SALLUSTIO (testi)


dal Bellum Jugurthinum
 
VI. Qui ubi primum adolevit, pollens viribus, decora facie, sed multo maxime ingenio validus, non se luxu neque inertiae corrumpendum dedit, sed, uti mos gentis illius est, equitare, iaculari; cursu cum aequalibus certare et, cum omnis gloria anteiret, omnibus tamen carus esse; ad hoc pleraque tempora in venando agere, leonem atque alias feras primus aut in primis ferire: plurimum facere, [et] minimum ipse de se loqui. Quibus rebus Micipsa tametsi initio laetus fuerat, existimans virtutem Iugurthae regno suo gloriae fore, tamen, postquam hominem adulescentem exacta sua aetate et parvis liberis magis magisque crescere intellegit, vehementer eo negotio permotus multa cum animo suo volvebat. Terrebat eum natura mortalium auida imperi et praeceps ad explendam animi cupidinem, praeterea opportunitas suae liberorumque aetatis, quae etiam mediocris viros spe praedae transversos agit, ad hoc studia Numidarum in Iugurtham accensa, ex quibus, si talem virum dolis interfecisset, ne qua seditio aut bellum oriretur, anxius erat.
 
LXIII.  Per idem tempus Uticae forte C. Mario per hostias dis supplicanti magna atque mirabilia portendi haruspex dixerat: proinde quae animo agitabat, fretus dis ageret, fortunam quam saepissime experiretur; concta prospere eventura. At illum iam antea consulatus ingens cupido exagitabat, ad quem capiendum praeter vetustatem familiae alia omnia abunde erant: industria, probitas, militiae magna scientia, animus belli ingens domi modicus, libidinis et divitiarum victor, tantummodo gloriae auidus. Sed is natus et omnem pueritiam Arpini altus, ubi primum aetas militiae patiens fuit, stipendiis faciendis, non Graeca facundia neque urbanis munditiis sese exercuit: ita inter artis bonas integrum ingenium brevi adolevit. Ergo, ubi primum tribunatum militarem a populo petit, plerisque faciem eius ignorantibus, facile factis notus per omnis tribus declaratur. Deinde ab eo magistratu alium, post alium sibi peperit, semperque in potestatibus eo modo agitabat, ut ampliore quam gerebat dignus haberetur. Tamen is ad id locorum talis vir--nam postea ambitione praeceps datus est--consulatum appetere non audebat. Etiam tum alios magistratus plebs, consulatum nobilitas inter se per manus tradebat. Novos nemo tam clarus neque tam egregiis factis erat, quin indignus illo honore et is quasi pollutus haberetur.
 
LXIV.  Igitur ubi Marius haruspicis dicta eodem intendere videt, quo cupido animi hortabatur, ab Metello petendi gratia missionem rogat. Cui quamquam virtus, gloria atque alia optanda bonis superabant, tamen inerat contemptor animus et superbia, commune nobilitatis malum. Itaque primum commotus insolita re, mirari eius consilium et quasi per amicitiam monere, ne tam prava inciperet neu super fortunam animum gereret: non omnia omnibus cupienda esse, debere illi res suas satis placere; postremo caveret id petere a populo Romano, quod illi iure negaretur. Postquam haec atque alia talia dixit neque animus Mari flectitur, respondit, ubi primum potuisset per negotia publica, facturum sese quae peteret. Ac postea saepius eadem postulanti fertur dixisse, ne festinaret abire: satis mature illum cum filio suo consulatum petiturum. Is eo tempore contubernio patris ibidem militabat. Annos natus circiter viginti. Quae res Marium cum pro honore, quem affectabat, tum contra Metellum vehementer accenderat. Ita cupidine atque ira, pessimis consultoribus, grassari; neque facto ullo neque dicto abstinere, quod modo ambitiosum foret; milites, quibus in hibernis praeerat, laxiore imperio quam antea habere; apud negotiatores, quorum magna multitudo Vticae erat, criminose simul et magnifice de bello loqui: dimidia pars exercitus si sibi permitteretur, paucis diebus Iugurtham in catenis habiturum; ab imperatore consulto trahi, quod homo inanis et regiae superbiae imperio nimis gauderet. Quae omnia illis eo firmiora videbantur, quia diuturnitate belli res familiaris corruperant et animo cupienti nihil satis festinatur.
 
Traduzione
 
VI. Costui, appena fu adolescente, forte fisicamente, di bell'aspetto, ma soprattutto ragguardevole per intelligenza, non si lasciò corrompere dai piaceri e dall'ozio, ma, come è uso della sua gente, cavalcava, lanciava il giavellotto, gareggiava con i coetanei nella corsa: e, benchè eccellesse su tutti per fama, a tutti, nondimeno, era caro. Dedicava, inoltre, la maggior parte del suo tempo alla caccia, era il primo o fra i primi a colpire il leone e le altre fiere: quanto più agiva, tanto meno parlava di .  Dapprima Micipsa, anche se era stato lieto di tutto questo, pensando che il valore di Giugurta sarebbe sarebbe stato (motivo) di onore al suo regno, tuttavia, quando si rese conto che (il prestigio di) quel giovane aumentava sempre più, mentre la sua vita era ormai compiuta e i suoi figli erano ancora piccoli, preoccupato fortemente per tale fatto, rivolgeva nella sua mente molti pensieri. Lo atterriva la natura umana, avida di potere e pronta a soddisfare le proprie passioni, e inoltre l'opportunità della sua età e di quella dei suoi figli, la quale è capace di traviare, con la speranza del successo, anche gli uomini mediocri; lo atterriva, infine, l’intenso affetto per Giugurta dei Numidi, da parte dei quali temeva che sorgesse una rivolta o una guerra (civile), se avesse ucciso con l'inganno un tale uomo.
 
LXIII. In quello stesso periodo, per caso a Gaio Mario, che in Utica offriva un sacrificio agli dei, l'aruspice aveva comunicato che si annunziavano per lui grandi e meravigliosi eventi: agisse dunque secondo l’ispirazione dell’animo, confidando nell'aiuto degli dei e tentasse la fortuna molte volte; tutto gli sarebbe riuscito nel migliore dei modi. Veramente già da tempo Mario era divorato dall'ambizione di diventare console e, tranne l’antichità della stirpe, possedeva tutte le doti necessarie a ricoprire tale carica: energia, rettitudine, grande esperienza militare e un animo indomito in guerra, equilibrato in pace, capace di dominare le tentazioni dei sensi e della ricchezza, avido soltanto di gloria. Nato ad Arpino e lì cresciuto per tutta la sua fanciullezza, appena fu in età di portare le armi, si dedicò alla carriera militare, noncurante di eloquenza greca e di raffinatezze cittadine: così, fra quelle sane occupazioni il suo carattere integro maturò in breve tempo. Perciò quando presentò al popolo la propria candidatura al tribunato militare, benchè ai più fosse ignoto il suo aspetto, la sua sola reputazione fu sufficiente a procurargli il voto di tutte le tribù. Quindi egli ottenne una carica dietro l'altra e ogni volta esercitava la magistratura in modo tale, da essere considerato meritevole di rivestirne un'altra più importante. Eppure un uomo così eccezionale fino a quel momento - più tardi fu rovinato dall'ambizione - non osava aspirare al consolato. Era ancora il tempo in cui la plebe poteva ottenere le altre cariche, ma il consolato la nobiltà se lo passava al suo interno di mano in mano. Non c'era "uomo nuovo", per quanto illustre e di alti meriti, che non venisse considerato indegno di quell'onore e questo (onore) quasi contaminato.
 
LXIV. Mario, vedendo allora che le parole dell'aruspice tendevano a quello stesso obiettivo cui lo spingeva la sua ambizione, chiede a Metello il congedo per presentarsi candidato. Ma Metello, che pure era uomo straordinariamente ricco di coraggio, di amor di gloria e di altre doti care agli onesti, aveva però un carattere arrogante e peccava di superbia, male comune della nobiltà. Sorpreso, dapprima, dall'insolita richiesta, si meravigliò del suo proposito e quasi a titolo di amicizia lo invitò a desistere da un progetto così malaccorto e a non coltivare ambizioni superiori alla sua condizione. Aggiungeva che non tutto è alla portata di tutti: Mario poteva essere pago del suo stato e doveva insomma guardarsi dal richiedere al popolo romano ciò che a buon diritto gli sarebbe stato negato.  Poichè con queste e altre affermazioni simili non riuscì a piegare la volontà di Mario, gli rispose che avrebbe soddisfatto la sua richiesta non appena le esigenze di servizio glielo avessero permesso. Poi, di fronte alle insistenze di Mario, si dice che gli consigliò di non aver fretta di partire, perchè sarebbe già stato abbastanza presto per lui chiedere il consolato insieme a suo figlio, il quale prestava allora servizio militare al seguito del padre e aveva circa vent'anni. Questa risposta aveva maggiormente rinfocolato in Mario sia il desiderio della carica cui aspirava sia il risentimento contro Metello. Perciò le sue azioni si ispiravano a due pessime consigliere: l'ambizione e la collera. Non tralasciava alcun gesto o alcuna parola, purchè potesse procurargli favore. Trattava i soldati ai suoi ordini nei quartieri invernali con disciplina meno severa rispetto a prima e con i mercanti, presenti in gran numero a Utica, parlava della guerra muovendo critiche e facendo grandi promesse. Diceva che se gli fosse stata data soltanto una metà dell'esercito, in pochi giorni avrebbe avuto Giugurta in catene. Il comandante, invece, protraeva a bella a posta la guerra, perchè, uomo vano e superbo come un re, si compiaceva troppo dell'esercizio del potere. Tutte queste critiche parevano loro tanto più fondate, in quanto la lunga durata della guerra aveva danneggiato i loro interessi e per chi è impaziente non si fa mai presto abbastanza.
 
 dal De coniuratione  Catilinae
 
V. Lucius Catilina, nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo pravoque. Huic ab adulescentia bella intestina, caedes, rapinae, discordia civilis grata fuere, ibique iuventutem suam exercuit. Corpus patiens inediae, algoris, vigiliae, supra quam cuiquam credibile est. Animus audax, subdolus, varius, cuius rei lubet simulator ac dissimulator; alieni adpetens, sui profusus; ardens in cupiditatibus; satis eloquentiae, sapientiae parum. Vastus animus immoderata, incredibilia, nimis alta semper cupiebat. Hunc post dominationem L. Sullae lubido maxuma invaserat rei publicae capiundae, neque id quibus modis adsequeretur, dum sibi regnum pararet, quicquam pensi habebat. Agitabatur magis magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et conscientia scelerum, quae utraque is artibus auxerat quas supra memoravi. Incitabant praeterea corrupti civitatis mores, quos pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia, vexabant.
Res ipsa hortari videtur, quoniam de moribus civitatis tempus admonuit, supra repetere ac paucis instituta maiorum domi militiaeque, quomodo rem publicam habuerint quantamque reliquerint, ut, paulatim immutata, ex pulcherruma < atque optima> pessuma ac flagitiosissuma facta sit, disserere
 
XIV. In tanta tamque corrupta civitate Catilina, id quod factu facillimum erat, omnium flagitiorum atque facinorum circum se tamquam stipatorum catervas habebat. Nam quicumque inpudicus, adulter, ganeo, manu, ventre, pene, bona patria laceraverat, quique alienum aes grande conflaverat quo flagitium aut facinus redimeret, praeterea omnes undique parricidae, sacrilegi, convicti iudiciis aut pro factis iudicium timentes, ad hoc quos manus atque lingua periurio aut sanguine civili alebat, postremo omnes quos flagitium, egestas, conscius animus exagitabat, ei Catilinae proxumi familiaresque erant. Quod si quis etiam a culpa vacuus in amicitiam eius inciderat, cottidiano usu atque illeceberis facile par similisque ceteris efficiebatur. Sed maxume adulescentium familiaritates adpetebat; eorum animi molles et aetate fluxi dolis haud difficulter capiebantur. Nam ut cuiusque studium ex aetate flagrabat, aliis scorta praebere, aliis canes atque equos mercari, postremo neque sumptui neque modestiae suae parcere dum illos obnoxios fidosque sibi faceret. Scio fuisse nonnullos qui ita existumarent iuventutem, quae domum Catilinae frequentabat, parum honeste pudicitiam habuisse; sed ex aliis rebus magis quam quod cuiquam id compertum foret haec fama valebat.
 
XV. Iam primum adulescens Catilina multa nefanda stupra fecerat, cum virgine nobili, cum sacerdote Vestae, alia huiuscemodi contra ius fasque. Postremo captus amore Aureliae Orestillae, cuius praeter formam nihil umquam bonus laudavit, quod ea nubere illi dubitabat, timens privignum adulta aetate, pro certo creditur necato filio vacuam domum scelestis nuptiis fecisse. Quae quidem res mihi in primis videtur causa fuisse facinus maturandi. Namque animus impurus, dis hominibusque infestus, neque vigiliis neque quietibus sedari poterat; ita conscientia mentem excitam vastabat. Igitur colos ei exsanguis, foedi oculi, citus modo, modo tardus incessus; prorsus in facie voltuque vecordia inerat.
 
XXV. Sed in eis erat Sempronia, quae multa saepe virilis audaciae facinora commiserat. Haec mulier genere atque forma, praeterea viro liberis satis fortunata fuit; litteris Graecis et Latinis docta, psallere, saltare elegantius quam necesse est probae, multa alia, quae instrumenta luxuriae sunt. Sed ei cariora semper omnia quam decus atque pudicitia fuit; pecuniae an famae minus parceret haud facile discerneres; lubido sic accensa ut saepius peteret viros quam peteretur. Sed ea saepe antehac fidem prodiderat, creditum abiuraverat, caedis conscia fuerat, luxuria atque inopia praeceps abierat. Verum ingenium eius haud absurdum: posse versus facere, iocum movere, sermone uti vel modesto, vel molli, vel procaci; prorsus multae facetiae multusque lepos inerat.
 
XXIX. Ea cum Ciceroni nuntiarentur, ancipiti malo permotus, quod neque urbem ab insidiis privato consilio longius tueri poterat neque, exercitus Manli quantus aut quo consilio foret, satis compertum habebat, rem ad senatum refert iam antea vulgi rumoribus exagitatam. Itaque, quod plerumque in atroci negotio solet, senatus decrevit, darent operam consules, ne quid res publica detrimenti caperet. Ea potestas per senatum more Romano magistratui maxuma permittitur: exercitum parare, bellum gerere, coercere omnibus modis socios atque civis, domi militiaeque imperium atque iudicium summum habere; aliter sine populi iussu nullius earum rerum consuli ius est.
 
LIV. Igitur eis genus, aetas, eloquentia, prope aequalia fuere; magnitudo animi par, item gloria, sed alia alii. Caesar beneficiis ac munificentia magnus habebatur, integritate vitae Cato. Ille mansuetudine et misericordia clarus factus, huic severitas dignitatem addiderat. Caesar dando, sublevando, ignoscendo, Cato nihil largiundo gloriam adeptus est. In altero miseris perfugium erat, in altero malis pernicies. Illius facilitas, huius constantia laudabatur. Postremo Caesar in animum induxerat laborare, vigilare, negotiis amicorum intentus sua neglegere, nihil denegare quod dono dignum esset; sibi magnum imperium, exercitum bellum novum exoptabat ubi virtus enitescere posset. At Catoni studium modestiae, decoris, sed maxume severitatis erat. Non divitiis cum divite neque factione cum factioso, sed cum strenuo virtute, cum modesto pudore, cum innocente abstinentia certabat. Esse quam videri bonus malebat; ita, quo minus petebat gloriam, eo magis illum assequebatur.
 
LXI. Sed confecto proelio, tum vero cerneres quanta audacia quantaque animi vis fuisset in exercitu Catilinae. Nam fere quem quisque vivos pugnando locum ceperat, eum amissa anima corpore tegebat. Pauci autem, quos medios cohors praetoria disiecerat, paulo divorsius, sed omnes tamen advorsis volneribus conciderant. Catilina vero longe a suis inter hostium cadavera repertus est, paululum etiam spirans ferociamque animi, quam habuerat vivos, in voltu retinens. Postremo ex omni copia neque in proelio neque in fuga quisquam civis ingenuus captus est: ita cuncti suae hostiumque vitae iuxta pepercerant. Neque tamen exercitus populi Romani laetam aut incruentam victoriam adeptus erat; nam strenuissumus quisque aut occiderat in proelio aut graviter volneratus discesserat. Multi autem, qui e castris visendi aut spoliandi gratia processerant, volventes hostilia cadavera, amicum alii, pars hospitem aut cognatum reperiebant; fuere item qui inimicos suos cognoscerent. Ita varie per omnem exercitum laetitia, maeror, luctus atque gaudia agitabantur
 
Traduzione
 
V. Lucio Catilina, di nobile stirpe, fu uomo di grande forza sia d’animo che di corpo, ma di indole cattiva e depravata. Fin dall'adolescenza gli furono gradite le guerre interne, le stragi, le rapine e la discordia civile, e in queste situazioni trascorse la sua gioventù. Aveva un fisico resistente alla fame, al freddo, alla veglia al di sopra di quanto chiunque possa credere. (Aveva) un animo audace, subdolo, mutevole, simulatore e dissimulatore di qualsiasi cosa; (era)desideroso delle cose d'altri, prodigo delle sue; ardente nei desideri; (aveva) abbastanza eloquenza, ma poco senno. L’animo insaziabile desiderava sempre cose immoderate, incredibili, esagerate. Dopo la dominazione di L. Silla lo aveva invaso un fortissimo desiderio di impadronirsi dello Stato, e non si curava affatto dei mezzi con cui raggiungere il suo scopo, pur di ottenere il potere. L'animo feroce era ogni giorno tormentato sempre più dalla povertà del patrimonio e dal rimorso dei delitti, questa e quello accresciuti da entrambi i comportamenti che sopra ho ricordato. Inoltre lo incitavano i costumi corrotti della città, che la lussuria e l'avarizia, mali pessimi e diversi fra loro, affliggevano.
Poiché l'occasione mi ricorda i costumi della città, lo stesso argomento sembra esortarmi a ritornare indietro e ad esporre con poche parole le istituzioni dei nostri avi in pace e in guerra, in quale modo abbiano costituito lo Stato, quanto grande l'abbiano lasciato e quanto a poco a poco sia diventato, da bellissimo e ottimo, pessimo e viziosissimo.
 
XIV In una tanto grande e tanto corrotta città,. Catilina, cosa che era molto facile a farsi, aveva attorno a sé, come guardie del corpo, masse di scellerati e criminali. Infatti era amico intimo e compagno di Catilina chiunque spudorato, adultero, gozzovigliatore avesse dilapidato l'eredità paterna con il gioco, la gola e il sesso, e chiunque avesse contratto enormi debiti per riscattare un'infamia o un delitto, e inoltre da ogni dove tutti i parricidi, i sacrileghi, i condannati dai giudici o i timorosi del giudizio per le cose fatte, e poi coloro la cui mano e la cui lingua si nutrivano di assassinio e spergiuro, e, infine, tutte coloro che erano tormentati dalla scelleratezza, dal bisogno, dal rimorso. E se qualcuno ancora privo di colpe era caduto nella sua amicizia, attraverso i contatti quotidiani e le lusinghe diventava facilmente uguale agli altri. Ma soprattutto desiderava ardentemente la compagnia dei giovani; i loro animi deboli e per l’età facili da ingannare, erano facilmente attirati (nella trappola). Infatti, a seconda di come, per l'età, ardeva la passione di ognuno, ad alcuni procurava prostitute, ad altri comprava cani e cavalli, insomma, non badava né a spese né alla sua dignità, purché li facesse sottomessi e felici. So che ci sono stati alcuni che hanno pensato che la gioventù che frequentava la casa di Catilina avesse poco rispetto del pudore; ma questa diceria scaturiva da altri fatti piuttosto che da prove certe che qualcuno avesse appurato.
 
XV. Fin da giovane Catilina aveva avuto numerose e sacrileghe relazioni sessuali, con una fanciulla nobile, con una sacerdotessa di Vesta e altri comportamenti dello stesso tipo, contrari alle leggi umane e divine. Infine, innamoratosi di Aurelia Orestilla, di cui mai nessun uomo onesto lodò nulla ad eccezione della bellezza, poiché lei esitava a sposarlo in quanto temeva il figliastro in età ormai adulta, si ritiene per certo che lui, ucciso il figlio, abbia reso così la casa vuota per le nozze scellerate. E questo fatto mi sembra sia stato certamente la causa principale dell'affrettare la congiura. Ed infatti il suo animo impuro, nemico degli dei e degli uomini, non poteva avere pace né nella veglia né nel sonno; così la consapevolezza (delle proprie colpe) devastava la sua mente sconvolta. Pallido quindi il colorito, torvo lo sguardo, ora concitata ora lenta l’andatura; insomma, la follia traspariva (perfino) nel volto.
 
XXV. Fra di esse c'era Sempronia, la quale aveva commesso molte scelleratezze degne dell’audacia di un uomo. Questa donna, quanto a nobiltà di nascita e a bellezza, inoltre per il marito e per i figli, fu sufficientemente fortunata; istruita in letteratura Greca e Latina, nel suonare la cetra, nel danzare con maggior raffinatezza di quanto si addica ad una donna onesta e in molte altre cose che sono strumenti di corruzione. Le era sempre più a cuore ogni cosa rispetto al decoro e al contegno pudico; non avresti potuto facilmente distinguere se risparmiasse più il suo denaro o la sua reputazione; in lei c'era una dissolutezza così accesa che più spesso cercava gli uomini di quanto non fosse cercata. Spesso prima d'allora aveva tradito la parola data, aveva negato con spergiuro di aver ricevuto denaro in prestito, era stata complice di assassinii, per la smania di lusso e la mancanza di mezzi era sprofondata nell'abisso della degradazione. Tuttavia la sua indole non era spregevole: era in grado di comporre versi, essere spiritosa, tenere una conversazione di tono ora dimesso, ora lusinghiero, ora sfacciato; insomma c'era in lei molto spirito e molta grazia.
 
XXIX. Quando a Cicerone vennero riportate queste cose, egli, turbato dal duplice pericolo, visto che non poteva proteggere più a lungo la città per iniziativa personale e che non era abbastanza informato su quanto fosse grande e quale intenzione avesse l'esercito di Manlio, relazionò la cosa in senato, della quale già in precedenza si era impadronita l'opinione pubblica. E così, come è solito fare nelle situazioni di eccezionale pericolosità, il senato ordinò che i consoli si impegnassero affinché lo Stato non subisse alcun danno. Secondo la tradizione Romana, ad un magistrato, attraverso il senato, viene conferito questo grandissimo potere, ossia di allestire l'esercito, fare la guerra, costringere in ogni maniera all'obbedienza gli alleati e i concittadini, avere il comando e il giudizio supremo in pace e in guerra; altrimenti, senza decreto del popolo, il console non ha diritto a nessuna di queste cose.
 
LIV. Dunque ebbero stirpe, età ed eloquenza quasi uguali; identica la grandezza d'animo e la gloria, ma di natura diversa nell’uno e nell’altro. Cesare era considerato grande per i benefici e la generosità, Catone invece per l'integrità di vita. Quello divenne famoso per la clemenza e la misericordia, questo aveva acquisito rispetto per la sua severità. Cesare conseguì la gloria col dare, con l'aiutare, con il perdonare, Catone con il concedere niente a nessuno. Nell'uno vi era il rifugio per i miseri, nell'altro la rovina per i malvagi; di quello era lodata la condiscendenza, di questo l'inflessibilità. Insomma, Cesare si era proposto di adoperarsi, di vigilare, di trascurare i propri interessi per dedicarsi a quelli degli amici, di non rifiutare niente che fosse degno di essere donato; per sé desiderava un grande potere, un esercito, una nuova guerra dove il (suo) valore potesse risplendere. Al contrario Catone era incline alla giusta misura, al decoro, ma soprattutto all'inflessibilità. Non gareggiava con i ricchi in ricchezza, né in faziosità con il fazioso, ma in valore con il coraggioso, in pudore con il modesto, in probità con l'onesto. Preferiva essere giusto più che sembrarlo; e così, quanto meno ricercava la gloria, tanto più la gloria lo seguiva.
 
LXI. Finita la battaglia, allora sì che avresti potuto scorgere quanta audacia e quanta forza d'animo vi era stata nell'esercito di Catilina. Infatti ognuno da morto copriva all'incirca col corpo quel luogo che aveva occupato da vivo combattendo. Pochi invece, che la coorte pretoria aveva disperso penetrando al centro dello schieramento, giacevano un più in là, peraltro tutti con ferite frontali. Catilina in verità fu ritrovato lontano dai suoi, in mezzo ai cadaveri dei nemici, mentre ancora un po’ respirava e mentre manteneva impressa in volto la ferocia d'animo che aveva avuto da vivo. Insomma, di tutta la moltitudine non fu catturato nessuno né in battaglia né in fuga che fosse cittadino libero: così in ugual misura tutti avevano risparmiato la propria vita e quella del nemico. Né tuttavia l'esercito del popolo Romano aveva ottenuto una vittoria lieta ed incruenta; infatti tutti i più valorosi o erano caduti in battaglia o ne erano usciti gravemente feriti. Molti poi che erano usciti fuori dall'accampamento per guardare o per spogliare (i morti), rivoltando i cadaveri dei nemici riconoscevano chi un amico, chi un ospite, chi un parente; ci fu anche chi riconobbe dei nemici personali. Così varie trascorrevano in tutto l'esercito gioia e mestizia, esultanza e dolore.

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