iniziali, si invita ad ascoltare “parole più nuove” parlate dalle gocce di pioggia e dalle foglie.
(2)  Coerentemente con i dettami delle poetiche decadenti (v. Verlaine, Arte poetica: “Della musica innanzi ad ogni cosa...”).

domenica 20 settembre 2015

Paradiso: la visione di Dio

La visione di Dio nel XXXIII del Paradiso
 
BOSCO-REGGIO, commento al Paradiso;
introduzione al canto XXXIII.
 
Giunto nell’Empireo, Dante vede una fiumana di luce fra due rive di fiori; dalla fiumana escono scintille che si posano sui fiori e poi ritornano nel gorgo. Quindi la luce assume forma circolare (più grande del sole), i fiori appaiono come beati e le scintille come angeli; i beati li vede disposti nella Candida Rosa (in più di mille ordini di seggi, digradanti come petali), la quale si specchia nel cerchio di luce come un colle in un lago; gli angeli sembrano api che volano da un fiore all’altro.
Beatrice conduce Dante al centro dell’“anfiteatro”, poi scompare tornando al suo seggio. Dante si trova al fianco S. Bernardo[20], il quale gli indica che la Rosa è divisa in due settori (credenti in Cristo venturo e venuto)[21] e in due parti (inferiore per i bambini, superiore per gli adulti).
Perché Dante possa contemplare Dio, è necessaria la mediazione della Vergine (che risiede in un seggio nel giro più alto della Rosa), alla quale Bernardo rivolge la sua “orazione”[22]. Mentre tutti i beati congiungono le mani verso di lei in una “figurazione giottesca ” (Croce), la Vergine, immobile, consente, senza parlare, con gli occhi (che, quindi, rivolge a Dio).
Ora comincia il dramma di Dante che vuole raccontare l’esperienza della visione: ed è, anzitutto, un problema teologico, perché non si può vedere ciò che si può solamente pensare (Tommaso: “non est possibile quod per aliquam similitudinem creatam divina substantia intelligatur”). Ma Dante vuole dare una conclusione “visibile” ad un racconto che è stato tutto “visibile”: e ha l’idea dei tre cerchi e dell’immagine umana “adattata” al cerchio (per rendere sensibilmente i due misteri fondamentali della Trinità e dell’Incarnazione). Tutto lo sforzo è inteso a dimostrare la difficoltà di (1) capire (intelligere) ciò che si vede (non c’è il mistico che si abbandona, ma il razionalista che vuole comprendere con la ragione); e poi di (2) ricordare quel che si è capito; e infine di (3) trovare parole adeguate per esprimere quel barlume che si ricorda.
Suggestivo il momento in cui dice di “vedere” l’ordine dell’universo[23] (le relazioni fra sostanze e accidenti: ciò che ha sempre cercato di capire e dimostrare: in tutta la Commedia, ma in particolare in Pd . I e II).
 
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[20]di Chiaravalle (1091-1153), mistico, restauratore del culto mariano, forse scelto per questo come ultima guida.
 
[21]la divisione è segnata da una linea di donne ebree (che parte da Maria e comprende Eva, Rachele - con a fianco Beatrice - Sara, Rebecca, ecc.) e da una corrispondente linea “maschile” (che presenta Giovanni battista, Francesco d’Assisi, Benedetto, Agostino, ecc.).
 
[22]E’ divisa in due parti: elogio di Maria (notevole l’incipit, articolato in tre fortissime antitesi) e richiesta di intercessione. In essa c’è “l’eloquenza di un’iscrizione in un monumento della vittoria e la dolcezza di un poema d’amore” (Auerbach).
 
[23]Ricorda l’Aleph  di Borges.
 

Paradiso: i canti di Francesco e Domenico

Francesco e Domenico nel Paradiso
 
BOSCO-REGGIO, commento al Paradiso,
introduzione ai canti XI e XII.
 
Due canti concepiti unitariamente, con l’intento di celebrare i due campioni (proprio mentre i rispettivi ordini sono separati da un’accesa rivalità) che hanno combattuto contro i nemici della Chiesa: Francesco contro quelli interni (il clero avido di ricchezze), Domenico contro quelli esterni (gli eretici). E Dante ha senz’altro in mente la profezia di Gioacchino da Fiore, che aveva parlato di duo viri che avrebbero sostenuto la Chiesa pericolante. Di qui l’accurato parallelismo simmetrico della costruzione: un domenicano (Tommaso) fa l’elogio di Francesco (e denuncia il traviamento del proprio ordine), un francescano (Bonaventura) fa l’elogio di Domenico (e denuncia il traviamento del proprio ordine); per entrambi, dodici versi ad indicare, con ampia perifrasi letteraria, il luogo di nascita (Assisi-Oriente per Francesco, l’occidentale Calaroga per Domenico: a sottolineare che il loro campo di battaglia è il mondo intero); per entrambi, nomina sunt consequentia rerum (Assisi, Domenico, Felice, Giovanna).
Ma la biografia di Domenico è meno articolata di quella di Francesco: perché la vita di quest’ultimo era già in un alone di leggenda (e Dante segue, molto da vicino, la Legenda maior di Bonaventura). I due sono visti soprattutto come combattenti (parole e perifrasi che alludono alla guerra sono ricorrenti).
Di Francesco, Dante sottolinea il matrimonio con la povertà (per questo è alter Christus); ma nella Legenda maior c’era altro (c’erano visioni, miracoli, estasi); vuol dire che Dante vuole polemizzare, implicitamente, con i conventuali e la curia romana; è vero che, per bocca di Bonaventura, prende una posizione intermedia (contro l’eccessivo rigorismo degli spirituali e contro il lassismo dei conventuali); ma, sul possesso di beni da parte della Chiesa, già conosciamo (dal Monarchia) la posizione di Dante: la Chiesa può ricevere, come in deposito, beni di proprietà dell’Impero (che restano sempre tali), ma solo per distribuirne i frutti ai poveri di Cristo (le decime sunt pauperum dei); è altresì evidente la simpatia di Dante per la posizione degli spirituali: in Pd. XXI presenta Pietro e Paolo come francescani ante litteram (e non c’è dubbio che abbia in mente quel passo del vangelo di Matteo in cui Cristo prescrive agli apostoli di seguirlo seminudi e scalzi). E questo ha vieppiù valore se si pensa che ci sono due condanne (la prima del 1318, la seconda, definitiva, del 1323) da parte del papa Giovanni XXII nei confronti degli spirituali.

Paradiso: il canto di Giustiniano

Il canto VI del Paradiso
 
BOSCO-REGGIO, commento al Paradiso;
introduzione al canto VI.
 
La simmetria dei “sesti” canti nelle tre cantiche si può accettare, con l’avvertenza che l’accento batte sempre (che ci si riferisca alle condizioni di Firenze, dell’Italia o dell’Impero) sul male della lotta tra fazioni.
Qui il discorso si amplia con l’esaltazione della funzione provvidenziale dell’Impero: la storia tende verso quel punto (la plenitudo temporis di cui parla S. Paolo) in cui si attua la redenzione (il peccato universale è punito da un potere universale); dopodiché l’Impero mantiene quella funzione di guida del mondo (in concordia con la Chiesa) ereditata, senza soluzione di continuità, dal Sacro Romano Impero.
Ma perché a celebrare l’aquila è scelto Giustiniano, la cui sede non era stata Roma? Senz’altro perché autore di quel Corpus Iuris che fa sì che sopravviva l’unità giuridica, quando si spezza l’unità politica: e del resto l’aquila è simbolo non solo dell’Impero, ma anche della giustizia (e il valore del diritto romano è affermato anche in Pg. VI, quando si dice: “che val che Giustinian ti racconciasse il freno se la sella è vota?”).
Altra questione è se nel dire che l’aquila fu portata “contro al corso del ciel ” sia implicito un giudizio negativo (“contro natura”) verso Costantino. Certo, negativo fu l’andare a Bisanzio lasciando Roma al Pontefice (la “donazione” è ritenuta autentica); ma Costantino è fra i giusti che formano l’occhio dell’aquila nel cielo di Giove, e qui il ritorno nella Troade (da dove l’aquila era partita) sembra visto piuttosto come il compimento di un ciclo, come segno dell’universalità dell’Impero che spazia da est a ovest.
Con stacco narrativo (dal tono esaltato a quello dolente) viene poi evocata la figura di Romeo[18]: un piccolo personaggio (e una piccola storia) accanto a uno grande (la giustizia di Dio uguaglia tutti). Ammenda di Giustiniano per il suo atteggiamento nei confronti di Belisario[19], analogo a quello che, secondo la leggenda, Raimondo di Provenza avrebbe avuto nei confronti di Romeo? O, semplicemente, altro personaggio in cui Dante commisera il suo stesso destino di esule? Destino simile, peraltro, a quello di Pier della Vigna, che, come Romeo e come Dante, non aveva accettato l’umiliazione di dover rendere conto del suo operato. I provenzali sono stati puniti; e così lo saranno i fiorentini.
 
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[18]Il personaggio era storico (ministro di Raimondo Berengario IV, conte di Provenza, fino alla sua morte, nel 1250); ma Dante dà credito alla leggenda di un umile pellegrino (“romeo”), accolto nella corte, divenuto ministro, calunniato dai cortigiani, ripartito com’era arrivato.
 
[19]A un certo punto era stato emarginato dall’imperatore, perché troppo potente, e poi riabilitato; ma non si sa se Dante fosse a conoscenza della leggenda secondo cui sarebbe stato fatto accecare e ridotto a morire in completa miseria.

lunedì 14 settembre 2015

Purgatorio: l'allegoria nel Paradiso Terrestre

Il Paradiso Terrestre: l’allegoria della processione e della trasformazione del carro
 
Dante, in compagnia di Virgilio e Stazio si inoltra nella selva del Paradiso Terrestre finché giunge ad un ruscello (è il Letè), oltre il quale scorge una donna che si aggira cantando e cogliendo fiori. E’ Matelda[17], la quale, su richiesta di Dante, risponde ad alcune domande: essendo il Purgatorio (dalla porta in su) libero da perturbazioni atmosferiche, l’agitarsi delle fronde non è dovuto al vento “naturale”, ma a un movimento dell’aria causato dal rotare del Primo Mobile; le piante, che qui si trovano, impregnano l’aria della loro virtù seminale, e l’aria, a sua volta, comunica tale virtù alla terra abitata dagli uomini, dove quindi possono nascere piante anche “senza seme palese”; ci sono due fiumi (Letè ed Eunoè), che non nascono da una sorgente naturale, ma dalla volontà divina; questo è quel luogo, conclude Matelda, di cui gli antichi favoleggiarono quando parlarono dell’età dell’oro.
Successivamente invita Dante ad osservare la processione che sta giungendo lungo la riva del fiume, accompagnata da un canto melodioso: è preceduta da sette candelabri (simboleggiano i sette doni dello Spirito Santo: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timor di Dio), sovrastati e seguiti da sette liste luminose (i benefici effetti dei suddetti doni); vengono quindi, a due a due, ventiquattro seniori (i 24 libri del Vecchio Testamento) vestiti di bianco e coronati di gigli (a simboleggiare la purezza della loro dottrina); poi quattro animali (i 4 evangelisti), coronati di fronde  verdi (eterna giovinezza del vangelo), dotati di sei ali (rapidità della diffusione del vangelo) piene d’occhi (conoscenza del passato e del futuro); in mezzo a loro avanza un carro (la Chiesa), poggiato su due ruote (il Vecchio e il Nuovo Testamento), trainato da un grifone (animale con corpo di leone, testa e ali di aquila: indica Cristo, e la sua doppia natura); alla destra del carro ci sono tre donne (virtù teologali: fede, speranza e carità), alla sinistra quattro donne (virtù cardinali: prudenza, fortezza, giustizia e temperanza); seguono due vecchi (S. Luca, autore degli Atti degli apostoli; S. Paolo, autore delle Lettere); quindi quattro personaggi di umile aspetto (i 4 libri delle epistole di Pietro, Giovanni, Giacomo e Giuda, succinte e brevi); infine “un vecchio solo” (S. Giovanni, autore dell’Apocalisse) che procede dormendo (perché il libro è in forma di visione).
La processione si ferma e, quando i 24 seniori gridano rivolti al carro “Veni sponsa de Libano”, compaiono angeli che gettano fiori; in mezzo alla nuvola di fiori appare Beatrice. Dante sente in sé “i segni dell’antica fiamma”, si volge verso Virgilio, ma Virgilio non c’è più. Dante piange, sentendosi abbandonato. Beatrice lo chiama per nome e lo invita a piangere per ben altro dolore: lo accusa di averla tradita, di essersi abbandonato, dopo la sua morte, ai falsi allettamenti del piacere, di essere caduto tanto in basso da rendere necessario il suo intervento (discesa nel Limbo a pregare Virgilio di guidarlo nell’oltretomba) per evitargli la dannazione; prima che passi il Letè dovrà versare sincere lacrime di pentimento. Invita Dante a confessare apertamente le sue colpe, ma costui, confuso e umiliato non sa fare altro che piangere a testa bassa. “Alza la barba”, gli ordina lei, e guardami. Dante non regge alla sua vista e sviene. Rinviene nell’acqua del Letè, ove Matelda lo sta immergendo; quindi lo porta sull’altra riva del fiume e lo affida alle quattro donne, le quali a loro volta, dopo averlo invitato a fissare gli occhi di Beatrice, lo affidano alle tre donne: queste pregano Beatrice di svelare al suo fedele “la seconda bellezza” (si intende quella della bocca, essendo quella degli occhi la prima). Ella si rivela allora sorridente e tanto bella che nessuno scrittore saprebbe renderne una pallida immagine.
Quindi la processione, con una conversione simile a quella di un esercito, torna indietro e Dante la segue a fianco del carro, insieme a Stazio e a Matelda. Si fermano davanti ad un albero (enorme e “rovesciato”, come quello nella cornice dei golosi): è l’albero della sapienza del bene e del male e moralmente rappresenta la giustizia divina, violata dalla disobbedienza di Adamo ed Eva; da allora è “dispogliato”, e ora rinverdisce e rifiorisce (di fiori dal colore fra il rosa e il viola: forse simbolo del sangue di Cristo), nel momento in cui il Grifone attacca ad esso il carro (la redenzione, e quindi l’opera della Chiesa che reintegra la giustizia violata). Dante si addormenta al canto di “quella gente”, e quando si risveglia la processione se n’è andata, si ritrova solo con Matelda, Stazio, Beatrice e le sette donne. Beatrice è seduta a terra a guardia del carro e chiama vicino a sé Dante. Lo invita a guardare e a riferire ciò che vedrà. Un’aquila scende dal cielo, attacca la pianta e scuote il carro (sono le persecuzioni dell’impero nei confronti della Chiesa). Quindi si avvicina al carro una volpe affamata, ma Beatrice la mette in fuga accusandola di “laide colpe” (sono le eresie vinte dalla giusta dottrina). Poi torna l’aquila e lascia cadere alcune penne sul carro (è la donazione di Costantino). Ora si apre la terra sotto il carro, ne esce un drago che con la coda a mo’ di pungiglione porta via un asse dal fondo e se ne va (probabilmente la religione musulmana, che sottrae fedeli alla Chiesa). Le penne lasciate dall’aquila germogliano sul resto del carro, che rapidamente si trasforma in un mostro (degenerazione della Chiesa a seguito della donazione di Costantino, e quindi dell’acquisizione di potere temporale) con sette teste (tre sul timone, quattro negli angoli: saranno i sette peccati capitali). Sul carro si siede una puttana “sciolta” (sfrontata, senza ritegno: sarà la curia romana); di fianco a lei compare un gigante (il re di Francia, Filippo il Bello) che la bacia (sottomissione della curia alla volontà della Francia) e poi, siccome lei guarda Dante (il popolo cristiano), la batte (oltraggio di Anagni) e trascina il mostro nella selva (trasferimento della sede papale ad Avignone, voluta da Filippo il Bello e realizzata da Clemente V nel 1305)
 
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[17] Difficile individuarne l’identità storica: si è pensato a Matilde di Canossa, ma anche alla monaca benedettina Matilde di Hachenborn (morta nel 1298 e autrice di libri spirituali) o alla “donna gentile” della Vita Nova. Altrettanto difficile è comprenderne il significato allegorico: probabilmente significa la felicità terrena, quella di cui godettero Adamo ed Eva e che è raggiungibile praticando le virtù morali e intellettive. La sua funzione sembra essere solo quella di condurre le anime (o il solo Dante?) a completare la purificazione, facendole bere alle acque dei due ruscelli.
 
 

Purgatorio: il canto di Guinizzelli

Il canto XXVI del Purgatorio
 
BOSCO-REGGIO, commento al Purgatorio ;
introduzione al canto XXVI
 
Il tono stilistico è sostenuto, sia per rime difficili (adre, arche, igio, ostri) o equivoche (legge, turba), sia per parole rare (s’ammusa, s’inurba, ecc.), sia per ricercatezza di immagini (la morte come una rete, Cristo abate del collegio): e sarà da attribuire al valore alto dei personaggi incontrati.
E’ il canto in cui si celebra, nella figura di due grandi maestri (Guinizzelli e Arnaut Daniel), la grandezza della poesia in volgare. E la commozione di Dante davanti a Guinizzelli è paragonabile a quella di Stazio davanti a Virgilio (Pg. XXI-XXII). Siamo all’interno di quel recupero dello stilnovismo, già iniziato in Pg. XXIV, in occasione dell’incontro con Bonagiunta: quella esperienza aveva raffinato la poesia (rispetto alla grossolanità di un Guittone), a prescindere dal fatto che l’amore cantato fosse ancora un amore-passione, e non ancora un amore-virtù (e sarà questa la ragione per cui, escludendo improbabili biografie a noi sconosciute, Guinizzelli ed Arnaut Daniel sono collocati fra i lussuriosi). Che Dante abbia in mente proprio questa loro qualità di artefici della lingua, lo si deduce dall’appellativo (fabbro del parlar materno) con cui indica Arnaut (preferito a Giraut de Borneihl, proprio perché, come autore del trobar clus, aveva operato un duro lavoro di raffinamento sul grezzo materiale della lingua volgare).
Nello stesso senso andrà intesa la polemica contro Guittone (anche se questo lascia qualche perplessità, perché Guittone non era certo poeta rozzo: ma bisognerà pensare che è proprio la volontà di marcare la superiorità dello stilnovismo che spinge Dante ad eccedere in un giudizio liquidatorio nei confronti del vecchio maestro).
 

Purgatorio: il recupero dello stilnovismo

Il recupero dello stilnovismo
nel XXIV del Purgatorio
 
BOSCO-REGGIO, commento al Purgatorio;
introduzione al canto XXIV.
 
La dichiarazione di poetica stilnovistica, tutt’altro che essere fuori luogo, come è stato detto, ben s’inserisce nel contesto dell’incontro con Forese: alla rievocazione della dissipata vita giovanile (e del gusto letterario che ne era il riflesso) segue il ricordo della riconquista della moralità (ovvero, della celebrazione stilnovistica dell’amore-virtù).
La novità della poetica in questione non consiste (come si potrebbe pensare, ad una lettura superficiale dei famosi versi di risposta a Bonagiunta Orbicciani) in una sorta di realismo sentimentale svuotato di ornamenti letterari (giacché, anzi, il carattere colto e dottrinale è una caratteristica del gruppo).
Anzitutto, la “dolcezza”: ha a che fare con la lingua, che non presenta più le dissonanze e gli aggrovigliamenti sintattici di un Guittone, ma si fonda su vocaboli dal suono non “aspro e chioccio”: prevalentemente di misura trisillabica, piani, cioè non sdruccioli né tronchi; senza z o x, doppia liquida (l, r) o incontro di muta (o occlusiva: p, b, t, d) più liquida.
Quanto alla “novità”, essa è da ricercarsi in quel capitolo della Vita Nova ove Dante riconosce il valore dell’amore in sé, indipendentemente dalla corresponsione: ciò comporta che la sua rappresentazione cessa di essere quella di una vicenda sentimentale a due (come era stata per i poeti precedenti, ed anche per gli stilnovisti: Guinizzelli aveva, sì, estremamente spiritualizzato l’amore, ma lo stilnovismo non si era liberato dal peso della tradizione, che imponeva preghiere di corresponsione, lamenti per l’indifferenza della donna; ancor peggio, Cavalcanti vedeva l’amore come angoscia mortale, obnubilamento della ragione) per diventare pura introspezione (“noto” quel che amore “ditta dentro”), descrizione dei sentimenti esaltanti provocati dalla presenza della donna amata, slancio verso l’alto. E’ l’amore-passione (oltre il quale non sa sollevarsi Cavalcanti) che può recare dolore, non questo amore-virtù, che è aspirazione al bene.
Questo è, però, lo stilnovismo di Dante, che egli, qui, attribuisce a tutto il gruppo: evidentemente egli pensa che anche gli altri (escluso Cavalcanti?) tendevano, pur senza averne coscienza, a questo amore-virtù. Da questo punto di vista, gli sembra che la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore dia voce ad una esigenza collettiva, fin allora inespressa.
 

Purgatorio: i canti di Stazio

Stazio in Purgatorio XXI e XXII
 
BOSCO-REGGIO, commento al Purgatorio,
introduzione ai canti XXI e XXII.
 
1) Dante lo dice “tolosano”, confondendolo con un altro Stazio (il retore, vissuto in età neroniana); dalle Silvae (cinque libri di poesie d’occasione) è chiaro invece che era napoletano (45-96 d. C.). Ma Dante non conosce le Silvae[13]; eppure sa che fu incoronato poeta: evidentemente, non dalle Silvae, ove risulta chiaro (III, 28-31), ma dall’Achilleide  (il suo secondo poema epico, rimasto interrotto alla metà del secondo libro per la morte del poeta: “caddi in via con la seconda soma”) ove Stazio invoca Apollo per essere incoronato una seconda volta.
2) Circa la questione della prodigalità, non basta, per giustificare l’“informazione” di Dante, la Satira VII di Giovenale dove si dice che Stazio era molto povero (e quindi prodigo, visto che era poeta di successo); infatti la gloria poetica (lo lamenta lo stesso Giovenale) non comportava ricchezza. E’ da supporre, come anche per l’“informazione” della conversione di Stazio, una fonte biografica a noi ignota.
3) Il doppio peccato (avarizia-prodigalità) compare solo qui, e, checché ne dica ora Stazio[14], mal si concilia con il contrappasso e con i personaggi incontrati nelle altre cornici. Evidentemente a Dante preme stigmatizzare questo peccato (la prodigalità) che altrimenti dalla cultura cortese è ritenuto pregio, segno di gentilezza (allo stesso modo, in XXII, 11-12, viene contestato il grande pregiudizio cortese della irresistibilità dell’amore); e la denuncia della prodigalità è già in una delle Rime ed in una canzone del Convivio.
4) Il senso dei due versi virgiliani (Aen. III, 56-57: “Quid non mortalia pectora cogis, / auri sacra fames?”, cioè “a che cosa non spingi tu, esecranda fame dell’oro, gli animi umani?”) è evidentemente frainteso: in Virgilio è inequivocabile la denuncia dell’avarizia-avidità (Polinestore ha ucciso Polidoro per impadronirsi delle sue ricchezze); in Dante (che traduce: “perché non reggi tu, o sacra fame / dell’oro, l’appetito de’ mortali?”, e intende: “perché non governi tu – con giusta misura – i desideri umani, o santa – quando sentita con giusta misura – fame dell’oro?” ) è inteso come rivendicazione di un giusto desiderio di ricchezza e diventa monito contro la prodigalità[15]. Siccome è inaccettabile l’idea di una incomprensione di Dante, si deve pensare ad una interpretazione volontaria, secondo la convinzione medievale che dietro le parole poetiche si nascondano più sensi (e che quindi sia legittimo trovare quello che si cerca).
5) Circa il cristianesimo di Stazio, si cercano argomenti nella Tebaide[16] ; ma quella della conversione (e del restare “cristiano chiuso”) è un topos medievale, attribuito anche ad autori vissuti prima di Cristo (e, insieme alla questione della prodigalità, ci fa supporre una biografia medievale a noi sconosciuta).
 
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[13]Saranno scoperte in epoca umanistica da Poggio Bracciolini. 
[14]in Pg. XXII, 49-51. In medio stat virtus, secondo un principio aristotelico, prima che d’Orazio. 
[15]Sapegno cerca di salvare capra e cavoli; leggendo “per che” e forzando il senso sia di “sacra” che di “reggi”, intende: “a quali opere non conduci  tu, o esecranda  fame ecc.”.

[16]Nella descrizione dell’ara della Clemenza si allude ad una divinità superiore che non ha bisogno di sacrifici; Teseo che si presenta come pacificatore è figura Christi; Tiresia minaccia di evocare una divinità superiore e sconosciuta (così aveva interpretato lo stesso Poliziano).
 

Purgatorio: il canto VIII

Il canto VIII del Purgatorio
 
BOSCO-REGGIO, commento al Purgatorio;
Introduzione  al canto.
 
Se nel Purgatorio il sentimento dominante è quello della nostalgia, il canto VIII è quello dove tale sentimento si dispiega più pienamente: nostalgia dell’esule dalla patria terrena, come si avverte nelle famose terzine iniziali del canto (e il motivo dell’esilio ritorna in quelle conclusive, nell’incontro con Corrado Malaspina), e nostalgia delle anime dalla patria celeste, come si avverte nella loro preghiera e nella loro trepidante attesa dell’evento temuto.
Il canto, similmente ad If. X, ha una struttura particolare, fatta di intrecci e riprese successive: dopo l’incipit e la preghiera delle anime (e l’avvertimento al lettore di “aguzzare gli occhi”), inizia la “sacra rappresentazione” con l’arrivo degli angeli e la loro collocazione agli estremi della valletta; quindi c’è l’incontro con Nino Visconti; segue un intermezzo astronomico, quindi la ripresa e conclusione della “sacra rappresentazione” (arrivo del serpente  e sua cacciata); chiude il canto il dialogo con Corrado Malaspina.
L’incontro con Nino è l’incontro con un vecchio amico, legato a piacevoli ricordi di giovinezza, verso il quale Dante ha lo stesso slancio di nostalgico affetto che ha avuto per Casella, Belacqua, e avrà per Forese. Eppure quel capo guelfo era stato protagonista di quelle stesse lotte feroci che avevano dannato orribilmente il di lui nonno materno, conte Ugolino: ma qui il motivo politico è del tutto offuscato da un altro motivo, quello del marito dimenticato dalla vedova (Beatrice d’Este), risposatasi con un altro uomo (Galeazzo Visconti, signore di Milano), per di più ghibellino: il personaggio vive nella amarezza di questa dimenticanza, un sentimento che trascolora nella compassione (non ci può essere rancore) per la sorte della vedova, cui il nuovo matrimonio non ha portato fortuna (cacciato il Visconti da Milano, per lei e per la figlia ci sono stati solo dolore e povertà).
Quanto alla “sacra rappresentazione”, ciò che succede (ed in questo senso sarà da intendersi l’avvertimento ai lettori: sia che voglia dire che è facile vedere la verità, sia che è facile fraintenderla) non riguarda, evidentemente, anime già salve, ma tutti i vivi, sempre soggetti al rischio della tentazione (l’intermezzo astronomico significherà allora che in una tale lotta non bastano le forze umane - virtù cardinali - ma ci vuole la Grazia divina - virtù teologali); e le spade tronche degli angeli significheranno non tanto che servono per difesa quanto che basta solo mostrarle per ricordare all’avversaro” l’antica sconfitta.
L’atteggiamento di Corrado (che fissa Dante, indifferente sia alle parole di Nino che alla “sacra rappresentazione”) ricorda quello di Cavalcante in If. X: con l’elogio della sua famiglia Dante non solo paga un debito di gratitudine (esule, sarà ospitato dai Malaspina), ma esprime un sincero sentimento di nostalgia per le virtù cavalleresche (“il pregio della borsa e de la spada”: cortesia e valore) che si vanno perdendo con l’affermarsi della società mercantile.
 

Purgatorio: il canto V

Il canto V del Purgatorio e Pia
 
BOSCO-REGGIO, commento al Purgatorio ;
introduzione al canto V.
 
Il canto inizia con il rimprovero di Virgilio perché Dante si è lasciato distrarre dall’ammirazione delle anime: l’evidente sproporzione tra l’occasione (un semplice rallentamento) e l’ampiezza (e asprezza) del rimprovero si spiega pensando che si sono appena lasciati i pigri, e quindi il monito è generale contro la pigrizia e la mancanza di determinazione verso la meta.
Sapegno nota come la nuova schiera si caratterizzi già all’apparire (vedi il paragone coi vapori accesi) per una sorta di affanno o di agitazione, che certo non c’era nei pigri (e nemmeno negli scomunicati): segno di un desiderio più intenso di comunicare con Dante, e segno della loro “morte per forza” che li ha lasciati più timorosi di essere dimenticati dai vivi (e quindi più vogliosi di essere ricordati).
E poi la narrazione dettagliata, concreta (sembra una sceneggiatura cinematografica), punteggiata da riferimenti al sangue (di Jacopo e Bonconte) in un crescendo drammatico che ha il suo culmine nella descrizione della tempesta che travolge il corpo di Bonconte: quindi lo stacco, il mutamento di tono, appena quattro versi in cui la Pia non descrive, non dice chiaramente, ma allude.
Di lei niente sappiamo: uccisa perché infedele? Per una immotivata gelosia del marito? Perché questi voleva convolare a nuove nozze? Tutto può essere (e poeticamente può tornare). Ma quel che c’è nel testo è la pietà affettuosa con cui la figura è disegnata: anche le due anime precedenti erano state cortesi con Dante, ma quella di Pia è una cortesia tutta femminile, fatta di riferimenti alla fatica fisica, tutta umana, del viaggio (e non, una volta tanto, al suo valore salvifico); e il modo di riferirsi alla propria morte (dissolve la figura dell’assassino in quella dello sposo) fa contrasto con la maledizione di Francesca (Caina attende chi a vita ci spense”, Inf. V, 107) e si collega al tono non accusatorio, pudico, di Piccarda (“Uomini, poi, a mal più ch’a bene usi...”, Pd. III, 106).
 

Purgatorio: la "libertà" di Catone

Catone guardiano del Purgatorio
 
BOSCO-REGGIO, commento al Purgatorio ;
introduzione al canto I.
 
Come mai Catone (l’Uticense; stoico, repubblicano, e quindi fiero pompeiano, nato nel 95 a. C., si uccise in Utica nel 46 a. C., pur di non arrendersi alla vittoria di Cesare), pur essendo pagano, suicida ed anti-cesariano, è assunto da Dante a guardiano del Purgatorio, è inteso come un modello insuperabile di virtù?
C’è tutta una tradizione classica (da Lucano nei Pharsalia[9], a Cicerone nel De Officiis[10], allo stesso Virgilio, che ne fa il custode dei “pii” nell’oltretomba[11]) che esalta la sua figura come quella di un eroe che rinuncia alla vita per la libertà. E Dante risente di tale tradizione, già nel Convivio  (IV, XXVIII, 15-19: “quale uomo terreno fu più degno di significare Iddio, che Catone?”) e nel Monarchia (II, V, 15: “illud inenarrabile sacrificium severissimi vere libertatis auctoris Marci Catonis”).
Allora, quanto al pagano: trascende tale condizione, è salvato per via misteriosa dalla Grazia (e quindi “estratto” dal Limbo insieme ai Patriarchi), perché ha trovato la luce pur essendo nelle tenebre del paganesimo. Quanto all’anti-cesariano: il fatto che la libertà sia perseguita contro Cesare, è occasionale, legato alla contingenza storica: la libertà cercata è allegoria (meglio: figura[12]) di quella interiore, dello spirito sulla materia, della virtù sulle passioni. Cesare e Catone sono quindi su piani diversi: l’uno rappresenta l’esplicitarsi della Provvidenza sul piano della storia, l’altro un valore metastorico (quello della libertà interiore).
In questo senso la morale stoica si congiunge con quella cristiana, e allora anche il suicidio, pur negato dall’etica cristiana (ma Agostino e Tommaso lo ammettono, quando è ispirato da Dio perché sia di esempio agli uomini; e comunque, noterei che i pagani vanno giudicati in rapporto alla loro morale), diventa simbolo di una vittoria. Del resto, come è vero che Didone e Cleopatra, pur suicide, sono punite per la lussuria, così è vero che Catone, pur suicida, può essere assunto a modello di virtù: quella virtù, la libertà interiore, che anche Dante cerca, attraverso il viaggio.

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[9]In IX, 601-2, è detto “parens verus patriae, dignissimus aris, Roma, tuis ”; ma anche altrove.
[10]I, 31: “Per tutti gli altri, che vivono superficialmente,  il suicidio potrà essere una colpa; non per Catone, che ebbe per natura, e mantenne per tutta la vita, una straordinaria intransigenza morale; cosicché per lui fu più giusto morire che vedere il volto della tirannide.” 
[11]Eneide, VIII, 670: nello scudo divino di Enea, in cui sono rappresentati episodi della storia romana, si vede Catone “iura dantem ” ai pii nell’Averno.
[12]Sulla interpretazione “figurale” di Catone, v. E. AUERBACH, Studi su Dante, Feltrinelli 1974, pp. 213-15; E. RAIMONDI, Metafora e storia, Einaudi 1970, pp. 75-83.