CICERONE (lezioni)

La retorica ciceroniana

 

Dai Greci (Gorgia di Lentini, ma poi soprattutto Aristotele) vengono indicati tre generi, o tipi di discorso, in cui si esercita la retorica: sono il genere giudiziario (e si esercita in tribunale, in occasione dei processi), deliberativo (e si esercita nelle pubbliche assemblee, quando si tratta di prendere decisioni politiche), epidittico o dimostrativo (si esercita per dar prova del proprio talento, sostenendo una tesi, lodando o biasimando qualcuno, in occasione di feste o commemorazioni[1]).

Cicerone ha dedicato all’arte della retorica quattro trattati teorici e alcune opere minori.

De inventione: opera giovanile in due libri, in cui si tratta del primo momento dell’orazione (l’inventio, ovvero il momento in cui si scelgono gli argomenti). Probabilmente sarebbe dovuta seguire la trattazione degli altri momenti. Come la Retorica ad Herennium (degli inizi del I sec., a lungo attribuita a Cicerone, in realtà opere del retore Cornificio) tratta degli aspetti tecnici della retorica, ovvero della classificazione delle diverse parti del discorso.

De oratore: scritto nel 56-55 a. C., dopo l’esilio, in una fase di rallentamento dell’attività politica, è un trattato in tre libri in forma dialogica. Il dialogo è immaginato fra L. Licinio Crasso e Marco Antonio, i due più eminenti oratori della generazione precedente a quella di Cicerone. Per bocca di Crasso (nel cui punto di vista si identifica l’autore) si sostiene che per fare un buon oratore non basta il possesso delle tecniche, e nemmeno bastano (a differenza di quel che sostiene Antonio) le doti naturali (ingenium) e l’esperienza; ci vuole anche una vasta cultura filosofica, letteraria, giuridica (ma anche scientifica, storica, geografica). L’oratore non è uno specialista, ma colui che, padroneggiando tutta la cultura, è in grado di servirsene appropriatamente per sostenere i propri argomenti. Il solo possesso della tecnica produce dei chiacchieroni; certo, bisogna anche conoscere l’arte della parola, ma è la cultura che dà sostanza agli argomenti[2]. “Rem tene, verba sequentur”, come diceva il vecchio Catone. Nel libro II si passa alla trattazione delle diverse parti del discorso, e cioè: inventio (euresis), dispositio (taxis, disposizione ordinata degli argomenti), elocutio (lexis, ornamento del discorso tramite figure), memoria (mneme, memorizzazione degli argomenti), actio o pronuntiatio (ipòcrisis, recitazione del discorso). A sua volta, la dispositio si articola in exordium (con captatio benevolentiae e partitio del materiale), narratio dei fatti, confirmatio (esposizione degli argomenti a proprio favore e contro l’avversario, ovvero argumentatio e confutatio), epilogo o peroratio. Nel libro III si tratta più specificamente dell’elocutio.

Brutus: del 46, ancora in un periodo di forzata inattività, a seguito dell’affermarsi della dittatura di Cesare. E’ un trattato in un libro, in forma di dialogo fra Cicerone stesso e gli amici Attico e M. Giunio Bruto (il futuro cesaricida). Dopo un excursus sulla storia dell’oratoria greca, vengono passati in rassegna circa duecento oratori romani. Come l’oratoria greca ha avuto il suo culmine in Demostene (IV sec. a. C.), così quella romana (si lascia intendere) ce l’ha in Cicerone stesso. L’attico Demostene non aveva i difetti dello stile “atticista” (la eccessiva exilitas, gracilità), che sono piuttosto desumibili dallo stile sobrio ed essenziale di Lisia: sapeva essere appassionato ed eloquente in giusta misura. Allo stesso modo Cicerone, nella scelta dello stile “rodio[3], rifugge dagli eccessi sia dell’atticismo, sia dell’”asianesimo[4].

Orator: dello stesso anno, un libro in forma non dialogica, dedicato allo stesso Bruto. Si riprende la teoria dello stile (o elocutio), già trattata nel III libro del De oratore. I tre stili (tenue, medium, grande: umile, medio, sublime) devono essere usati opportunamente (bisogna sapere apte dicere), a seconda degli argomenti trattati, ma sono comunque appropriati ai tre compiti dell’oratore: il tenue per probare (o docere, cioè dimostrare, argomentare), il medium per delectare (dilettare), il grande per flectere (o movere, cioè per commuovere, coinvolgere emotivamente l’uditorio). Ci si sofferma poi sulla struttura ritmica del periodo, fatta di concinnitas (corrispondenze equilibrate, simmetria dei diversi membri del periodo) e di clausole che corrispondono a schemi metrici particolarmente musicali (clausola dattilica o cretico-trocaica).

Opere minori sono le Partitiones oratoriae, i Topica (sui “luoghi” comuni), il De optimo genere oratorio.

 




[1] Grande oratore nel genere epidittico fu Apuleio di Madaura.
[2] Dummodo hoc constet: neque infantiam (balbettio) eius, qui rem norit, sed eam esplicare non queat, neque inscientiam illius, cui res non suppetat, verba non desint, esse laudandam. Quorum, si alterum sit optandum, malim equidem indisertam prudentiam quam stultitiam loquacem
[3] Il maestro è Molone di Rodi, alla cui scuola Cicerone era stato da giovane.
[4] Il maestro era Egesia di Magnesia (Asia minore), III sec. a. C. Ce ne sono due tipi: uno magniloquente, enfatico, ricco di figure retoriche; l’altro basato su frasi brevi e ad effetto, su sottigliezze concettuali, artifici retorici e fonici.

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