FOSCOLO (schede)

 

Le ultime lettere di Jacopo Ortis

 
PETRONIO, L'attività letteraria in Italia

 
La prima notizia risale al 1796: nel Piano di studi  (un progetto di dare sistematicità alla propria cultura) si parla di Laura, lettere, un romanzo verosimilmente ispirato dall’amore per la Teotochi Albrizzi e dalla lettura di Rousseau (e di Goethe?). La prima pubblicazione è del 1798-99, a Bologna, con il titolo Vera istoria di due amanti infelici: in assenza di Foscolo (impegnato nella guerra contro gli Austro-Russi), l'editore (Marsigli) si serve di un certo Angelo Sassoli, che manipola arbitrariamente la storia (soppressione del suicidio, delle parti politicizzate, ecc.). Dopo Marengo, Foscolo sconfessa Marsigli e cura la edizione milanese del 1802, che è quella decisiva (sono sottolineate le componenti politiche). Del 1816 è l'edizione di Zurigo, che contiene, come variante di maggior rilievo, la lettera del 17 marzo 1798, dai toni fortemente antinapoleonici. Senza mutamenti sostanziali è invece l'edizione londinese del 1817.

Sono lettere a un certo Lorenzo Alderani, il quale non solo le ordina per la pubblicazione, ma interviene nel finale per narrare le ultime vicende (il suicidio). Il romanzo epistolare ha precedenti che Foscolo sembra conoscere: Clarissa (1) (1748) di Richardson, la Nouvelle Heloise (2) (1761) di Rousseau, ma, soprattutto, I dolori del giovane Werther (1774 e 1782) di Goethe. Rispetto a quest'ultimo (con il quale le analogie sono vistose) si rilevano le differenze: anzitutto, l'Ortis è autobiografico e il protagonista si uccide non solo per la delusione d'amore (com'è esclusivamente per Werther), ma anche per quella politica; sensibile e generoso è l'Alberto del Werther (farà felice Carlotta), borghese, meschino e calcolatore (un vero anti-Jacopo) è l'Odoardo  (il "promesso" di Teresa) dell'Ortis.

L'eroe che si uccide per tener fede all'ideale è alfieriano, ma quell'aristocratico isolamento è superato nel recupero di miti ("illusioni") collettivi, o "idealità connettive" (Asor Rosa): Amore, Famiglia, Patria.

C'è già la coscienza del limite del materialismo sensistico e la rivendicazione della necessità delle illusioni. E c'è il motivo della passione (con relativi riecheggiamenti "ossianici") contrapposta all'intelletto ragionatore: vedi l'opposizione fra Jacopo (sensibile, appassionato, idealista) e Odoardo (saggiamente mediocre, senza ambizioni e senza passioni).
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1) Protagonista è la fanciulla, che non accetta un matrimonio combinato; finisce fra le mani di un seduttore (Robert Lovelace) che cerca di avviarla alla prostituzione; muore di dolore, sola e disonorata. Confida le sue disgrazie in lettere ad un'amica.



2) Storia (ricostruita attraverso le lettere dei protagonisti) dell'amore contrastato (e non realizzato, perché Giulia, nobile, è costretta dalla sua famiglia a sposare un nobile) fra Giulia e il suo precettore, di umili origini, Saint-Preux.



Strutture espressive dei grandi sonetti


A. MARCHESE, Le strutture della critica letteraria,
 
 
I grandi sonetti sembrano essere un dialogo tra il poeta e una realtà sentimentale evocata: la Musa ("aonia diva"), la patria ("Zacinto mia"), il fratello Giovanni ("o fratel mio"), la quiete notturna ("o Sera!"). Si può parlare di una struttura evocativa-invocativa: il fantasma poetico (la realtà sentimentale evocata) sembra sorgere, quasi all'improvviso, da una profonda meditazione interiore.

Ciò spiega le aperture (gli attacchi), che si presentano come una sorta di ripresa conclusiva di un'intensa riflessione: "Pur tu copia versavi...", "Né più mai...", "Un dì, s'io non andrò...", "Forse perché...".

La dialettica spirituale si esprime come dialettica temporale, a sua volta resa sia attraverso i diversi tempi verbali (in A Zacinto: toccherò, giacque, specchi, ecc.) sia tramite avverbi e congiunzioni di tempo (più mai, un tempo, un dì, intanto, or, sempre, oggi, allora, ecc.). E' una dialettica che si articola fra tempi passati (che in A Zacinto sono evocazione di una mitica serenità perduta), presenti (amarezza dell'esilio), e futuri (disperata desolazione).

 
Mi pare una generalizzazione forzata: il discorso funziona in A Zacinto come alternanza fra passati e futuri (c'è un solo presente, "specchi", non significativo); in In morte del fratello Giovanni come alternanza fra presenti e futuri; in Alla sera domina il presente (ma Marchese dice che nel "nulla eterno" c'è la proiezione, nuovamente intrisa di dolore, nel futuro...).



La questione de Le Grazie


 
1803 - In appendice al commento alla traduzione della Chioma di Berenice (da Catullo) fa pubblicare quattro frammenti di un antico inno alle Grazie, scherzosamente attribuiti all’immaginario poeta alessandrino Fanocle.

1812-13 - Riprende il progetto nella villa di Bellosguardo, presso Firenze, ispirato dal Canova, che stava lavorando al gruppo delle tre Grazie.

1822 - A Londra pubblica una Dissertazione di un antico inno alle Grazie  (sul Velo delle Grazie).

Foscolo muore lasciandoci dei sommari, cioè dei progetti di ordinamento; ma solo recentemente se ne è fatta l’edizione critica (a cura di M. Scotti, nel 1985).

Il poema è dedicato a Canova. Concepito inizialmente come un solo inno, infine si articola in tre, rispettivamente intitolati a Venere (natura generatrice), a Vesta (dea dell’ingegno, o del focolare), a Pallade (dea delle arti e della sapienza). Sono celebrate le tre Grazie (Eufrosine, Aglaia, Talia), “divinità intermedie fra il cielo e la terra”, “abitatrici invisibili fra gli uomini”, di cui favoriscono l’umanizzazione e l’incivilimento (lo stesso tema ispira la Musogonia del Monti e Urania del Manzoni).

Le Grazie nascono dal mare Jonio, ed alimentano la civiltà greca; quindi, a seguito della caduta di Costantinopoli, si rifugiano in Italia, ove al loro culto si dedicano, sulla collina di Bellosguardo, tre “sacerdotesse” che simboleggiano varie attività artistiche: Eleonora Nencini (musica), Cornelia Rossi Martinetti (poesia), Maddalena Bignami (danza). Nel III° inno, Pallade le trasporta nell’isola di Atlantide, per proteggerle dalle passioni umane; per questo, fa tessere da alcune divinità minori (è Erato, la musa del bel canto, che detta a Flora i colori da usare e i ricami da fare) un velo sul quale sono raffigurate delle scene che rappresentano dei valori di civiltà, di spiritualizzazione: la giovinezza, l’amor coniugale, la pietà filiale (e per i vinti), l’ospitalità, la tenerezza materna. Ricoperte di tale velo potranno ritornare fra gli uomini, consolatrici e civilizzatrici.

 
Quello riportato è il progetto di Foscolo; ma si tratta, appunto, di un progetto, non sempre facilmente rintracciabile nella frammentarietà della composizione. Del resto tale frammentarietà, invece che essere un limite, svela la più autentica ispirazione foscoliana (e cioè lirica; come nei Sepolcri, “transvolat in medio posita”).
Non c’è più l’alta eloquenza (e l’impegno civile) dei Sepolcri: delle passioni resta “un calore di fiamma lontana”. La delusione storica si risolve in evasione in un mondo di pura bellezza ed alti valori (fra i quali, però, non ci sono più quelli di tipo “guerriero”: l’eroismo e il sacrificio per la patria). Ma si può riconoscere una “politicità trascendentale” del poema: il mondo presente s’intravvede in trasparenza, come la negazione che dev’essere negata. Le figurazioni neoclassiche non sono decorative, ma esprimono il bisogno, autenticamente sentito, di un mondo armonico e felice.
 

Da Ortis a Didimo
ovvero la regressione di Foscolo

 
G. LUTI, Introduzione a Scritti didimei,
Longanesi 1974, pp. 7-29.

 
Già nella formula di De Robertis (“Ortis è autore dei Sonetti, Foscolo dei Sepolcri, Didimo de Le Grazie”) è presente l’idea che ci siano tre momenti nell’opera foscoliana, di cui solo uno (quello centrale, dei Sepolcri), perfettamente riuscito, equilibrato, maturo; gli altri due peccherebbero per esuberanza “romantica” (il 1°) e per scadimento in un neo-classicismo di maniera (il 2°).

Luti va oltre: l’altro travestimento di Foscolo dopo Ortis (Didimo Chierico) rappresenta l’evoluzione (o regressione) conclusiva della sua ideologia cosiccome della sua poetica: da un punto di vista politico, il Foscolo “disingannato”, con la scelta dell’esilio, fa in realtà una scelta di rinuncia, di non battaglia (3) (e del resto, dice Caretti, al fondo de Le Grazie c’è il pessimismo di chi non crede che il mondo storico sia recuperabile alla bellezza e alla magnanimità); da un punto di vista poetico, ugualmente si recede a posizioni settecentesche, eludendo le problematiche che contemporaneamente si vengono sviluppando dalla Germania all’Italia (su una nuova concezione della poesia, per forma e contenuti).

Analizzando l’evoluzione, diremo allora che il contrasto tra i due aspetti (classico e romantico), aperto dall’Ortis, viene accettato (trova un equilibrio, ancorché precario) nella grande produzione (dai Sonetti, alle Odi, ai Sepolcri), dove, in definitiva, gli impulsi romantici non riescono a vincere (e ad esprimere la novità, sia stilisticamente che tematicamente) (4): vincerà invece l’aspetto classico (e Le Grazie saranno testimonianza di questa resa alle origini settecentesche della sua idea di poesia).

Didimo è appunto colui che ha imparato il segreto per sopportare la vita: non l’aperta passione e l’engagement, ma la sublimazione nella sfera dell’arte. E del resto l’ironia sterniana (all’incontro con la quale bisogna fare riferimento) deriva dalla tradizione saggistica (Montaigne) ed è quindi fondata su una razionalità che “utilizza ed imbriglia le più oscure radici sentimentali”.

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3) Come Ortis, nemmeno Didimo riesce a dare una dimensione concreta al libertarismo alfieriano.

4) Tale novità era invece presente nell’Ortis, la cui lingua fuoriusciva dal tradizionale classicismo per sperimentare (con le sue disarmonie, spezzettature, esclamazioni) altre strade.

 
 

Foscolo o la sconfitta laica


ASOR ROSA, Storia della lett. It.,
La Nuova Italia 1985, pp. 379-390.

 
Le opere giovanili (l'Ortis, le Odi e i Sonetti) oscillano fra la ripresa dell'energico sentimentalismo alfieriano e il modello neoclassico; ma, per questo secondo aspetto, non si tratta di un'operazione "montiana" (formalistica), bensì del frutto di una concezione che vede la Forma come attività plasmatrice e ordinatrice, espressione della liberazione, momento supremo della civiltà, ove le passioni si compongono in equilibrio ed armonia.

Così nei Sepolcri  lo storicismo vichiano si esprime come concezione che vede nella civilizzazione un processo che va dalla primitiva barbarie alla istituzione del diritto e della religione, fino alla idealità del sepolcro; e oltre, fino al valore più alto, quello della "parola" sublimata come poesia.

In questa chiave si spiega la famosa antinomia fra teoria delle illusioni e concezione meccanicistica: non si tratta di un approdo alle illusioni perché le esigenze del cuore non sono soddisfatte dal materialismo meccanicistico; quest'ultimo, piuttosto, si pone come chiarimento doloroso del limite delle illusioni (delle pretese del cuore), che preesistono.

Il recupero della tradizione classica esce quindi dalla dimensione arcadica-rococò e si configura come recupero di valori eminentemente laici: non solo della forza morale e civile di quella tradizione, ma del carattere immanente e totalmente umano del processo storico (c'è una visione "endogena" del progresso umano, antimetafisica e anticonfessionale) e della creazione poetica.

Siamo vicini allo Schiller delle Lettere sull'educazione estetica .

Ma perché la sconfitta di questa linea laica (che percorre tutto l'Ottocento - si pensi a Leopardi - fino a Carducci) di fronte al romanticismo cattolico-liberale? Perché la "forma" storicamente data a Foscolo è quella aristocratica ed elitaria che lo conduce a Le Grazie. Rimane ancorato alla concezione di una poesia di tipo sublime; è incapace di degradare forme e contenuti a livello della banalità quotidiana e della lingua colloquiale. Chi sarà capace di questo (Manzoni, e quindi il cattolicesimo-liberale), riuscirà vincitore nello scontro. 



Lettura del sonetto Alla sera


Forse perché della fatal quïete
Tu sei l'imago a me sì cara vieni
O sera! E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni,



E quando dal nevoso aere inquïete
Tenebre e lunghe all'universo meni
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni.



Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

 

Delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.
 
Il motivo della sera, portatrice di sonno ristoratore dopo gli affanni del giorno, è in Petrarca e nei petrarchisti (una bella ripresa si trova nel sonetto Al sonno di Della Casa). Ma il tema è rinnovato dalla sensibilità pre-romantica di Foscolo, il quale – probabilmente suggestionato dalla contemporanea lettura di Lucrezio – incentra la riflessione sul “nulla eterno” in cui si placa ogni affanno della vita nel “reo tempo”.
L’immagine iniziale propone subito la corrispondenza fra la pace della sera e la “fatal quiete” della morte. E’ una corrispondenza avvertita  tanto nella calma di una dolce sera estiva quanto nella tempestosità di una fosca sera invernale, e già nella opposizione fra questi due paesaggi bisognerà riconoscere la tipica doppiezza della sensibilità foscoliana, insieme classica (“i zefiri sereni”) e romantica (“inquiete tenebre”).
Ma il centro tematico del sonetto si trova nelle due terzine, laddove si chiarisce che la pace della sera, in quanto evoca il “nulla eterno”, annulla, per il tempo in cui dura, le sofferenze che affliggono il poeta, lo libera dalle passioni che lo tormentano: da tutte, in quanto proprie della vita che si dispiega nella dimensione del tempo, che pertanto è “reo” di per sé, in assoluto; ma in particolare da quelle politiche, determinate dal “reo tempo” in cui il poeta si trova a vivere.
La struttura, con il gioco delle opposizioni e dei parallelismi, è rivelatrice: la pace della sera richiama il nulla eterno, cosiccome il reo tempo richiama lo spirto guerrier; a sua volta, il nulla eterno si oppone al reo tempo, cosiccome  la pace della sera si oppone allo spirto guerrier; il passaggio dalla condizione negativa (quella per cui, nel tempo e in quel tempo, bisogna essere in guerra, bisogna essere un leone che “rugge”) alla condizione positiva (quella pacificatrice della sera, che consente di “vagar” nel “nulla” fuori dal tempo) è segnalato da due verbi di trasformazione, messi in evidenza da forti enjambement (fugge / questo reo tempo, dorme / quello spirto guerrier).

Leggete il sonetto di Foscolo A Zacinto, quindi
 
1)       riassumetene brevemente il contenuto;
2)       sottolineate le significative caratteristiche del paesaggio descritto;
3)       spiegate i termini del confronto che il poeta istituisce fra la propria vicenda e quella di Ulisse;
4)       spiegate e commentate il senso dell’espressione “bello di fama e di sventura” (v. 10), riferita ad Ulisse;
5)       mostrate come in questo testo elementi classici si fondano e confondano con elementi romantici;
6)       fate qualche osservazione sulla struttura formale del testo (sulla sua organizzazione complessiva, sulla sintassi, sul
          lessico, sulla metrica).
 
    
         1        Nè più mai toccherò le sacre sponde
         2   Ove il mio corpo fanciulletto giacque,
         3   Zacinto mia, che te specchi nell'onde
         4   Del greco mar da cui vergine nacque
         5        Venere, e fea quelle isole feconde
         6   Col suo primo sorriso, onde non tacque
         7   Le tue limpide nubi e le tue fronde
         8   L'inclito verso di colui che l'acque
         9        Cantò fatali, ed il diverso esiglio
        10   Per cui bello di fama e di sventura
        11   Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
        12        Tu non altro che il canto avrai del figlio,
        13   O materna mia terra; a noi prescrisse
        14   Il fato illacrimata sepoltura.
 
Quello che segue è un esempio di come svolgere l'analisi richiesta. Faccio notare che anche altre osservazioni si potevano fare, sia sulla struttura formale del testo, sia sul contenuto (ad esempio, si poteva osservare che Foscolo propone anche un confronto fra se stesso ed Omero)
 
Analisi di A Zacinto
 
  • Il poeta si rivolge alla sua isola natia, affermando la propria consapevolezza di non potere più farvi ritorno, e quindi di non potere rivedere più quel paesaggio e quel mare, in cui è nata Venere e in cui ha vissuto le sue disavventure Ulisse; ma mentre Ulisse ha infine potuto baciare “la sua petrosa Itaca”, il mio destino – dice il poeta – è quello di essere sepolto in terra straniera.
  • Zacinto non è sentita tanto come una patria politica (quale è Venezia per Ortis), quanto come una patria mitica, idealizzata; è il luogo dell’infanzia (dove il poeta “fanciulletto giacque”), dunque della felicità e della innocenza irrimediabilmente perdute; ma è anche il luogo della luminosità, della bellezza e della serenità (a tali elementi rimandano le caratteristiche del paesaggio: le acque calme e trasparenti di quel mare, ove l’isola si “specchia”, le “limpide nubi”, le “fronde”), e sono gli elementi che compongono la sensibilità classica. Dunque dietro la nostalgia per la terra natale, si cela l’aspirazione struggente (la Sehnsucht) a ritrovare l’armonia e la pienezza della vita, armonia e pienezza di vita associate a quel luogo mitico.
  • In ciò Foscolo esprime una sensibilità romantica, in questo sentirsi inquieto, non in pace con se stesso e con il mondo, travolto dalle vicende della vita – così come è stato per Ulisse, il quel però ha avuto il privilegio di riapprodare infine alla terra natale. E se Ulisse è stato “bello di fama e di sventura”, ancora più bello si sente il poeta, a cui tocca una sventura ancora più grande.
  • E’ un’altra idea romantica quella che associa la bellezza alla sventura. Ed è un’idea analoga quella che esprime Anfrido quando dice ad Adelchi, nella omonima tragedia manzoniana: “Soffri e sii grande”. C’è nobiltà (grandezza, bellezza) nella sofferenza, perché solo animi non mediocri, animi capaci di alti sentimenti, sono destinati alla sofferenza.
  • Dunque la sensibilità romantica (evocata dalla figura di Ulisse, cui il poeta si paragona) è fusa con la sensibilità classica (evocata dalla figura di Venere e del paesaggio a lei associato). Ma il classicismo foscoliano è riscontrabile anche nella struttura del sonetto, nella sua sintassi e nel suo lessico.
  • La struttura del sonetto è in un certo senso circolare,  in quanto il motivo fondamentale della perdita della patria apre e chiude il componimento, è affermato con forza al primo verso (“né più mai…”) e ritorna all’ultimo verso, nell’immagine della “illacrimata sepoltura”; al centro, la rievocazione delle due figure mitiche, con i significati ad esse connessi. La sintassi è caratterizzata da un ampio periodo che si distende per tre intere strofe, con una articolazione complessa che imita la sintassi latina, ricca di subordinate e spostamenti dell’ordine delle parole (la relativa che inizia al v. 6 con “onde non tacque” ha il soggetto al v. 8, “l’inclito verso”; la relativa che comincia al v. 10 con “per cui” ha il soggetto alla fine del v. 11, “Ulisse”; ecc.). La continuità sintattica è sostenuta anche da forti enjambement, che tengono uniti non solo i versi ma anche le strofe (si vedano i vv. 4-5 e 8-9). Solo nell’ultima strofa il ritmo rallenta: ci sono ben due periodi, che spezzano a metà il v. 13, a marcare con maggiore forza le immagini evocate e i concetti espressi. Il lessico è classicamente ricercato: “inclito” è il verso di Omero, “fatali” sono le acque percorse da Ulisse, e “diverso” (nel senso, latino, di “deviato” dalla giusta meta) è il suo esilio.
 
Lo scambio di epigrammi fra Foscolo e Monti
 
Siccome Monti aveva tradotto l’Iliade senza conoscere il greco (e quindi servendosi di traduzioni già esistenti), Foscolo gli dedicò il seguente epigramma:
 
Questi è Vincenzo Monti cavaliero,
gran traduttor dei traduttor d’Omero.
 
Ma Monti, abilissimo versificatore, rispose con un epigramma altrettanto ironico e se vogliamo ancor più cattivo:
 
"Questi è il rosso di pel Foscolo detto
Sì falso che cangiò fino se stesso
Quando in Ugo cangiò ser Nicoletto;
Guarda la borsa se ti vien dappresso"
 
A parte il riferimento ai capelli rossi (che comunque nella credenza popolare sono associati alla perfidia), Monti accusa Foscolo di essere falso (si chiamava Nicolò e aveva cambiato il proprio nome in Ugo) e, soprattutto, di essere sempre alla ricerca di danaro (è un fatto che Foscolo fosse spendaccione e dedito al gioco d’azzardo).

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