CICERONE (traduzioni)


E’ lecito uccidere per legittima difesa
 
Si tempus est ullum iure hominis necandi, quae multa sunt, certe illud est non modo iustum verum etiam necessarium, cum vi vis inlata defenditur. Pudicitiam cum eriperet militi tribunus militaris in exercitu C. Mari, propinquus eius imperatoris, interfectus ab eo est cui vim adferebat; facere enim probus adulescens periculose quam perpeti turpiter maluit. Atque hunc ille summus vir (1) scelere solutum periculo (2) liberavit. Insidiatori vero et latroni quae potest inferri iniusta nex? Quid comitatus nostri, quid gladii volunt? quos habere certe non liceret, si uti illis nullo pacto liceret. Est igitur haec, iudices, non scripta, sed nata lex, quam non didicimus, verum ex natura ipsa adripuimus, ad quam non docti sed facti sumus, ut, si vita nostra in aliquas insidias, si in vim et in tela aut latronum aut inimicorum incidisset (3), omnis honesta ratio esset expediendae salutis.
 
Cicerone, Pro Milone, IV
 
 
NOTE
 
1) Si riferisce a Mario.
2) Riprende l’avverbio (periculose) usato poco prima. Il “pericolo” cui ci si riferisce è quello di essere condannato a morte per omicidio.
3) E’ un piuccheperfetto congiuntivo per la regola dell’anteriorità, ma nella traduzione italiana ci sta meglio  l’imperfetto.
Traduzione
 
Se c’è un’occasione per (lett.: di) uccidere un uomo a buon diritto, e sono molte (lett.: le quali occasioni sono molte), certamente è non solo giusto ma anche necessario (uccidere un uomo) quando ci si difende con la forza da una violenza che ci viene fatta (lett.: quando si respinge con la violenza una violenza arrecata; è un cum con l'indicativo, con valore temporale). Poiché (o: mentre) nell’esercito di C. Mario un tribuno militare, parente di quel comandante (cioè, di Mario), attentava alla virtù di un soldato, fu ucciso da quello (stesso) a cui faceva violenza; infatti l’onesto giovane preferì agire a rischio della vita (lett.: pericolosamente) piuttosto che subire vergognosamente (che cosa? Ovviamente la violenza sessuale). E quel grande uomo assolse il giovane dal delitto e così lo liberò dal pericolo di una condanna a morte (lett.: liberò dal pericolo costui, assolto dal delitto). Del resto quale ingiusta morte può essere inflitta a chi ci tende un’insidia e a chi ci vuole rapinare (lett.: a un insidiatore e a un brigante)? A che cosa servono (lett.: che cosa vogliono) le nostre scorte, a che cosa servono le spade? Certamente non sarebbe lecito possederle, se in nessun caso fosse lecito usarle (uti è l’infinito presente di utor, e regge l’ablativo illis). Dunque, giudici, questa (della legittima difesa) è una legge non scritta, ma innata, (una legge) che non abbiamo imparato, ma che abbiamo acquisito dalla stessa natura, (una legge) alla quale non siamo istruiti ma per la quale siamo naturalmente predisposti (lett.: fatti), (una legge che dice) che (è un ut con valore dichiarativo-esplicativo, cioè spiega quel che dice la legge; è accettabile anche un valore consecutivo, ma non finale), se la nostra vita cadesse in qualche insidia, se si imbattesse nella violenza delle armi (lett.: nella violenza e nelle armi) di briganti o nemici, ogni modo (omnis ratio) di salvarsi la vita (lett.: di procurarsi la salvezza)  sarebbe onesto.
L’amicizia non può essere complicità nel crimine
 
Non dobbiamo farci complici dei nostri amici sulla strada del male. Nessuno seguì Temistocle e Coriolano quando, offesi dalla patria, le si schierarono contro, perché l’amicizia non giustifica la complicità nel male.
 
Haec lex in amicitia sanciatur, ut neque rogemus res turpes, nec faciamus (1) rogati. Turpis enim excusatio est si quis contra rem publicam se amici causa fecisse fateatur. Praecipiendum est igitur bonis ne, si in eius modi amicitias ignari casu aliquo inciderint, existiment ita se alligatos, ut ab amicis, in magna aliqua re peccantibus, non discedant. Improbis autem poena statuenda est, nec vero minor iis, qui secuti erunt improbum, quam iis, qui ipsi fuerint impietatis duces. Quis clarior in Graecia Themistocle, quis potentior (2)? Qui, cum bello Persico servitute Graeciam liberavisset propterque invidiam in exilium expulsus esset, ingratae patriae iniuriam non tulit, quam ferre debuit; fecit idem quod viginti annis ante apud nos fecerat Coriolanus. His adiutor contra patriam inventus est nemo; itaque mortem sibi uterque conscivit.
 
Cicerone, De amicitia, XII
 
NOTE
 
            1)    Sottinteso “eas”, cioè “res turpes”.
            2)    Sottinteso “fuit”.
 
Traduzione
 
In amicizia si stabilisca (congiuntivo esortativo) questa norma, (cioè) che (quella che segue è una proposizione completiva, non finale) né chiediamo cose turpi, né le facciamo (se) richiesti. E’ infatti una giustificazione vergognosa se qualcuno dichiara di aver agito contro lo Stato per (aiutare) un amico. Bisogna dunque insegnare alle persone per bene (agli onesti) che (segue ancora completiva, non finale), se per caso (lett.: per qualche caso) si imbattono (lett.: qualora si siano imbattuti) senza rendersene conto (lett.: ignari) in amicizie di questo genere, non si ritengano vincolati a tal punto da non allontanarsi da amici che commettono un crimine (lett.: che sbagliano in qualche questione importante). Peraltro per i criminali (per i malvagi, i disonesti) bisogna stabilire  una pena, e in verità non minore per i seguaci del criminale (lett.: per quelli che avranno seguito il disonesto) che (quam introduce il secondo termine di paragone) per quelli che saranno stati (ma anche: siano stati) gli ideatori (gli istigatori, i capi) dell’azione scellerata (empia). Chi in Grecia (fu) più famoso di Temistocle, chi più potente? Costui, avendo liberato la Grecia dall’oppressione con la guerra contro i Persiani ed essendo (poi) stato mandato in esilio a causa della malevolenza, non sopportò l’offesa dell’ingrata patria, (offesa) che avrebbe dovuto sopportare (debuit è un indicativo, ma è di quei verbi che a volte si possono, e in questo caso si deve, rendere con il condizionale); fece la stessa cosa che vent’anni prima Coriolano aveva fatto presso di noi (Romani). Non si trovò nessuno come collaboratore (complice) di questi (lett.: come aiutante per questi, cioè per Temistocle e Coriolano) contro la patria; pertanto entrambi si diedero la morte.
 
L’uomo è bramoso di conoscenza
 
Tantus est innatus in nobis cognitionis amor et scientiae, ut nemo dubitare possit quin ad eas res hominum natura nullo emolumento invitata rapiatur. Mihi quidem Homerus huius modi quiddam vidisse videtur in iis, quae (1), qui praetervehebantur, sed quia multa se scire profitebantur, ut homines ad earum saxa (3) discendi cupiditate adhaerescerent. Ita enim invitant Ulixem. Vidit Homerus probari fabulam non posse, si cantiunculis tantus irretitus vir teneretur; scientiam pollicentur (4), quam non erat mirum sapientiae cupido patria esse cariorem. Atque omnia quidem scire (5), cuiuscumque modi sint, cupere curiosorum, duci vero maiorum rerum contemplatione ad cupiditatem scientiae summorum virorum est putandum.
 
Cicerone, De finibus bonorum et malorum (V, 18)
 
NOTE
 
1) In iis quae: è un neutro plurale che sta da solo, concordato con niente. Dunque in italiano bisognerà trovare un sostantivo appropriato, che renda il concetto.
2) Videntur …. solitae (esse): il soggetto sottinteso è le Sirene.
3) Sono gli scogli dove, secondo la narrazione di Omero, stavano le Sirene (e dove si incagliavano le navi).
4) Il soggetto sottinteso è sempre le Sirene.
5) Dipende dal verbo servile cupere; quest’ultimo, a sua volta, è un infinito sostantivato, come il successivo duci (ed ambedue fungono da soggetto di  est putandum”)
Traduzione
 
C’è, innnato in noi, un amore così grande della conoscenza e della scienza che nessuno può dubitare che la natura umana sia spinta (attratta, trascinata) verso queste cose (cioè, la conoscenza e la scienza) senza essere allettata da alcun guadagno. E a me sembra senz’altro che Omero abbia visto qualcosa di questo genere in quei versi che ha composto sui canti delle Sirene. E infatti sembra che non fossero solite (solitae esse è un infinito perfetto, quindi non siano solite) richiamare coloro che passavano di lì (qui praetervehebantur, lett. coloro che venivano trasportati, s’intende per nave) grazie alla soavità delle voci o ad una certa novità e varietà del canto, ma poiché dichiaravano di sapere molte cose, cosicché gli uomini si incagliavano ai loro scogli per bramosia d’imparare. Così infatti invitano Ulisse. Omero vide che la storia non poteva essere accettata (approvata, apprezzata), se un uomo tanto grande fosse (stato) trattenuto, irretito da delle canzonette; (le Sirene) promettono la scienza, che non era sorprendente che fosse più cara della patria (ablativo di paragone) ad un (uomo) desideroso di sapienza. E desiderare di conoscere tutte le cose, quali che siano (lett.: di qualsiasi genere siano), deve essere ritenuto proprio dei curiosi, invece (vero è congiunzione avversativa) essere condotti tramite la contemplazione delle cose più grandi al desiderio della scienza deve essere ritenuto proprio degli uomini sommi. 
 
Non bisogna sempre mantenere le promesse fatte
 
Illa promissa servanda non sunt, quae non sunt iis ipsis utilia, quibus illa promiseris. Sol Phaetonti (1) filio, ut redeamus ad fabulas (2), facturum se esse dixit quicquid optasset. Optavit ut in currum patris tolleretur; sublatus est. Atque is, antequam constitit, ictu fulminis deflagravit. Quanto melius fuerat in hoc promissum patris non esse servatum! Quid? (3) Nonne Agamemnon (4), cum devovisset Dianae quod in suo regno pulcherrimum natum esset illo anno, immolavit Iphigeniam, qua nihil erat eo quidem anno natum pulchrius? Promissum potius non faciendum quam tam taetrum facinus admittendum fuit.
Ergo et promissa non facienda non numquam neque semper deposita reddenda (sunt). Si gladium quis apud te sana mente deposuerit, repetat (5) insaniens, reddere peccatum sit, officium non reddere. Quid? Si is, qui apud te pecuniam deposuerit, bellum inferat patriae, reddasne depositum? Non credo: facies enim contra rem publicam, quae debet esse carissima.
 
Cicerone, De officiis (II, 25)
 
 NOTE
 
1) Fetonte era il figlio del Sole e aveva chiesto al padre di lasciargli guidare il suo carro (il carro del sole, cioè quello che, secondo la mitologia, il Sole guida ogni giorno nel cielo). Ma naturalmente non ne era capace e per punizione fu fulminato da Giove.
2) La “favola” è appunto il mito che sta raccontando.
3) “E che?”. E’ un modo di continuare il discorso attraverso una domanda retorica che equivale a: “C’è bisogno di aggiungere altro?”.
4) Quello che si cita ora è un altro mito: Agamennone, comandante della spedizione greca contro Troia, aveva sacrificato la figlia Ifigenia perché la flotta in partenza potesse avere un viaggio sicuro.
5)  E’, come il precedente deposuerit a cui è coordinato, protasi di un periodo ipotetico del secondo tipo.
Traduzione
 
Non devono essere mantenute quelle promesse che non sono utili a quegli stessi ai quali le hai fatte (promiseris è un perfetto congiuntivo, con valore eventuale, che traduco con l’indicativo). Il sole, per tornare alle favole, disse al figlio Fetonte che avrebbe fatto qualsiasi cosa (il figlio) avesse desiderato. Espresse il desiderio di essere fatto salire sul carro del padre; fu fatto salire. Ed egli, prima che si fermasse (si intende, nel giro sul carro), fu fulminato (lett.: bruciò per un colpo di fulmine). Quanto meglio sarebbe stato in questo caso (in hoc) che la promessa del padre non fosse mantenuta! E che? Non è forse vero che Agamennone, poiché aveva offerto in voto a Diana ciò che di più bello fosse nato nel suo regno in quell’anno, sacrificò Ifigenia, della quale (secondo termine di paragone, reso con l’ablativo) davvero niente di più bello era nato in quell’anno? Non si sarebbe dovuta fare la promessa piuttosto che commettere un delitto tanto orribile.
Dunque sia talvolta le promesse non devono essere fatte sia non sempre i depositi devono essere restituiti. Se qualcuno, nel pieno possesso delle sue capacità mentali (sana mente), avesse depositato presso di te una spada, ( e poi) impazzito te la richiedesse, sarebbe una colpa restituirgliela, un dovere non restituirgliela. E che? Se colui che ha depositato (deposuerit è perfetto congiuntivo con valore eventuale) presso di te del denaro portasse guerra alla patria, gli restituiresti il deposito? Non credo: agiresti (lett.: agirai) infatti contro lo Stato, che deve essere amatissimo.
 
 
I requisiti dell’uomo di Stato
 
Qui (1) rei publicae praefuturi sunt, duo Platonis praecepta teneant: unum, ut utilitatem civium sic tueantur, ut, quaecumque agunt, ad eam referant obliti commodorum suorum; alterum, ut totum corpus rei publicae curent, ne, dum partem aliquam tuentur, reliquas deserant. Ut enim tutela (2), sic procuratio rei publicae ad eorum utilitatem, qui commissi sunt, non ad eorum, quibus commissa est, gerenda est. Qui (3) autem parti civium consulunt et partem neglegunt, rem perniciosissimam in civitatem inducunt, seditionem atque discordiam. Ex quo evenit ut alii populares (4), alii studiosi optimi cuiusque (5) videantur, pauci universorum. Hinc apud Athenienses magnae discordiae ortae sunt, in nostra re publica non solum seditiones, sed etiam pestifera bella civilia: quae gravis et fortis civis et in re publica dignus principatu fugiet atque oderit.
 
Cicerone, De officiis (I, 25)
 
NOTE
 
1) Non è un nesso relativo.
2) Tutela = la funzione di tutore.
3) Non è un nesso relativo.
4) Populares = fautori, sostenitori del popolo.
5) Studiosi optimi cuiusque = fautori, sostenitori dell’aristocrazia.
 
Traduzione

Coloro che intendono governare lo Stato (lett.: essere a capo dello Stato), si attengano ai (lett.: conservino, mantengano; comunque è un congiuntivo esortativo, non si capisce perché lo si debba tradurre diversamente) due precetti di Platone: uno (o: il primo), che difendano (proposizione non finale, ma completiva di tipo esplicativo: spiega il primo precetto) l’interesse dei cittadini in maniera tale che (sic ut: segue la consecutiva), qualsiasi cosa facciano, la riferiscano (indirizzino, finalizzino) ad esso (interesse), dimenticandosi dei propri vantaggi; il secondo, che si prendano cura (completiva, come sopra) dell’intero corpo dello Stato, (affinché) non trascurino le altre (parti, classi), mentre operano a favore di (lett.: proteggono, difendono) qualche parte (classe). Come infatti la funzione di tutore, così anche l’amministrazione dello Stato deve essere esercitata (gerenda est) per l’interesse di coloro che sono stati affidati (cioè, dei cittadini, che sono stati "affidati" ai governanti, così come qualcuno viene "affidato" a un tutore), non per quello di coloro ai quali (l’amministrazione) è stata affidata (cioè, non per l’interesse dei governanti, come non per quello dei tutori). Coloro che provvedono ad (questo è il significato di consulere con il dativo) una parte (classe) e ne trascurano un’altra, portano nello Stato una cosa dannosissima, la sedizione e la discordia. Da ciò deriva che alcuni sembrano fautori del popolo, altri dell’aristocrazia, pochi (sembrano fautori) di tutti quanti. Perciò presso gli Ateniesi sorsero molte discordie, nel nostro Stato (sorsero) non solo sedizioni, ma anche rovinose guerre civili: (tutte) cose che eviterà e odierà un cittadino autorevole e forte e degno di (detenere il) potere nello Stato.
 
Alcuni negano e altri ammettono la provvidenza divina
Sunt philosophi et fuerunt qui omnino nullam habere censerent rerum humanarum procurationem deos. Quorum si vera sententia est, quae potest esse pietas, quae sanctitas, quae religio? Si dei neque possunt nos iuvare nec volunt nec quid agamus animadvertunt nec est quod ab iis ad hominum vitam permanare possit, quid est quod (1)   deis immortalibus cultus, honores, preces adhibeamus? Atque haud scio an, pietate adversus deos sublata, fides etiam et societas generis humani et excellentissima virtus, iustitia, tollatur. Sunt autem alii philosophi, et hi quidem magni atque nobiles, qui deorum mente atque ratione (2) omnem mundum administrari et regi censeant, neque vero id solum, sed etiam ab iisdem hominum vitae consuli et provideri(3); nam et fruges et reliqua quae terra pariat et temporum varietates caelique mutationes, quibus omnia quae terra gignat maturata pubescant (4), a dis immortalibus tribui generi humano putant.
Cicerone, De natura deorum (I, II)
NOTE
 
1) quid est quod = che ragione c’è per cui (più congiuntivo) o di (più infinito).
2) Mente atque ratione: è un’endiadi.
3) Consuli et provideri sono i verbi (di significato simile) di infinitive sempre rette da censeant.
4) Maturata pubescere = giungere a maturazione.
Traduzione
Ci sono e ci sono stati dei filosofi che ritenevano (ma anche "ritengono"; il congiuntivo è caratterizzante) che gli dei non avessero (abbiano) assolutamente alcuna cura delle vicende umane. Se è vera l’opinione di costoro, quale devozione può esserci, quale purezza di costumi, quale religiosità? Se gli dei né possono aiutarci, né lo vogliono, né si accorgono di che cosa facciamo,  e non c’è niente che (lett.: né c’è ciò che) possa diffondersi (provenire, promanare) da loro nella vita umana, che ragione c’è di attribuire agli dei culti, onori, preghiere? E, una volta eliminata la devozione nei confronti degli dei, credo che (non so se non) si eliminino (lett., singolare) anche la lealtà e il vincolo che tiene uniti gli uomini in società (lett.: la società del genere umano) e la più alta di tutte le virtù, (cioè) la giustizia. Ci sono invece altri filosofi, e questi davvero grandi e nobili, che ritengono (censeant è congiuntivo caratterizzante) che tutto il mondo sia governato e diretto dalla mente razionale degli dei (lett.: dalla mente e dalla ragione), e in verità non solo questo (ritengono), ma anche che da parte degli stessi (dei) si pensi e si provveda alla vita umana (consuli e provideri sono passivi impersonali); infatti credono che sia le messi, sia gli altri frutti (lett.: le altre cose) che la terra produce, sia la varietà delle stagioni e i mutamenti del clima, grazie a cui tutte le cose che la terra fa nascere giungono a maturazione (pariat, gignat, pubescant sono congiuntivi obliqui),  siano concesse dagli dei immortali al genere umano.

 

Nessun commento:

Posta un commento