LEOPARDI (testi)

Contro il suicidio
 
dal Dialogo di Plotino e Porfirio
 
PLOTINO – Sia ragionevole l'uccidersi; sia contro ragione l'accomodar l'animo alla vita: certamente quello è un atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo. E perché anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta, e per l'atrocità del caso? Io so bene che non dee l'animo del sapiente essere troppo molle; né lasciarsi vincere dalla pietà e dal cordoglio in guisa, che egli ne sia perturbato, che cada a terra, che ceda e che venga meno come vile, che si trascorra a lagrime smoderate, ad atti non degni della stabilità di colui che ha pieno e chiaro conoscimento della condizione umana. Ma questa fortezza d'animo si vuole usare in quegli accidenti tristi che vengono dalla fortuna, e che non si possono evitare; non abusarla in privarci spontaneamente, per sempre, della vista, del colloquio, della consuetudine dei nostri cari. Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl'intrinsechi, dei compagni; o non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici; è di non curante d'altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo.
In ultimo, Porfirio mio, le molestie e i mali della vita, benché molti e continui, pur quando, come in te oggi si verifica, non hanno luogo infortuni e calamità straordinarie, o dolori acerbi del corpo; non sono malagevoli da tollerare; massime ad uomo saggio e forte, come tu sei. E la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l'uomo, in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla. Perciò, senza voler ponderare la cosa troppo curiosamente; per ogni lieve causa che se gli offerisca di appigliarsi piuttosto a quella prima parte che a questa, non dovria ricusare di farlo. E pregatone da un amico, perché non avrebbe a compiacergliene? Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin qui è durata l'amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l'anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce. Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che così, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Si bene attendiamo a tenerci compagnia l'un l'altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell'ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora.


Il coraggio della verità
dal Dialogo di Tristano e un amico
 
TRISTANO – …. Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti. Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo. Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare. Nessun filosofo che insegnasse l'una di queste tre cose, avrebbe fortuna né farebbe setta, specialmente nel popolo: perché, oltre che tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, le due prime offendono la superbia degli uomini, la terza, anzi ancora le altre due, vogliono coraggio e fortezza d'animo a essere credute. E gli uomini sono codardi, deboli, d'animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perché sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro vita… Io per me, come l'Europa meridionale ride dei mariti innamorati delle mogli infedeli, così rido del genere umano innamorato della vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come sciocchi, ed oltre ai mali che si soffrono, essere quasi lo scherno della natura e del destino. Parlo sempre degl'inganni non dell'immaginazione, ma dell'intelletto. Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn'inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell'infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. La quale se non è utile ad altro, procura agli uomini forti la fiera compiacenza di vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del destino umano.
 
 
“Quali che siano le mie sventure, che si è creduto giusto sbandierare e forse un po’ esagerare..., io ho avuto abbastanza coraggio per non cercare di diminuirne il peso, né con frivole speranze di una pretesa felicità futura, né con una vile rassegnazione... Ed è proprio per questo coraggio che, essendo stato condotto dalle mie vicende ad una filosofia disperata, non ho esitato ad abbracciarla tutta intera; mentre, d’altro canto, è stato solo per effetto della debolezza degli uomini, che hanno bisogno d’essere persuasi del valore dell’esistenza, che si è voluto vedere le mie opinioni filosofiche come il risultato delle mie sofferenze individuali e che ci si ostina ad attribuire alle mie circostanze materiali, ciò che si deve solo al mio intelletto. Prima di morire, io voglio protestare contro queste invenzioni della debolezza e della volgarità, e pregherò i miei lettori di cercare di demolire le mie osservazioni e i miei ragionamenti, piuttosto che accusare i miei malanni. (dalla lettera al De Sinner del 24/5/1832)
Il pessimismo “cosmico”
Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.
Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell'anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell'altro ha più foglie secche; quest'altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co' tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. (Bologna. 19. Aprile. 1826.). Certamente queste piante vivono; alcune perchè le loro infermità non sono mortali, altre perchè ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all'entrare in questo giardino ci rallegra l'anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l'essere.  (Zibaldone, 22. Apr. 1826)
La noia
La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall'esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali. (Pensieri, LXVIII)
Riflessioni sulla poesia 
La poesia sentimentale
Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi erano pieni d'immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva… In somma il mio stato era allora in tutto e per tutto come quello degli antichi. Ben è vero che anche allora, quando le sventure mi stringevano e mi travagliavano assai, io diveniva capace anche di certi affetti in poesia...  La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819, dove privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose…, a divenir filosofo di professione (di poeta ch'io era), a sentire l'infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. Allora l'immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e quantunque la facoltà dell'invenzione allora appunto crescesse in me grandemente, anzi quasi cominciasse, verteva però principalmente, o sopra affari di prosa, o sopra poesie sentimentali. E s'io mi metteva a far versi, le immagini mi venivano a sommo stento, anzi la fantasia era quasi disseccata (anche astraendo dalla poesia, cioè nella contemplazione delle belle scene naturali ec. come ora ch'io ci resto duro come una pietra); bensì quei versi traboccavano di sentimento. Così si può ben dire che in rigor di termini, poeti non erano se non gli antichi, e non sono ora se non i fanciulli o giovanetti, e i moderni che hanno questo nome, non sono altro che filosofi. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo. (1° Luglio 1820.).
La poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di questo secolo, come la vera e semplice (voglio dire non mista) poesia immaginativa fu unicamente ed esclusivamente propria de' secoli Omerici, o simili a quelli in altre nazioni. Dal che si può ben concludere che la poesia non è quasi propria de' nostri tempi, e non farsi maraviglia, s'ella ora langue come vediamo, e se è così raro non dico un vero poeta, ma una vera poesia. Giacchè il sentimentale è fondato e sgorga dalla filosofia, dall'esperienza, dalla cognizione dell'uomo e delle cose, in somma dal vero, laddove era della primitiva essenza della poesia l'essere ispirata dal falso. E considerando la poesia in quel senso nel quale da prima si usurpava, appena si può dire che la sentimentale sia poesia, ma piuttosto una filosofia, un'eloquenza, se non quanto è più splendida, più ornata della filosofia ed eloquenza della prosa. Può anche esser più sublime e più bella, ma non per altro mezzo che d'illusioni, alle quali non è dubbio che anche in questo genere di poesia si potrebbe molto concedere, e più di quello che facciano gli stranieri. (8. Marzo 1821).
La poetica dell’indefinito
È cosa osservata degli antichi poeti ed artefici, massimamente greci, che solevano lasciar da pensare allo spettatore o uditore più di quello ch’esprimessero. E quanto alla cagione di ciò, non è altra che la loro semplicità e naturalezza, per cui non andavano come i moderni dietro alle minuzie della cosa, dimostrando evidentemente lo studio dello scrittore, che non parla o descrive la cosa come la natura stessa la presenta, ma va sottilizzando, notando le circostanze, sminuzzando e allungando la descrizione per desiderio di fare effetto, cosa che scuopre il proposito, distrugge la naturale disinvoltura e negligenza, manifesta l’arte e l’affettazione, ed introduce nella poesia a parlare più il poeta che la cosa... Ma tra gli effetti di questo costume, dico effetti e non cagioni, giacchè gli antichi non pensavano certamente a questo effetto, e non erano portati se non dalla causa che ho detto, è notabilissimo quello del rendere l’impressione della poesia o dell’arte bella, infinita, laddove quella de’ moderni è finita. Perchè descrivendo con pochi colpi, e mostrando poche parti dell’oggetto, lasciavano l’immaginazione errare nel vago e indeterminato di quelle idee fanciullesche, che nascono dall’ignoranza dell’intiero. Ed una scena campestre per esempio dipinta dal poeta antico in pochi tratti, e senza dirò così, il suo orizzonte, destava nella fantasia quel divino ondeggiamento d’idee confuse, e brillanti di un indefinibile romanzesco, e di quella eccessivamente cara e soave stravaganza e maraviglia, che ci solea rendere estatici nella nostra fanciullezza. Dove che i moderni, determinando ogni oggetto, e mostrandone tutti i confini, son privi quasi affatto di questa emozione infinita, e invece non destano se non quella finita e circoscritta, che nasce dalla cognizione dell’oggetto intiero, e non ha nulla di stravagante, ma è propria dell’età matura, che è priva di quegl’inesprimibili diletti della vaga immaginazione provati nella fanciullezza. (8. Gennaio 1820.)
Le parole
Le parole come osserva il Beccaria (Trattato dello stile) non presentano la sola idea dell'oggetto significato, ma quando più quando meno [110] immagini accessorie. Ed è pregio sommo della lingua l'aver di queste parole. Le voci scientifiche presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto, e perciò si chiamano termini perchè determinano e definiscono la cosa da tutte le parti. Quanto più una lingua abbonda di parole, tanto più è adattata alla letteratura e alla bellezza ec. ec. e per lo contrario quanto più abbonda di termini, dico quando questa abbondanza noccia a quella delle parole, perchè l'abbondanza di tutte due le cose non fa pregiudizio. Giacchè sono cose ben diverse la proprietà delle parole e la nudità o secchezza, e se quella dà efficacia ed evidenza al discorso, questa non gli dà altro che aridità. Il pericolo grande che corre ora la lingua francese è di diventar lingua al tutto matematica e scientifica, per troppa abbondanza di termini in ogni sorta di cose, e dimenticanza delle antiche parole. Benchè questo la rende facile e comune, perch'è la lingua più artifiziale e geometricamente nuda ch'esista oramai. (30 Aprile 1820)
Le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perchè destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse. (25. Sett. 1821.)
Le parole notte notturno ec. le descrizioni della notte ec. sono poeticissime, perchè la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta, sì di essa, che quanto ella contiene. Così oscurità, profondo. ec. ec. (28. Sett. 1821.)
Le parole che indicano moltitudine, copia, grandezza, lunghezza, larghezza, altezza, vastità ec. ec. sia in estensione, o in forza, intensità ec. ec. sono pure poeticissime, e così le immagini corrispondenti. Come nel Petrarca
Te solo aspetto, e quel che tanto amasti,
E laggiuso è rimaso, il mio bel velo.
E in Ippolito Pindemonte
Fermossi alfine il cor che balzò tanto.
Dove notate che il tanto essendo indefinito, fa maggiore effetto che non farebbe molto, moltissimo eccessivamente, sommamente. Così pure le parole e le idee ultimo, mai più, l’ultima volta ec. ec. sono di grand’effetto poetico, per l’infinità. ecc. (3. Ott. 1821.)
Antichi, antico, antichità; posteri, posterità sono parole poeticissime ec. perchè contengono un'idea 1. vasta, 2. indefinita ed incerta, massime posterità della quale non sappiamo nulla, ed antichità similmente è cosa oscurissima per noi. Del resto tutte le parole che esprimono generalità, o una cosa in generale, appartengono a queste considerazioni. (20 Dic. 1821).
I suoni
Quello che altrove ho detto sugli effetti della luce, o degli oggetti visibili, in riguardo all’idea dell’infinito, si deve applicare parimente al suono, al canto, a tutto ciò che spetta all’udito. È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per un’idea vaga ed indefinita che desta, un canto (il più spregevole) udito da lungi, o che paia lontano senza esserlo, o che si vada appoco appoco allontanando, e divenendo insensibile; o anche viceversa (ma meno), o che sia così lontano, in apparenza o in verità, che l’orecchio e l’idea quasi lo perda nella vastità degli spazi; un suono qualunque confuso, massime se ciò è per la lontananza; un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; un canto che risuoni per le volte di una stanza ec. dove voi non vi troviate però dentro; il canto degli agricoltori che nella campagna s’ode suonare per le valli, senza però vederli, e così il muggito degli armenti ec. Stando in casa, e udendo tali canti o suoni per la strada, massime di notte, si è più disposti a questi effetti, perchè nè l’udito nè gli altri sensi non arrivano a determinare nè circoscrivere la sensazione, e le sue concomitanze. È piacevole qualunque suono (anche vilissimo) che largamente e vastamente si diffonda, come in taluno dei detti casi, massime se non si vede l’oggetto da cui parte. A queste considerazioni appartiene il piacere che può dare e dà (quando non sia vinto dalla paura) il fragore del tuono, massime quand’è più sordo, quando è udito in aperta campagna; lo stormire del vento, massime nei detti casi, quando freme confusamente in una foresta, o tra i vari oggetti di una campagna, o quando è udito da lungi, o dentro una città trovandosi per le strade ec. Perocchè oltre la vastità, e l’incertezza e confusione del suono, non si vede l’oggetto che lo produce, giacchè il tuono e il vento non si vedono. È piacevole un luogo echeggiante, un appartamento ec. che ripeta il calpestio de’ piedi, o la voce ec. Perocchè l’eco non si vede ec. E tanto più quanto il luogo e l’eco è più vasto, quanto più l’eco vien da lontano, quanto più si diffonde; e molto più ancora se vi si aggiunge l’oscurità del luogo che non lasci determinare la vastità del suono, nè i punti da cui esso parte ec. ec. E tutte queste immagini in poesia ec. sono sempre bellissime... (16. Ott. 1821.)
Una voce o un suono lontano, o decrescente e allontanantesi appoco appoco, o eccheggiante con un’apparenza di vastità ec. ec. è piacevole per il vago dell’idea ec. Però è piacevole il tuono, un colpo di cannone, e simili, udito in piena campagna, in una gran valle ec. il canto degli agricoltori, degli uccelli, il muggito de’ buoi ec. nelle medesime circostanze. (21. Sett. 1827.)
La rimembranza
Osservate che forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come un influsso e una conseguenza di lei; o in genere, o anche in ispecie; vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, ec. perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione immagine ec. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse circostanze. Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un'immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine antica. E ciò accade frequentissimamente. (Così io, nel rivedere quelle stampe piaciutemi vagamente da fanciullo, quei luoghi, spettacoli, incontri, ec. nel ripensare a quei racconti, favole, letture, sogni ec. nel risentire quelle cantilene udite nella fanciullezza o nella prima gioventù ec.) In maniera che, se non fossimo stati fanciulli, tali quali siamo ora, saremmo privi della massima parte di quelle poche sensazioni indefinite che ci restano, giacchè la proviamo se non rispetto e in virtù della fanciullezza. E osservate che anche i sogni piacevoli nell'età nostra, sebbene ci dilettano assai più del reale, tuttavia non ci rappresentano più quel bello e quel piacevole indefinito come nell'età prima spessissimo. (16. Gennaio 1821.).
Un oggetto qualunque, p. e. un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in se, sarà poeticissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perchè il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago. (Recanati. 14. Dic. Domenica. 1828.)
La doppia visione
All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione. (30. Nov. 1828.).
 


Ad Angelo Mai
 
       quand'ebbe trovato i libri di Cicerone della "Repubblica"
 
La canzone è del gennaio del 1820. Leopardi si rivolge al cardinale Angelo Mai, in occasione del ritrovamento suddetto, chiedendogli, e chiedendosi, se abbia senso riportare alla luce documenti della virtù e della magnanimità degli antichi, visto che tali doti sono misconosciute e anzi disprezzate nel mondo contemporaneo; quindi prosegue:      
 
 
          46        Bennato ingegno[1], or quando altrui non cale
        47   De' nostri alti parenti,
        48   A te ne caglia, a te cui fato aspira
        49   Benigno sì che per tua man presenti
        50   Paion que' giorni allor che dalla dira
        51   Obblivione antica ergean la chioma,
        52   Con gli studi sepolti,
        53   I vetusti divini, a cui natura
        54   Parlò senza svelarsi, onde i riposi
        55   Magnanimi allegràr d'Atene e Roma[2].
        56   Oh tempi, oh tempi avvolti
        57   In sonno eterno![3] Allora anco immatura
        58   La ruina d'Italia, anco sdegnosi
        59   Eravam d'ozio turpe, e l'aura a volo
        60   Più faville rapia da questo suolo[4].
 
        61        Eran calde le tue ceneri sante,
        62   Non domito nemico
        63   Della fortuna, al cui sdegno e dolore
        64   Fu più l'averno che la terra amico.[5]
        65   L'averno: e qual non è parte migliore
        66   Di questa nostra?[6] E le tue dolci corde
        67   Susurravano ancora
        68   Dal tocco di tua destra, o sfortunato
        69   Amante.[7] Ahi dal dolor comincia e nasce
        70   L'italo canto. E pur men grava e morde
        71   Il mal che n'addolora
        72   Del tedio che n'affoga.[8] Oh te beato,
        73   A cui fu vita il pianto! A noi le fasce
        74   Cinse il fastidio; a noi presso la culla
        75   Immoto siede, e su la tomba, il nulla.[9]
 
        76        Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,
        77   Ligure ardita prole,
        78   Quand'oltre alle colonne, ed oltre ai liti
        79   Cui strider l'onde all'attuffar del sole
        80   Parve udir su la sera, agl'infiniti
        81   Flutti commesso, ritrovasti il raggio
        82   Del Sol caduto, e il giorno
        83   Che nasce allor ch'ai nostri è giunto al fondo;[10]
        84   E rotto di natura ogni contrasto,
        85   Ignota immensa terra al tuo viaggio
        86   Fu gloria, e del ritorno
        87   Ai rischi.[11] Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
        88   Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto
        89   L'etra sonante e l'alma terra e il mare
        90   Al fanciullin, che non al saggio, appare.[12]
 
        91        Nostri sogni leggiadri ove son giti
        92   Dell'ignoto ricetto
        93   D'ignoti abitatori, o del diurno
        94   Degli astri albergo, e del rimoto letto
        95   Della giovane Aurora, e del notturno
        96   Occulto sonno del maggior pianeta?[13]
        97   Ecco svaniro a un punto,
        98   E figurato è il mondo in breve carta;
        99   Ecco tutto è simile, e discoprendo,
       100   Solo il nulla s'accresce.[14] A noi ti vieta
       101   Il vero appena è giunto,
       102   O caro immaginar; da te s'apparta
       103   Nostra mente in eterno; allo stupendo
       104   Poter tuo primo ne sottraggon gli anni;
       105   E il conforto perì de' nostri affanni.[15]
      
La canzone prosegue rievocando grandi individualità che seppero mantenere viva la facoltà immaginativa (come Ariosto, capace ancora di creare le belle favole dell'Orlando furioso) e che, sempre più isolati in un mondo sempre più incapace di comprendere la grandezza del loro animo, cercarono di contrastare la decadenza inesorabile dei tempi dopo il Rinascimento (come Tasso, che dovette pagare con la segregazione in manicomio il prezzo della incomprensione; o come Alfieri, il solo capace, in tempi recenti, di esprimere sentimenti antichi, quali l'amore per la libertà e l'odio per la tirannide).
La canzone si conclude con l'esortazione al cardinale di proseguire nella sua opera, affinché "questo secol di fango", sentendo le voci dell'antica grandezza, o ritrovi il desiderio di compiere "atti illustri" (belle imprese, di pensiero e di azione), o si vergogni della propria mediocrità.
 


[1] O ingegno di valore (nato per bene operare: si rivolge al cardinale)
[2] Dal momento che agli altri non importa niente (altrui non cale) dei nostri grandi progenitori (alti parenti; si riferisce agli autori classici), ne importi a te (a te ne caglia), a te che il fato ispira così benevolmente che, per opera tua, sembrano rivivere quei tempi in cui (si riferisce ai tempi del Rinascimento, quando era rinato l’amore per gli autori classici) i divini antichi (i grandi dell’antichità) risollevavano la testa (ergean la chioma),  dalla funesta e secolare dimenticanza (dira obblivione antica) in cui erano caduti; la risollevavano, insieme con (grazie a) gli studi classici dimenticati, quegli antichi ai quali la natura parlò senza svelare tutti i suoi segreti (che avevano il privilegio di comunicare con la natura pur senza conoscerla scientificamente), per cui (onde) poterono allietare (con la loro poesia, derivata dalla suddetta comunicazione con la natura) i momenti di riposo dei loro contemporanei, Greci e Romani, dotati di grande animo (capaci di grandi pensieri e di grandi azioni).
[3] Oh tempi (del Rinascimento) dimenticati per sempre.
[4] Allora era ancora lontana (anco immatura) la rovina d’Italia, ancora disdegnavamo (noi italiani) questa inerzia vergognosa (ozio turpe), e da questa nostra terra (italica) ancora si alzavano nell’aria numerose scintille (esistevano ancora individui e azioni di valore, prima che tutto si riducesse a cenere).
[5] Si riferisce a Dante: eri morto da poco tempo (rispetto al Rinascimento), nemico indomabile della sorte, alla cui ira e alla cui sofferenza fu più di conforto l’inferno (nel quale vagò con la sua fantasia) che la terra (nella quale dovette sempre combattere contro le avversità).
[6] E quale parte (dell’universo) non è migliore di questa in cui viviamo (cioè, della terra)?
[7] Si riferisce a Petrarca: e le dolci corde (della tua lira, idealmente suonata dal poeta lirico) risuonavano ancora, toccate dalla tua mano, o infelice innamorato (cioè, si sentiva ancora, sempre nel Rinascimento, l’eco della tua poesia).
[8] La poesia italica comincia dal dolore (si riferisce sempre a Petrarca). Eppure il male che procura dolore è meno gravoso della noia (del senso di vuoto, di nullità di tutte le cose), nella quale oggi affoghiamo.
[9] Beato te, che vivesti nel pianto (perché per tutta la vita hai provato un sentimento forte, come l’amore, anche se ti ha procurato sempre dolore).  Per noi, sin dalla nascita, non c’è che fastidio; su di noi incombe inamovibile, dalla culla alla tomba, il sentimento della nullità.
[10] Si riferisce a Colombo: invece la tua vita, o coraggioso figlio della Liguria, era allora (ai tempi del Rinascimento) con le stelle e con il mare, quando, al di là delle colonne (d’Ercole), al di là di quelle coste (le coste atlantiche dell’Europa occidentale) dalle quali sembrava di sera sentire stridere le onde del mare perché il sole ci si tuffava dentro (questa doveva essere l’impressione, per gli antichi, vedendo il sole tramontare nell’oceano), tu, affidato allo sterminato oceano (agl’infiniti flutti commesso), ritrovasti (nell’altro emisfero, scoprendo l’America) la luce del sole che era tramontato (nel nostro emisfero) e ritrovasti (sempre, nell’altro emisfero) il giorno che nasce allorché nel nostro emisfero è giunto al termine.
[11] E, superato ogni ostacolo della natura, la scoperta di una immensa terra sconosciuta (l’America) fu la ricompensa gloriosa per il tuo viaggio e per i pericoli del ritorno.
[12] Ma il mondo, quando è conosciuto, non cresce (non appare più grande), anzi diminuisce (appare più piccolo); e il cielo (etra) in cui si propaga il suono (sonante) e la terra che dà nutrimento (alma) e il mare appaiono più vasti ad un bambino (che vaga senza limiti con l’immaginazione) che non al sapiente (che conosce scientificamente i limiti del reale).
[13] Dove sono andati (son giti) i nostri bei sogni (cioè, le favole degli antichi, i miti) su sconosciuti luoghi (ignoto ricetto) abitati da gente sconosciuta, o sul luogo dove dimorano di giorno (diurno albergo) le stelle, e sul letto dove riposa di notte la giovinetta Aurora , e sul luogo segreto dove di notte dorme (notturno occulto sonno) il sole (maggior pianeta)? (sono tutti miti che potevano sussistere finché non si conosceva la realtà dell’altro emisfero, e quindi si poteva immaginare che ci abitasse chissà chi, che di giorno vi soggiornassero le stelle, che di notte ci dormisse il sole – visto che scomparivano dal nostro emisfero -  o anche Aurora, immaginata come una fanciulla che si alzava ogni mattina per comparire ad oriente)  
[14] Tutti questi sogni sono svaniti d’un tratto e tutto il mondo è raffigurato in una piccola carta (geografica). Tutto è uniforme e, scoprendo la realtà, cresce solo il sentimento della nullità di tutte le cose
[15] O cara immaginazione, la scoperta della verità ( la conoscenza scientifica della realtà) ti elimina dalla nostra mente (a noi ti vieta); la nostra mente si separa da te irrimediabilmente; gli anni (tanto il progresso storico, quanto la crescita individuale) ci impediscono per sempre di godere del tuo primordiale e stupefacente potere;  e insieme a te perisce la consolazione dei nostri dolori.
 
 

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