PIRANDELLO (schede)


Il fu Mattia Pascal (1904)

Riassunto: dopo le due premesse (nella prima il protagonista presenta se stesso, accennando a problemi relativi alla propria identità e dicendo di essere stato, per due anni, custode della biblioteca lasciata da un tal monsignor Boccamazza e “allogata” presso una chiesa sconsacrata; nella seconda, definita “filosofica, a mo’ di scusa”, dice che lui continua a frequentare la biblioteca (di cui ora custode è don Eligio Pellegrinotto) e che per impulso di quest’ultimo (lui non vorrebbe farlo, perché non crede all’importanza dei libri) si è accinto a scrivere la propria storia.
Col cap. III comincia, appunto, la storia vera e propria, che si può suddividere in tre parti: la prima (dal cap. III al cap. VII) in cui si raccontano le vicende di Mattia a Miragno (toponimo inventato dall’autore e collocato in Liguria) dall’infanzia, all’inferno coniugale, alla vincita a Montecarlo, alla lettura della notizia della propria morte (le ricchezze dell’agiata famiglia vengono a poco a poco dilapidate dal disonesto amministratore Batta Malagna; il giovane Mattia comincia a frequentare Romilda, su cui hanno delle mire sia l’amico Pomino sia lo stesso Malagna - zio di Romilda - che non riesce ad avere figli dalla propria moglie Oliva; Romilda si fa mettere incinta da Mattia, quindi lo lascia, su consiglio della madre - la terribile vedova Pescatore - sostenendo che il figlio è di Malagna; costui, tanta è la voglia di aver figli, è disposto a riconoscerlo, ma Mattia, che ha capito la manovra delle due donne, ingravida anche la di lui moglie Oliva e quindi Malagna riconosce come proprio solo quest’ultimo: restano “fregate” Romilda e la madre, ma anche Mattia che, malgrado sia riluttante, si vede costretto a sposare Romilda; inizia una convivenza impossibile fra Mattia, la propria madre – peraltro dolce e buona – la moglie e la suocera; muoiono le due gemelle nate da Romilda, muore la madre, maltrattata dalle due megere; per il funerale della madre, cui provvede la zia Scolastica, il fratello Berto manda a Mattia 500 lire; con questi soldi Mattia progetta di imbarcarsi a Marsiglia e andarsene in America, ma giunto a Nizza cambia idea, va a Montecarlo e al casinò vince 82.000 lire; tornerebbe da trionfatore a Miragno, se non fosse che in treno legge su un giornale la notizia del ritrovamento del suo cadavere mezzo putrefatto nella gora di un mulino, e tuttavia riconosciuto da moglie e suocera; coglie quindi l’occasione per vivere una nuova vita, viaggiando per l’Europa e attribuendosi una nuova identità: Adriano Meis); la seconda (dal cap. VIII al cap. XVI) in cui si raccontano le vicende di Adriano Meis a Roma fino al suo finto suicidio (si stabilisce presso la pensione di certo Anselmo Paleari, della cui figlia, Adriana, s’innamora, e dove soggiornano anche una maestra di pianoforte fallita, dedita anche all’attività di medium – la signorina Caporale – e un  losco individuo, che ha delle mire su Adriana, della cui sorella è vedovo – Terenzio Papiano; Mattia-Adriano, privo di una vera identità anagrafica, non può sposare Adriana, né, derubato da Papiano, può denunciare il furto, e nemmeno, avendo litigato con un pittore, può sfidarlo a duello; decide quindi di inscenare un finto suicidio, lasciando bastone e cappello su un ponte del Tevere); la terza (cap. XVII e XVIII) tratta del ritorno di Mattia a Miragno e quindi della sua decisione di vivere come “fu Mattia Pascal” (la moglie si è risposata con Pomino, il vecchio amico di Mattia, da cui ha avuto una figlia; Mattia non può reinserirsi nella vita normale; non gli rimane altra possibilità che guardare da lontano gli altri e rifugiarsi nella vecchia biblioteca del paese, da dove esce di tanto in tanto per portare fiori sulla tomba che reca il suo nome).

Tecnica narrativa: complesso il rapporto fra autore, narratore e testo: l’autore mette in campo un narratore che narra in prima persona (contro la terza delle due precedenti prove: L’esclusa e Il turno); l’io narrante non è un semplice testimone che riferisce vicende altrui (così in Il treno ha fischiato), ma è il protagonista stesso che, a vicenda conclusa, dichiara di volere scrivere la propria storia (quindi è omnisciente, perché della storia conosce percorsi ed esiti; ma, ovviamente, non c’è un distacco oggettivo rispetto ai fatti, ma un’interpretazione soggettiva degli stessi, “filtrati” dalla coscienza dell’io-narrante); è una “meta-narrazione”, perché si narra di un narratore che narra; tale dimensione meta-narrativa, preminente nelle due premesse, e ripresa nell’ultimo capitolo, riaffiora anche lungo il romanzo (alla fine del cap. III, all’inizio del X, ecc.); l’effetto è quello di uno sdoppiamento fra l’io narrante e l’io protagonista, con una sorta di ricorrente dialogo fra i due (del tipo: “agii così, perché pensavo così; adesso capisco che avrei dovuto pensarla diversamente”) e con una disarticolazione del “normale” ordine cronologico (la consequenzialità del “prima” e del “poi” è interrotta dalle interferenze del presente del narratore sul passato della vicenda).
Inoltre la narratività tradizionale si dilata fino ad accogliere ampi inserti di esposizione teorica (il cap. sulla “lanternino-sofia”) o un dialogato di tipo teatrale (capp. IX e XVII); c’è un uso grafico-visivo della parola (stampatelli, maiuscoli, grassetti, corsivi; la necrologia di Lodoletta, listata a lutto, al cap. VII; la riproduzione dell’epigrafe tombale nell’ultima pagina; ecc.).

Spunti tematici: nella seconda premessa, Mattia sostiene l’inutilità di scrivere libri, in quanto, dopo Copernico, l’uomo non ha più quella centralità (e quindi quella autoconsiderazione, quell’importanza degna di minute narrazioni) che aveva nell’universo geocentrico; l’uomo si sente “su un’invisibile trottolina”, su “un granellino di sabbia impazzito” e non può non essere consapevole della propria “infinita piccolezza”. Questa considerazione non solo è alla base del relativismo conoscitivo di Pirandello (in un simile universo, non si può presumere di conoscere la verità oggettiva), ma bene esprime la crisi d’identità dell’uomo moderno.

Mattia-Adriano si stabilisce a Roma; ma questa Roma non è la Roma barocca, raffinata, aristocratica che fa da sfondo a Il piacere di D’Annunzio; è una Roma piccolo borghese, moribonda, ben definita da Anselmo Paleari (che nel romanzo sembra essere il portavoce dell’autore) nel cap. X (Acquasantiera e portacenere): Adriana aveva collocato un’acquasantiera nella stanza di Adriano, ma costui l’aveva distrattamente usata come portacenere; Adriana l’aveva quindi ripresa, ma le era caduta di mano, si era rotta ed era finita sulla scrivania di Anselmo per essere usata, appunto, come portacenere; tale è il destino di Roma: era un’acquasantiera (con un alone di sacralità), è diventata un portacenere (luogo del rifiuto e della volgarità). In un altro momento, Mattia-Adriano racconta di una sua passeggiata notturna fino a piazza S. Pietro, e dice: “il silenzio pareva accresciuto dal continuo fragore delle due fontane. M’accostai ad una di esse, e allora quell’acqua soltanto mi sembrò viva, lì, e tutto il resto quasi spettrale e profondamente malinconico nella silenziosa, immota solennità”.

All’inizio del cap. XII, Anselmo Paleari dice che delle marionette automatiche rappresenteranno la tragedia di Oreste (l’Elettra  di Sofocle); e però, se nel bel mezzo della rappresentazione si strappasse il cielo di carta, Oreste rimarrebbe sconcertato e si trasformerebbe in Amleto: qui sta la differenza fra la tragedia antica e quella moderna. Il parallelo fra le due tragedie non è casuale: in ambedue il protagonista vendica l’uccisione del padre uccidendo la madre e il di lei amante. Ma Oreste vive in un mondo di certezze, aderisce pienamente alla vita, la sua identità e il suo mondo sono certi, i suoi sentimenti sono elementari e determinati; se “il cielo si strappa”(e il teatro è evidentemente metafora della vita), Oreste perde i propri punti di riferimento, non è più sicuro dell’universo in cui vive, non può non porsi domande su se stesso, sul senso del suo rapporto con gli altri e con il mondo; è irrimediabilmente sdoppiato, non vive ma si vede vivere, non agisce ma medita sull’azione (diventa, appunto, Amleto).

Nel cap. XIII (Il lanternino) Anselmo Paleari, fissato con lo spiritismo, espone la seguente teoria (la “lanterninosofia”) ad Adriano, quando questi deve stare per un certo periodo al buio a seguito dell’operazione a un occhio (fatta per “raddrizzare” lo strabismo e nello stesso tempo cambiare i connotati di Mattia): a differenza degli altri elementi naturali (alberi, animali), noi ci sentiamo vivere, ci sentiamo cioè distinti dalla realtà che ci circonda; tale realtà è per noi come un grande buio, rispetto al quale noi siamo come un lanternino che illumina una piccola sfera circostante; la luce è la nostra visione della realtà, determinata dalle idee dominanti nelle diverse epoche, è il modo di illuminare il buio: più forti sono le certezze, più grande è la luce; oggi ci sono luci piccole e allo sbando (mancano fedi, ideali, certezze). Ma se questo buio non fosse che un’illusione, privilegio e maledizione dell’uomo, che ha il lanternino? Se questo buio (della realtà fuori di noi e dopo di noi) non fosse che una creazione, per contrasto, della luce? Allora la morte non sarebbe un precipitare nel buio, ma solo uno spegnersi del lanternino, finalmente, che ci consentirebbe di appartenere (come siamo sempre appartenuti, del resto, ma non più con il sentimento della propria individualità separata, e con la relativa paura) alla vita universale, all’Essere, alla Verità.

Nel cap. XV (Io e l’ombra mia) si racconta di quando, dovendo pagare la parcella al chirurgo che l’ha operato all’occhio, Adriano si accorge di essere stato derubato da Terenzio Papiano, ma, malgrado le insistenze di Adriana, non può denunciarlo, per la stessa ragione per cui non può legalizzare il suo amore per Adriana: non ha identità anagrafica. Angosciato da questa condizione di impotenza, esce di casa e passeggia per Roma. Alla vista della propria ombra, comincia a parlarle rabbiosamente come se fosse un’entità reale, un altro se stesso che vorrebbe annientare (gioisce quando un carro le passa sopra), ma da cui non riesce a separarsi (“se mi metto a correre, mi seguirà”). E’ insomma esplicitato il motivo del “doppio”, antico motivo ricorrente nella letteratura (dal mito di Narciso, all’Amphitruo di Plauto, alla Meravigliosa storia di Peter Schlemihl di Adalbert von Chamisso – 1814 – a Lo strano caso del  Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Stevenson – 1886): Pirandello dà in questo modo concretezza alla sua particolare ossessione, quella per cui i suoi personaggi hanno perso la certezza (e la compattezza) della propria identità, non vivono con immediatezza, ma si guardano vivere, si sentono irrimediabilmente spezzati fra un io che vive e un io che riflette su quel vivere (“riflette”, come uno specchio, strumento inquietante, da sempre associato, come l’ombra, al motivo del “doppio”).

Avvertenza sugli scrupoli della fantasia: in appendice, in occasione di una nuova pubblicazione del romanzo, Pirandello cita due episodi di cronaca (il secondo – una storia di bigamia fondata sulla morte presunta di un coniuge – molto simile alla storia di Mattia Pascal) a testimonianza del fatto che la vita, a volte, è più inverosimile dell’arte (e quindi, accusare il romanzo di inverosimiglianza rispetto alla vita, è una sciocchezza). E’ lo zoologo che, studiando l’uomo come specie, lo rappresenta secondo un modello astratto e generale; ma gli individui concreti sono l’uno diverso dall’altro (così come lo sono le loro storie), ed è questa la verità che l’arte rappresenta (ed è una verità che prescinde dalla “verosimiglianza zoologica”). Infine controbatte anche l’accusa di “cerebralismo”, di eccesso di ragionamento (per cui i suoi personaggi sarebbero poco umani perché in essi prevale il ragionamento sul sentimento). Ma il ragionare è proprio dell’uomo, e vieppiù quando soffre (laddove la bestia soffre senza ragionare).

Si ribadisce, insomma, che la condanna dell’uomo moderno è quella di vedersi vivere, di non riuscire ad aderire pienamente alla vita: ed è la questione al centro della problematica di Svevo (v. la scheda su Svevo-Leopardi). D’altra parte tale questione (in quanto implica una sorta di sdoppiamento fra io-vivente ed io-cosciente) rimanda anche al Montale di Non chiederci la parola (“Ah, l’uomo che se ne va sicuro / agli altri ed a se stesso amico / e l’ombra sua non cura...”). Infine l’idea della morte come spegnersi del lanternino, come un disperdersi nel buio, apparente, della realtà, è ritrovabile nella novella Di sera, un geranio.

 

Sei personaggi in cerca d’autore (1921)

Mentre una compagnia sta rappresentando Il gioco delle parti (dello stesso Pirandello, che ha modo di fare dell’autoironia, facendo dire al capocomico: "ci siamo ridotti a mettere in scena commedie di Pirandello, che chi l’intende è bravo, fatte apposta di maniera che né attori né critici né pubblico ne restino mai contenti"), compaiono i sei personaggi: il Padre, la Madre, la Figliastra, il Figlio, il Giovinetto, la Bambina (la didascalia precisa: indossino una maschera, affinché "ciascuno sia fissato nell’espressione del proprio sentimento fondamentale, che è il rimorso per il Padre, la vendetta per la Figliastra, lo sdegno per il Figlio, il dolore per la Madre"). Chiedono al capocomico che porti a conclusione la loro vicenda, giacché l’autore non ha potuto o voluto; vicenda che (malgrado le perplessità del capocomico, che non riesce a capire con chi ha a che fare) cercano di esprimere, ognuno però (in particolare, il Padre e la Figliastra) interpretandola a suo modo.

Il Padre aveva avuto il Figlio dalla Madre; poi costei si era innamorata del segretario del Padre (non c’era stato tradimento, anche se, visto dall’esterno, poteva sembrarlo; il Padre, per il bene della Madre, aveva voluto che se ne andassero insieme, avendo notato l’intesa fra due persone della stessa natura, umile e buona) e da costui aveva avuto gli altri tre figli (la Figliastra, il Giovinetto, la Bambina). Il Figlio resta col Padre, il quale segue da lontano, ma con affetto, il crescere della nuova famigliola (tutte le mattine, va a vedere la Figliastra all’uscita della scuola), finché questa va a vivere in un’altra città. Ma il segretario muore, la Madre, ridotta in miseria, torna con i figli nella città del Padre, e qui, per sopravvivere, si adatta a fare la sarta presso Madama Pace (vero e proprio settimo personaggio, della stessa materia fantastica degli altri: compare, grassa e parlando spagnolo, evocata dal Padre; e scompare, cacciata dalla Madre); costei ha una sorta di negozio-sartoria, come paravento per una casa d’appuntamenti, dove la Figliastra, senza che la Madre lo sappia, si prostituisce. Qui capita il Padre, e sta per avere un rapporto incestuoso con la Figliastra quando sopraggiunge, con un grido d’orrore, la Madre. Il Padre se li riporta tutti a casa, dove il Figlio però (da sempre sdegnato con la Madre, che praticamente non ha conosciuto, e con il Padre, che si è disinteressato di lui facendolo allevare in campagna) non li accetta. La cupa tragedia ha la sua catastrofe con l’annegamento della Bambina nella vasca del giardino e il suicidio del Giovinetto con la pistola.

Questo il dramma da farsi, che però è continuamente interrotto sia perché ognuno dei personaggi ha una sua visione della realtà, incomunicabile (dice il Padre: "Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!"; ed anche i "fatti", si pensi solo all’episodio della separazione fra il Padre e la Madre, sono solo in apparenza inoppugnabili, perché "un fatto è come un sacco: vuoto, non si regge. Perché si regga, bisogna prima farci entrar dentro la ragione e i sentimenti che l’han determinato"), sia perché gli attori (il teatro) non sono in grado di riprodurre la unicità ed irripetibilità della vita, giacché anche loro non possono che interpretare soggettivamente il dramma (rappresentandone le forme esteriori), non possono esprimerne la verità (vivendone la vita).

La prefazione, scritta nel 1924, per la prima metà funge da introduzione al testo (si dice che i personaggi sono frutto della fantasia dell’autore, che li ha abbozzati; dopo di che questi si sono continuamente presentati alla sua mente, pretendendo di avere compimento, e quindi vita), per la seconda metà è un’autodifesa dalle critiche (di assurdità, di incoerenza interna). Si chiarisce che i drammi sono due, di cui uno (quello narrato dai personaggi) è soltanto strumentale a quello che l’autore ha veramente voluto rappresentare (il dramma dell’aspirazione, da parte dei personaggi, alla vita compiuta - eterna ed immodificabile - dell’arte).

Senza dubbio questo è il motivo centrale. E infatti, per paradosso, i personaggi si sentono partecipi di una realtà più vera di quella delle persone vive e reali, perché hanno il privilegio - o meglio, a quel privilegio aspirano - di essere fissati una volta per tutte (così nella prefazione: "Tutto ciò che vive, per il fatto che vive, ha forma, e per ciò stesso deve morire: tranne l’opera d’arte, che appunto vive per sempre, in quanto è forma"; e cioè, nell’opera d’arte vita e forma coincidono perfettamente); la loro realtà non cambia, mentre invece le persone reali sono soggette a continui cambiamenti - di punti di vista, di comportamenti - nel tempo, in relazione ai diversi momenti della propria vita, e nello spazio, in relazione ai diversi ambienti e alle diverse persone frequentate: per cui, si crede di essere "uno", ma si scopre di essere "tanti", e si finisce per essere "nessuno" (dice il Padre, vero e proprio portatore delle idee dell’autore: ciascuno di noi si crede "uno", ma non è vero: è "tanti", signore, "tanti", secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi: "uno" con questo, "uno" con quello - diversissimi! E con l’illusione, intanto, di essere sempre "uno per tutti"; e ancora: Un personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è. Perché un personaggio ha sempre una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre "qualcuno". Mentre un uomo... un uomo così in genere, può non essere "nessuno").

Ma c’è un altro motivo, ed è quello che concerne il rapporto fra finzione teatrale (letteratura) e vita. Il teatro tradizionale è disintegrato, nel momento in cui si rappresenta non una vicenda fissa e conclusa, ma il problema stesso del rappresentare ciò che non è rappresentabile perchè appartiene ad una soggettività incomunicabile (addirittura fra personaggi e personaggi, figuriamoci fra attori e personaggi); paradossalmente, proprio attraverso personaggi di natura letteraria (e quindi "finti"), la vita irrompe nel teatro (è abbattuta la tradizionale barriera fra spettatori e palcoscenico: i personaggi passano dalla sala, il suicidio del Giovinetto sconvolge gli attori e tutto l’apparato della finzione teatrale, pretendendo di essere "realtà"), lo sollecita a riflettere su se stesso e sulla non rappresentabilità della vita. Il teatro diventa meta-teatro, ovvero teatro nel teatro, teatro che rappresenta se stesso (e infatti i Sei personaggi fanno parte della cosiddetta trilogia del meta-teatro, che comprende Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto)

Interessante, nella prefazione, una vera e propria definizione, in tre punti, della costante problematica pirandelliana: "ciascun d’essi... esprime con sua viva passione e suo tormento quelli che per tanti anni sono stati i travagli del mio spirito: l’inganno della comprensione reciproca fondato irrimediabilmente sulla vuota astrazione delle parole; la molteplice personalità d’ognuno secondo tutte le possibilità d’essere che si trovano in ciascuno di noi; e infine il tragico conflitto immanente tra la vita che di continuo si muove e cambia, e la forma che la fissa, immutabile."




Ciaula scopre la luna

 
G. BALDI, ecc.: Dal testo alla storia, dalla storia al testo, III**
Paravia 1994, pp. 385-87.
 
L’ambientazione rimanda immediatamente alle novelle di impianto veristico: i protagonisti sono minatori che conducono una vita miserabile, come in Rosso Malpelo; e Ciaula, il più miserabile, che vive in condizioni animalesche, non può non ricordare lo stesso Rosso, su cui si riversa la violenza di tutti. Ma le differenze sono già nella tecnica narrativa: Pirandello non “regredisce”, se non occasionalmente (ad esempio, quel Gesù, che spavento!, quasi all’inizio), al livello dei personaggi, ma mantiene la distanza del narratore esterno che giudica quel mondo in base al proprio codice (lo si vede, ad esempio, nel commento sull’allegra baldanza dei minatori che contrasta con i loro visi spenti dal buio delle gallerie e con i loro corpi sfiancati dalla fatica).
Evidentemente, mentre a Verga interessa fare emergere, senza commenti, il funzionamento del meccanismo sociale, lo stravolgimento del rapporto fra gli uomini, a Pirandello interessa altro, e precisamente una verità (non sociale, ma esistenziale e metastorica) di cui non possono rendersi conto quei personaggi, e tanto meno lo può quell’anima semplice che è Ciaula. E già infatti, confrontando Rosso e Ciaula, si può notare che mentre il primo è portatore di una coscienza lucidissima, capace di elaborare una rigorosa teoria sulla lotta per la vita (“filosofo della cava”, lo ha definito Bàrberi Squarotti), il secondo è una sorta di minorato mentale, ai confini dell’animalità.
Serve a Pirandello un tale personaggio, ignorante ed istintivo, per rappresentare un’esperienza carica di significati simbolici: l’esperienza della nascita a nuova vita (o della resurrezione da una morte). A ciò rimanda tutta la sequenza finale della lenta e faticosa ascesa di Ciaula fino alla scoperta della luce della luna: le immagini parlano di “viscere della montagna”, “alvo materno”, “ventre della montagna”, e la luna è, nei culti egizi, Iside, la divinità che presiede alla resurrezione (il ciclo delle sue fasi rimanda al ciclo della nascita e della morte). La scoperta della luna è dunque una teofania, l’apparizione della divinità.
Ma la nascita è ad una nuova vita, la divinità svela la verità della vita: la scoperta della luna consente a Ciaula di liberarsi della forma entro cui era imprigionato, e di passare in una dimensione di verità, rispetto a quella di falsità in cui era vissuto fino ad allora. E insomma Ciaula è un altro personaggio che scopre (nella forma elementare che gli è data, non attraverso un ragionamento complesso o attraverso un traumatico percorso di vita) che esiste una verità vera (una vita autentica) al di là delle convinzioni (e delle convenzioni) in cui ci identifichiamo (e cristallizziamo).
 



La crisi d’identità del personaggio in alcuni scrittori e opere del ’900


 

1) La crisi d’identità del personaggio (che troviamo rappresentata in tanta narrativa del Novecento) non è altro che uno dei modi in cui si esprime quella più vasta crisi di certezze (politiche, morali, filosofiche) che investe l’Europa nella cosiddetta "età del decadentismo";


2) Sul piano filosofico, più che il pensiero di Nietzche o Bergson (che pure sono significativi, perché rompono il modo tradizionale di concepire, ad esempio, la morale o il tempo), è la psicanalisi di Freud che pone in termini nuovi la questione dell’identità dell’individuo: la psicanalisi, in quanto scopre che la coscienza è spezzata fra conscio e inconscio, fra Es, Io e Super-io, spezza anche l’illusione che i comportamenti dell’individuo siano univoci e coerenti, che ci sia perfetta corrispondenza fra quel che si pensa e quel che si fa, fra quel che si fa e quel che si vorrebbe fare (la parte conscia rispetto a quella inconscia è come la punta di un iceberg rispetto al suo corpo sommerso; gli istinti, pulsioni - Trieb - sono mostri paurosi che sfuggono ad ogni controllo morale e razionale; ecc.);


3) la letteratura europea, o perché influenzata direttamente o perché respira la stessa aria, non può non risentirne: le Memorie del sottosuolo di Dostojevskij, del 1864, sono un’anticipazione clamorosa della scoperta che accanto a un "io" tranquillo e conformista esiste un "io" distruttivo ed autodistruttivo; Proust, Joyce, Kafka non sono comprensibili senza riferimenti alla scoperta dell’inconscio da parte della psicanalisi; ed opere come The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde di Stevenson (1886) e Heart of darkness di Conrad (1906) sono perfettamente leggibili entro queste categorie;


4) sul versante italiano, Svevo e Pirandello, in modi diversi ma accostabili, esprimono questa stessa condizione: è vero per ambedue che il personaggio non si sente più "uno" (ma si sente "nessuno" e "centomila"), ed è vero per ambedue che la "malattia" consiste in un eccesso di sviluppo (una ipertrofia) della coscienza che inibisce irrimediabilmente naturalità ed immediatezza ("ma il cervello... cosa ci ha a che fare il cervello col prendere pesci?" dice Macario commentando il volo del gabbiano in Una vita);


5) più precisamente, in Pirandello il personaggio inizia la ricerca della propria identità, dal momento in cui scopre di non essere autenticamente se stesso (scopre la dissonanza fra le "forme", entro cui è costretto a vivere, e la "vita", che scorre altrove; si accorge di indossare delle "maschere", attore suo malgrado, mentre il vero "volto" è sconosciuto; ecc.): così è per Mattia Pascal (che diventa Adriano Meis, per sbarazzarsi di una "forma" o "maschera", quella di Mattia, nella quale non si riconosce più); per Vitangelo Moscarda (che paga con l’emarginazione e la "pazzia" il tentativo di conoscersi al di sotto della "maschera" di usuraio che ha ereditato dal padre); e così è per i protagonisti di tante novelle (il professore de La carriola, Belluca de Il treno ha fischiato, ecc.); d’altra parte, proprio in certe pagine del saggio su L’umorismo Pirandello chiarisce come sia proprio dell’arte il compito di svelare questa "doppiezza" della condizione umana (ed è emblematica l’immagine dell’erma bifronte che da una faccia ride del pianto dell’altra); il che equivale a dire che l’arte demistifica l’apparenza convenzionale della realtà e rivela l’emergenza del contrario per eccellenza: l’esigenza di una vita autentica che, ovviamente, si manifesta come il contrario della presunta normalità;


6) analogamente, in Svevo il personaggio è alla ricerca della "salute" perduta, della ricomposizione dell’unità originaria fra coscienza e vita: e questo è vero non solo per Zeno (per il quale la malattia è il punto di partenza; e per il quale è evidente che si tratta di compiere un viaggio attraverso la propria coscienza, con l’aiuto della psicanalisi - salvo poi ricredersi nel finale, quando riconosce che la malattia appartiene alla società tutta, e non all’individuo singolo), ma anche per un "inetto" come Alfonso Nitti o un "senile" come Emilio Brentani (non è difficile riconoscere nella "inettitudine" e nella "senilità" nomi diversi per una stessa malattia). E’ interessante notare come l’alternativa malattia-salute si manifesti, in maniera ricorrente nei diversi romanzi, come sdoppiamento fra il protagonista ed una sorta di alter-ego, che è rappresentato da un personaggio che è contemporaneamente, e non a caso, amico e rivale del protagonista: così è per le coppie Alfonso-Macario in Una vita, Emilio-Balli in Senilità, Zeno-Guido ne La coscienza di Zeno (e qualcosa di analogo si potrebbe riscontrare per le coppie femminili: Annetta Maller-Lucia Lanucci; Amalia-Angiolina; Ada-Augusta);


7) dal punto di vista sociale tale crisi d’identità può essere interpretata come il riflesso di una crisi che investe la piccola e media borghesia fra la fine dell’’800 e i primi decenni del ’900 (tale è la condizione sociale dei personaggi sveviani e pirandelliani: impiegati, professionisti, piccoli proprietari, piccoli imprenditori): una classe schiacciata fra le elites del potere da una parte e l’emergere delle grandi masse operaie e contadine dall’altra; una classe, quindi, che soffre di una vera e propria crisi d’identità sociale, che non ha più certezze sul proprio ruolo e sulla propria funzione. Tale interpretazione può essere legittimata da un romanzo come I vecchi e i giovani di Pirandello o da certe pagine (ad es. quelle finali de La coscienza di Zeno) di Svevo, ove il male di cui si soffre è visto non come un dato esistenziale-metafisico, ma come il prodotto di una ben determinata evoluzione storica.
 
 


 

 

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