GIOVENALE (lezioni)

Giovenale



Poche le notizie biografiche (1). Quasi certamente nacque ad Aquino (Lazio meridionale) (2), presumibilmente fra il 50 e il 60 (visto che al v. 25 della I Satira, databile attorno al 100, si definisce non più iuvenis e questo voleva dire un’età di almeno 45 anni), e morì dopo il 127 (3). Ci restano 16 satire, divise in cinque libri.

Nella satira I esprime la sua poetica: riallacciandosi a Lucilio (4) e Orazio (5), e più recentemente a Persio e Marziale, polemizza contro la letteratura “alta” (tragedia, poema), infarcita di mitologia, roboante ed inverosimile, cui contrappone una letteratura della realtà: la satira è questa letteratura, di cui c’è bisogno in un mondo in cui vizio e corruzione hanno raggiunto livelli di aberrazione straordinari. Perciò “si natura negat, facit indignatio versum / qualemcumque potest”, lo sdegno non può non far sentire la sua voce, a prescindere dalla bella forma poetica.

Oggetto della satira è il comportamento umano, in tutti i suoi aspetti. Il modello, indicato espressamente, è Lucilio; ma lui, in tempi in cui era garantita la libertà di espressione, poteva permettersi l’attacco individuale (il nominatim laedere); nei tempi moderni, è più sicuro denunciare il vizio in sé e nominare i morti, i personaggi dell’età precedente (“illos quorum Flaminia tegitur cinis atque Latina”, quelli le cui ceneri sono sepolte lungo la via Flaminia e quella Latina: I, vv. 170-171).

Questa “poetica dell’indignatio” riguarda principalmente le prime sette satire (6); per le altre si può notare un mutamento di impostazione: nella satira X viene affermata l’importanza del riso (è la poetica del “rigidus cachinnus”, della risata, dello scherno, ancorché severo, censorio). Il poeta non vuole più limitarsi a denunciare le aberrazioni, ma proporre anche comportamenti positivi (tornano quindi i topoi della diàtriba stoica, che costituivano il patrimonio comune e tradizionale della satira): ad esempio, se prima ci si limitava a denunciare la ricchezza come fonte di un potere ingiusto e a volte criminale, ora la si indica come un falso bene, ingannevole, non portatore di felicità, a fronte dei veri beni, che sono quelli interiori (la virtù).

La lingua non è quella tradizionale (dimessa, colloquiale) della satira, in particolare di Orazio: tende ad elevarsi, acquisisce il tono della tragedia e dell’epica, perché questo è il linguaggio adeguato per rappresentare la tragedia dell’abiezione contemporanea, l’unico appropriato alla grandiosità dei vizi. L’effetto è quello di un realismo enfatico (“caricato”, che rappresenta, cioè, più caricature che personaggi reali: si vedano, ad esempio, certe scene della satira VI), al punto che talvolta c’è il sospetto che si tratti di esercitazioni retoriche. (7)





[1]Marziale ce lo presenta intento alle faticose ed umilianti occupazioni del cliente (XII, 18).
 
[2]Satira  III, v. 319.
 
[3]Anno del consolato di Iunco, ricordato in XV, 27.
 
[4]Dichiara di volersi lanciare in quel campo per quem magnus equos Auruncae flexit alumnus (v. 20: nel quale il grande figlio di Aurunca - Lucilio era di Sessa Aurunca, in provincia di Caserta - diresse i suoi destrieri).
 
[5]Afferma che la depravazione del mondo presente è Venusina digna lucerna (v. 51: degna della lucerna di Venosa).
 
[6]La II contro gli omosessuali, la IV contro i golosi (Domiziano convoca il consiglio di corte per decidere come cucinare un grande rombo: bisognerà costruire una teglia gigante), la VI contro le donne.
 
[7]Memorabili alcune sentenze: “Probitas laudatur et alget”, “mens sana in corpore sano”, “maxima debetur puero reverentia”, “quis custiodiet custodes?”, “panem et circenses”.
 

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