LEOPARDI (lezioni: il pensiero 1)


Natura e ragione in Leopardi: il rovesciamento di prospettiva


1)                Come a proposito della poetica abbiamo visto che c’è un’evoluzione nel pensiero di Leopardi, tale per cui arriva ad accettare, a fare proprie, quelle stesse idee che aveva duramente contestato nel Discorso, così, se analizziamo il suo pensiero relativamente alle idee di “natura” e “ragione”, troviamo analogamente un radicale mutamento di posizione, dalle prime formulazioni (rintracciabili soprattutto nel Discorso, ma anche in canzoni giovanili come Della primavera o l’Inno ai patriarchi e, passim, nello Zibaldone, che è il grande laboratorio in cui prendono corpo quelle idee che poi diventano materia dell’opera letteraria) a quelle proprie dell’ultima fase della sua produzione (penso alla Palinodia e ai Paralipomeni, ma particolarmente alla Ginestra: in quel grande ed ultimo canto il rovesciamento di prospettiva è perfettamente compiuto).
2)               Natura e ragione. Di che si tratta? Niente meno che di due poli irriducibilmente antinomici: da una parte la natura, ovvero il mondo nella sua pura vitalità, animale e vegetale, ma anche, nello stesso tempo, il regno della necessità, di ciò che è innato, dei dati biologici immodificabili, di ciò che resiste ad ogni possibilità di mutamento per intervento umano; dall’altra la ragione, ovvero la specificità umana, la capacità di produrre cultura e storia, di conoscere e modificare l’ambiente, di distaccarsi da quella totale naturalità cui sono soggette le altre specie animali, di riflettere sulla realtà (conoscere la verità) del proprio e dell’altrui esistere.
3)               Conosciamo il passaggio dalla fase del cosiddetto “pessimismo storico” a quella del cosiddetto “pessimismo cosmico”; si tratta di espressioni che risalgono a Carducci e che, pur con i limiti che simili definizioni inevitabilmente comportano, sono pur sempre utili a indicare quel mutamento che indubbiamente avviene nel pensiero di Leopardi (un mutamento che non è improvviso, che ha dei passaggi intermedi, anche delle discontinuità, ma che è incontestabile). Spiegare il senso di queste espressioni, riscontrarne la fondatezza nell’opera di L. vuol dire mettere a fuoco la questione che ci siamo proposti.
4)               Parliamo di pessimismo storico per indicare quella fase in cui L. ritiene che l’uomo, nelle condizioni primitive di totale naturalità, di innocenza e di armonia con la natura, fosse felice; e che dunque l’infelicità sia un prodotto della storia, del progresso della conoscenza, ovvero di quella ragione indagatrice che, nel momento in cui svela le verità scientifiche e filosofiche connesse all’esistenza, toglie anche, senza rimedio, il piacere delle illusioni, degli “ameni inganni”, su cui si fondava la felicità primitiva. La concezione è “sistemata” nel Discorso (marzo del 18), ma è già in nuce nella Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana (luglio del 16), e in una delle prime pagine dello Zibaldone (p. 14, quindi collocabile nella seconda metà del 17) si trova la seguente osservazione:
“La ragione è nemica di ogni grandezza, la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno, o tanto più difficilmente, sarà grande, quanto più sarà dominato dalla ragione; ché pochi possono esser grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non sono dominati dalle illusioni.”
5)               Indubbiamente ci sono in questa concezione influenze di tipo russoviano (l’idea uno stato di natura caratterizzato da “felice ignoranza”, che si perde con la civilizzazione e il progresso della conoscenza)[1] ma più ancora vichiano, se si pensa che L. insiste su quel parallelo, caro anche a Vico, fra sviluppo dell’individuo e sviluppo dell’umanità (l’ontogenesi ripete la filogenesi, o viceversa), per cui l’età primitiva è come l’età fanciulla, dominata dalla fantasia (e quindi dalla poesia) e non dalla ragione (e quindi dalla scienza), la quale invece è propria dell’età adulta, così come dell’umanità progredita.
6)               Secondo Timpanaro, agli inizi c’è piuttosto un’influenza che proviene da quel filone del purismo (Cesari, Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana) che esaltava il Trecento come età di genuina semplicità (di conformità alla natura), soppiantata poi dall’artificiosità e dall’eccesso di cultura dei secoli successivi (e non mancava nemmeno un paragone fra grecità e trecentismo). Di fatto però non è attestata, nel 16, una conoscenza della Dissertazione da parte di L., e nemmeno si può pensare a una “mediazione” di Giordani, la corrispondenza con il quale comincia nel marzo del 17. In ogni caso, la concezione di L. valica i limiti delle questioni linguistico-letterarie, poste dai puristi e da Giordani: per lui è l’intera società moderna corrotta (in tutti i suoi aspetti, politici e di costume) rispetto alla sanità della società antica.
7)               Dunque la condizione naturale è felice, era felice l’uomo “a cui natura / parlò senza svelarsi” (Ad Angelo Mai, gennaio 20) e che quindi era capace di un forte sentire e di forte immaginazione: sono concetti su cui L. insiste particolarmente nel Discorso, anzi, sono i concetti su cui si fonda l’argomentazione stessa del Discorso: dobbiamo porci di fronte alla natura con la stessa disposizione d’animo degli antichi e dei fanciulli, se vogliamo che la poesia sopravviva e non sia soffocata dalla ragione, annichilita dalla conoscenza del vero. Ma, come dicevo, non è solo questione di poesia: nella società antica è diversa la “qualità della vita”, la condizione umana è felice perché sono possibili le illusioni e quindi le imprese magnanime, l’esercizio della virtù.[2]
8)               L’idea di una natura materna e benigna si ritrova anche nelle canzoni degli anni fra il 20 e il 22: così nel Bruto minore (dicembre 21), dove il protagonista lamenta la fine del tempo in cui la virtù del magnanimo poteva dispiegarsi:
 “non fra sciagure e colpe, / ma libera ne’ boschi e pura etade / natura a noi prescrisse, / reina un tempo e Diva” (52-55)[3];
nella canzone Alla primavera (gennaio 22) la natura è chiamata “santa” (20) e la sua voce “materna” (21); nell’Inno ai Patriarchi (luglio 22) si dice che gli
 “immedicati affanni” del misero mortale “non la pietà, non la diritta impose / legge del cielo” (e cioè, non una legge naturale voluta da dio) (10-11), ed anche: “Fu certo, fu… amica un tempo / al sangue nostro e dilettosa e cara / questa misera piaggia, ed aurea corse / nostra caduca età.” (87-92).
9)               Infine, chiaramente, in più passi dello Zibaldone. Mi limito a ricordare quelli in cui L. interpreta  la favola di Psiche in analogia alla vicenda biblica del peccato originale, in cui all’esaltazione della natura è associata la deplorazione della ragione:
“la favola di Psiche, cioè dell'Anima, che era felicissima senza conoscere, e contentandosi di godere, e la cui infelicità provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così conveniente e preciso, e nel tempo stesso così profondo, della natura dell'uomo e delle cose, della nostra destinazione vera su questa terra, del danno del sapere, della felicità che ci conveniva, che unendo questa considerazione, al manifesto significato del nome di Psiche, appena posso discredere che quella favola non sia un parto della più profonda sapienza, e cognizione della natura dell’uomo e di questo mondo… Del resto combinando quest’osservazione col racconto della Genesi, dove l’origine immediata della infelicità e decadimento dell’uomo si attribuisce manifestamente al sapere… mi si fa verisimile che queste gran massime, l’uomo non è fatto per il sapere, la cognizione del vero è nemica della felicità, la ragione è nemica della natura… fossero non solamente note, ma proprie e quasi fondamentali dell’antica sapienza…” (10/2/21, pp. 637-638);
quindi, in termini quasi identici, nel luglio del 23:
“Dalle lunghe considerazioni da me fatte circa quello che voglia significare nella Genesi l'albero della scienza ec., dalla favola di Psiche della quale ho parlato altrove, e da altre o favole o dogmi ec. antichissimi… si può raccogliere non solo quello che generalmente si dice, che la corruzione e decadenza del genere umano da uno stato migliore, sia comprovata da una remotissima, universale, costante e continua tradizione, ma che eziandio sia comprovato da una tal tradizione e dai monumenti della più antica storia e sapienza, che questa corruttela e decadimento del genere umano da uno stato felice, sia nato dal sapere, e dal troppo conoscere, e che l'origine della sua infelicità sia stata la scienza e di se stesso e del mondo, e il troppo uso della ragione.” (2939).
Allo stesso modo viene interpretato il mito dell’età dell’oro (peraltro, richiamato anche nel già citato Inno ai patriarchi):
“Quell'antica e si famosa opinione del secol d'oro, della perduta felicità di quel tempo, dove i costumi erano semplicissimi e rozzissimi, e non pertanto gli uomini fortunatissimi, di quel tempo, dove i soli cibi erano quelli che dava la natura… quest'opinione sì celebre presso gli antichi e i moderni poeti, ed anche fuor della poesia, non può ella molto bene servire a conferma del mio sistema, a dimostrare l'antichissima tradizione di una degenerazione dell'uomo, di una felicità perduta dal genere umano, e felicità non consistente in altro che in uno stato di natura, e simile a quello delle bestie, e non goduta in altro tempo che nel primitivo, e in quello che precedette i cominciamenti della civilizzazione, anzi le prime alterazioni della natura umana derivate dalla società?” (13/12/21, p. 2250).
10)                      Ma interessanti sono anche quei passi dove L. argomenta in favore del suicidio:
“Noi siamo del tutto alienati dalla natura, e quindi infelicissimi… da che la nostra vita ha cessato di essere naturale, da che la felicità che la natura ci avea destinata è fuggita per sempre, e noi siam fatti incurabilmente infelici..” (815-17, 19/3/21)
Perché, continua, rifiutarsi di compiere un atto (il suicidio) che certo è contro natura, ma è secondo ragione, secondo quella ragione che “ha combattuta e vinta la natura per farci infelici”? Che senso ha appellarsi alla natura in un mondo in cui la natura è stata soppiantata dalla ragione? Peraltro, si tratta proprio delle argomentazioni usate da Porfirio nel celebre Dialogo di Plotino e Porfirio (che è del settembre 1827). E ancora nell’aprile del 22: noi non possiamo
 “esser più partecipi della felicità destinata all’uomo naturalmente… Se la nostra natura fosse la prima natura umana, non saremmo infelici, e questo inevitabilmente e irrimediabilmente; e non desidereremmo, anzi aborriremmo la morte” (2402-403)
Ma già in questi anni già compaiono i segni di una mutata concezione, ovvero di una concezione che ritiene la natura responsabile dell’infelicità. Le due concezioni convivono, per un certo periodo (v. sotto, punto 13), come se L. volesse salvare il proprio “sistema”, malgrado l’insoddisfazione che comincia ad avvertire.
11)                      Il passaggio al cosiddetto “pessimismo cosmico”, non è così netto, come dicevo. Ma certo, non si sbaglia individuando nelle Operette morali il luogo e il tempo (attorno al 24) in cui la nuova concezione è messa a punto. Bisognerà ricordare che risalgono al 23, l’anno del soggiorno romano, la lettura (indiretta, attraverso Il viaggio del giovane Anacarsi, di Barthélemy) di quei testi (di Teognide, Pindaro, Sofocle, Euripide, nonché l’Eudemo di Aristotele) in cui era espressa la sapienza silenica, ovvero il pessimismo antico: forte stimolo a rivedere l’idea di una felicità degli antichi, revisione che si concretizzerà nelle Operette morali. Peraltro, sia Luporini che Timpanaro  danno per scontata una influenza del Voltaire del Poema sul disastro di Lisbona (1755), che viene citato a p. 4175 dello Zibaldone (aprile 26), proprio ad introduzione del famoso pensiero “entrate in un giardino…”.[4]
12)                      In operette come il Dialogo della natura e un islandese o il Cantico del gallo silvestre emerge con chiarezza l’idea di una natura indifferente al dolore degli individui, e quindi “madre di parto, e di voler matrigna” (così nella Ginestra, peraltro unico luogo in cui si trova l’appellativo di “matrigna”).  La natura, indifferente alla sorte delle sue creature, bada solo alla conservazione della totalità dell’universo mondo, attraverso un “perpetuo ciclo di produzione e distruzione” (Dialogo della natura e un islandese); ma se così è, se “quel che è distrutto patisce, e quel che distrugge non gode”, si tratta di una “vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono”. Non c’è possibilità di felicità, in nessuna condizione, civilizzata o naturale, antica o moderna, umana, animale o vegetale. Così si rivolge al sole il gallo silvestre:
 “Vedi tu di presente o vedesti mai la felicità dentro ai confini del mondo? In qual campo soggiorna, in qual bosco, in qual montagna, in qual valle, in qual paese abitato o deserto, in qual pianeta dei tanti che le tue fiamme illustrano e scaldano? Forse si nasconde dal tuo cospetto, e siede nell’imo delle spelonche, o nel profondo della terra e del mare? Qual cosa animata ne partecipa, qual pianta o che altro che tu vivifichi, qual creatura provveduta o sfornita di virtù vegetative o animali?”    
13)                      Chi, come Timpanaro[5], cerca tracce precedenti di questa mutata concezione della natura, le trova in testi come la canzone Per una donna inferma di malattia lunga e mortale (scritta nella primavera del 19, poi non pubblicata), dove si dice:
“natura / n’ha fatti a la sciaura / tutti quanti siam nati” (stanza 8), e poi (stanza 9) “e chi diritto guata, / nostra famiglia a la natura è gioco.”
Ma qui, nel contesto di una poesia d’occasione, di tipo consolatorio, il rilievo dell’infelicità comune sembra essere un topos più che il segno di un pensiero nuovo. Del resto nella canzone ci sono i motivi tipici del pessimismo storico, laddove si dice che il vivere a lungo è un male perché comporta il convivere con l’empia e vile società presente (strofa 10). Ed anche in idilli come La sera del dì di festa (20) o La vita solitaria (estate 21) si ritrova il lamento contro “l’antica natura onnipossente, che mi fece all’affanno”, ma siamo ancora su un piano autobiografico, lontano dalla concezione di una natura ostile all’intero genere umano. In questo senso, con questi limiti, è L’ultimo canto di Saffo (maggio del 22) il documento più convincente (all’origine dell’infelicità non c’è la civiltà corrotta dall’abuso della ragione, ma un elementare ed irrimediabile dato di natura: la bruttezza fisica di Saffo).
14)                      Si può pensare ad una fase intermedia, fra la fine del 21 (il tempo della composizione delle canzoni A un vincitore nel gioco del pallone, Nelle nozze della sorella Paolina, Bruto minore) e l’aprile del 24 (composizione dell’operetta Dialogo della Natura e di un’anima), in cui convive in L. uno strano dualismo fra l’idea di una natura fondamentalmente benefica e il lamento contro la malignità del fato, dei numi e simili. L’obbrobriosa età moderna è voluta dal “duro cielo”, dall’”empio fato” (Nelle nozze…, prima strofa); la decadenza è “nostra colpa e fatal”, cioè del fato (A un vincitore…, v. 57); nel Bruto minore alla natura benefica si contrappone la volontà malefica degli dei (pur essendoci anche il riferimento all’”empio costume” degli uomini, instaurato dalla ragione, come causa della perdita dei “beati regni”: v. 56):
A voi, marmorei numi / (se numi avete in Flegetonte albergo / o su le nubi), a voi ludibrio e scherno / è la prole infelice / a cui templi chiedeste, e frodolenta / legge al mortale insulta. /
Nel Dialogo della Natura e di un’anima, il dualismo è ribadito con chiarezza, e sembra il segnale della crescente insoddisfazione di L. per il proprio “sistema”, una insoddisfazione che non ha trovato ancora sistemazione teorica e che cerca di salvaguardare la bontà della natura, accusando un’altra entità altrettanto (o più) potente ed immodificabile (e dunque un’entità che sembra un travestimento della natura, un modo provvisorio, e mascherato, di nominarla); dice la Natura all’anima che le aveva chiesto di rendere felici le creature o di non farle nascere:
Né l’una né l’altra cosa è in potestà mia, che sono sottoposta al fato; il quale ordina altrimenti, qualunque ne sia la cagione; che né tu né io non la possiamo intendere… Tutto questo è contenuto nell’ordine primigenio e perpetuo delle cose create, il quale io non posso alterare… Tutte le anime degli uomini… sono assegnate in preda all’infelicità, senza mia colpa… Di codesto conferirò col destino.
15)                      Ne La scommessa di Prometeo sembra doversi concludere che non vi sia più traccia di uno stato naturale felice. Ma se si legge l’operetta (che è del maggio del 24) in parallelo con certe pagine dello Zibaldone dell’ottobre del 23, si capisce che per L. la condizione di quei popoli primitivi che danno prova di grande barbarie e violenza, che contrasta con la felicità naturale (in un caso l’antropofagia, in un altro l’usanza del rogo per le vedove), non è propriamente una condizione naturale, ma già di allontanamento dalla natura, che voleva “niuna società, o scarsa e larga”, e non una “società stretta” come invece l’uomo ha costruito[6]. Il ragionamento è interessante: la società stretta porta necessariamente a comportamenti umani violenti e “infelicitanti” (contro natura), in quanto i singoli, invece di collaborare per il bene comune, perseguono i propri interessi a danno degli altri. Succede nella società stretta che quell’amor proprio naturale (amore di sé, della propria conservazione, della propria felicità. indissociabile dal vivere) si esplichi, innaturalmente, come odio verso gli altri (si attiva ciò che c’era in potenza), con tutti i mali che ne conseguono (oppressione, guerra, ecc.). Gli effetti di tale odio sono più vistosi in quei popoli che sono più vicini allo stato naturale (v. l’antropofagia dei selvaggi o l’uso di sacrifici umani o di bruciarsi vivi): dal che si dovrebbe dedurre che la società civile, in quanto non attua le pratiche barbare proprie dei popoli primitivi, è più vicina alla bontà della natura (3773-3810); ma la società civile, come scoprono Momo e Prometeo, è quella in cui l’individuo nuoce non agli altri, ma a se stesso (fino al suicidio), ed è quindi massimamente infelice (3932-3936). Lo stato naturale (e quindi buono) è rintracciabile solo nei Californi (il riferimento a questo popolo come modello di primitività naturale, ritorna altre volte in Zibaldone, cosiccome nel finale dell’Inno ai Patriarchi; non so da quale fonte provenga), che vivono in una società larga e quindi non fanno niente contro natura (3801)[7].
16)                      Ma non c’è dubbio che, sul piano teorico, l’elemento decisivo che induce al passaggio da una concezione all’altra, si debba individuare nella elaborazione della teoria del piacere, iniziata nel luglio del 20 e più volte ripresa successivamente (Zibaldone: 12/2/21, 2/5/22). Il ragionamento è semplice e stringente nella sua logica: esistere comporta “amor proprio” e della propria conservazione; l’amor proprio, che è senza limite, implica a sua volta il desiderio, per sé, del piacere; tale desiderio del piacere, adeguato ad un amor proprio senza limite, non riesce ad essere colmato da nessun piacere particolare, e quindi (per quanto possa essere, occasionalmente, “ingannato”, “mitigato”, “addormentato”) resta in stato di perenne tensione insoddisfatta; se ne conclude che l’insoddisfazione, ovvero l’infelicità, è congenita all’esistenza e non ha termine se non con il termine dell’esistenza. Ciononostante, in un primo momento L. cerca di salvare il proprio “sistema”, che presuppone il carattere benigno della natura, sostenendo che la stessa ha provveduto ad alleviare tale condizione, fornendo all’uomo l’immaginazione e le illusioni, che sono “il primo fonte della felicità”, ed anche la gran varietà delle cose e la necessità di soddisfare i bisogni primari, che lo tengono occupato, ingannano, mitigano, addormentano quel desiderio infinito, impediscono che l’uomo sia sopraffatto dalla noia (prima conseguenza della impossibilità di soddisfare il desiderio infinito):
 “Il piacere infinito che non si trova nella realtà, si trova nella immaginazione… quindi bisogna considerare la gran misericordia e il gran magistero della natura, che da una parte non potendo spogliare l’uomo e nessun essere vivente dell’amor del piacere, che è una conseguenza immediata e quasi tutt’uno coll’amor proprio e della propria conservazione necessario alla sussistenza delle cose, dall’altra parte non potendo fornirli di piaceri reali infiniti, ha voluto supplire: 1. colle illusioni, e di queste è stata loro liberalissima… 2. coll’immensa varietà, acciocché l’uomo stanco o disingannato di un piacere ricorresse all’altro…(167-168)
E la natura è certo che ha provveduto in tutti i modi contro questo male (la noia).. col dare all’uomo molti bisogni, e nella soddisfazione del bisogno (come della fame e della sete, freddo, caldo, ec.) porre il piacere, quindi col volerlo occupato; colla gran varietà, colla immaginazione… Insomma il sistema della natura rispetto all’uomo è sempre diretto ad allontanar da lui questo male formidabile della noia (175)”.
17)                      Ma è un ragionamento che non può tenere fino in fondo: l’infelicità derivante dalla inevitabile insoddisfazione del desiderio potrà essere ingannata o addormentata, ma è pur sempre congenita, associata inseparabilmente all’esistenza, e quindi opera di una natura che, al fondo, non è benigna verso le sue creature, siano esse uomini civilizzati o uomini primitivi; di più: siano uomini o animali o piante: tutto ciò che esiste, sarà questa la conclusione, è in condizioni di sofferenza. Sono affermazioni che si possono ritrovare più volte nello Zibaldone:
“La felicità è impossibile a chi la desidera, perché il desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente... Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter essere soddisfatto. Ora questo desiderio è conseguenza necessaria, anzi si può dir tutt’uno coll’amor proprio. E questo amore è conseguenza necessaria della vita... Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi si ama, e quindi desidera assolutamente la felicità, vale a dire una felicità senza limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio suo non può essere soddisfatto), per ciò stesso, dico, che vive, non può essere attualmente felice.” (648, 12/2/21)
“Dove non v’ha piacere, quivi ha patimento, perché v’ha desiderio non soddisfatto di piacere, e il desiderio non soddisfatto è pena. Né v’ha stato intermedio, come si crede, tra il soffrire e il godere; perché il vivente desiderando sempre per necessità di natura il piacere, e desiderando perciò appunto ch’ei vive, quando e’ non gode, ei soffre.... Né altrimenti ei può cessare o intermettere di soffrire, che o cessando veramente di vivere, o non sentendo la vita, ch’ è quasi come intermetterla, e lasciare per un certo intervallo di essere vivente. In questi soli casi il vivente può non soffrire. Vivendo e sentendo di vivere, ei nol può mai; e ciò per propria essenza sua e della vita, e perciò appunto ch’egli è vivente, ed in quanto egli è tale...(3551-52, 29/9/23).” 
18)                      Ed è una condizione che riguarda non solo l’uomo, ma, secondo una certa gradazione, ogni essere vivente:
“Una specie di viventi rispetto all’altra o all’altre generalm. ec. è tanto più felice, cioè tanto meno infelice, tanto più scarsa d’infelicità positiva, quanto meno dell’altra ella sente l’esistenza, cioè quanto men vive e più s’accosta ai generi non animali. (Dunque la specie de’ polipi, zoofiti ec. è la più felice delle viventi)”. (3848, 7/11/23)
 “... resta che non solo gli uomini e gli animali, ma niun essere vi sia, che possa essere né sia felice, che la felicità... sia di sua natura impossibile, e che l’universo sia di propria natura incapace della felicità, la quale viene ad essere un ente di ragione e una pura immaginazione degli uomini. E siccome d’altronde l’assenza della felicità negli esseri amanti se med. importa infelicità, segue che la vita, ossia il sentimento di questa esistenza divisa fra tutti gli esseri dell’universo, sia di natura sua, e per virtù dell’ordine eterno e del modo di essere delle cose, inseparabile e quasi tutt’uno colla infelicità e importante infelicità, onde vivente e infelice sieno quasi sinonimi.” (4137, 3/5/25)  
“Riconosciuta la impossibilità tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente... riconosciuto che l’infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro né deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gli individui animali meno sensibili, men vivi per natura loro, hanno il minor grado possibile di tal sentimento.”  (4186, 13/7/26)
  
Che sia una verità valida non solo per i viventi “senzienti”, come uomini e animali (verità poeticamente ribadita nella chiusa del Canto notturno, dove si dice che “dentro covile o cuna / è funesto a chi nasce il dì natale”) ma anche per i viventi di vita vegetativa, lo si vede soprattutto nel passo famoso dello Zibaldone in cui viene rovesciato il topos del locus amoenus:
 
“Non gli uomini solamente... se questi esseri sentono o, vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere.” (4175-77, 22/4/26)
Alla fine di questo ragionamento ci attende inevitabile la cosiddetta “sapienza silenica”, ovvero la risposta del Sileno al re Mida che gli chiedeva il segreto della felicità: meglio non essere, essere niente.
“Desiderare la vita, in qualunque caso, e in tutta l’estensione di questo desiderio, non è insomma altro che desiderare l’infelicità; desiderare di vivere è quanto desiderare di essere infelice.”  (829-30, 20/3/21)
19)                      C’è poi la memorabile nota (2-1-29) in cui L. nega la misantropia per incolpare la natura di ogni male:
“La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi” (4428).
Del 17/5/29 è il passo in cui, in polemica con un pensiero di Rousseau (secondo cui il male è causato dal “disordine” che l’uomo arreca alla natura), si sostiene che il male non è accidentale, ma è inerente all’ordine della natura:
Appunto l’ordine che è nel mondo, e il veder che il male è nell’ordine, che esso ordine non potrebbe star senza il male, rende l’esistenza di questo inconcepibile… Noi concepiamo più facilmente de’ mali accidentali che regolari e ordinarii… Ma che epiteto dare a quella ragione e potenza che include il male nell’ordine, che fonda l’ordine nel male? Il disordine varrebbe assai meglio: esso è vario, mutabile; se oggi v’è del male, domani vi potrà esser del bene, esser tutto bene: Ma che sperare quando il male è ordinario? Dico, in un ordine ove il male è essenziale? (4511)
Il rovesciamento è compiuto. Come conclusione, si può vedere anche il progettato Inno ad Arimane (primavera del 33). Rivolgersi alla divinità del male come “re delle cose, autor del mondo” (con quel che segue), equivale a riconoscere l’essenza maligna della natura. Del resto al dio del male (Arimane) viene attribuito lo stesso carattere ingannatore della natura, quando gli si chiede: “perché hai tu posto nella vita qualche apparenza di piacere? Per travagliarci col desiderio…?” Natura e divinità del male sono la stessa cosa (Ad Arimane: “te con diversi nomi il volgo appella fato, natura e dio”; A se stesso: “… la natura, il brutto / poter, che, ascoso, a comun danno impera.”)
20)                      A ben guardare, con questa unificazione si supera quel dualismo che aveva caratterizzato una certa fase del pensiero leopardiano (rilevato da Timpanaro, v. sopra, punto 14), secondo cui ad una natura benefica si contrapponeva una malefica volontà divina (o del fato): nella figura di Arimane malvagità della natura e degli dei si identificano.[8] E comunque questa personificazione della natura in una divinità malvagia non è più di una allegoria, perché, per il materialista L., la natura resta sempre un meccanismo incosciente e non intenzionalmente finalizzato. Lo dice già la stessa natura all’Islandese:
Or sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o alla infelicità.
Ma è una verità che si ritrova anche nelle ultime opere; nel canto Sopra un bassorilievo antico sepolcrale:
Ma da natura / altro negli atti suoi / che nostro male o nostro ben si cura (vv. 107-109)
Nei Paralipomeni, dopo averla chiamata “capital carnefice e nemica” dei suoi figli, si corregge:
piuttosto ad ogni fin rivolta, / che al nostro che diciamo o bene o male; / e confessar che de’ suoi fini è tolta / la vista al riguardar nostro mortale, / anzi il saper se non da fini sciolta / sia veramente… (strofa 13)
21)                      Quanto al pensiero di L. sulla ragione, si può vedere, corrispondentemente allo sviluppo del suo pensiero sulla natura, un rovesciamento di posizione, dal punto di vista iniziale (quando la ragione viene vista come la causa della fine dell’età felice – infanzia dell’individuo e infanzia dell’umanità – in quanto apportatrice di quella conoscenza del vero che distrugge senza rimedio il mondo delle piacevoli immaginazioni: vedi Ad Angelo Mai, ma vedi anche le pagine dello Zibaldone, già citate, in cui si interpretano la favola di Psiche e il mito biblico della genesi) al punto di vista finale (quando viene vista come l’unico valore cui fare riferimento, in un’età, quella contemporanea, in cui l’umanità preferisce consolarsi con favole religiose o laico-progressiste: vedi il percorso dalla Palinodia alla Ginestra)
22)                      Se si vuole individuare il passaggio intermedio che conduce a questo approdo, si può far riferimento all’anti-platonismo di L., o meglio, allo sviluppo (anche in questo caso, fino a un rovesciamento) dell’atteggiamento di Leopardi nei confronti di Platone. Si tratta di questo: il romanticismo, in un clima di recupero della religiosità, privilegiava Platone come filosofo antimaterialista e spiritualista (e quindi da valorizzare contro il materialismo e l’ateismo diffusi). E Carlo Antici aveva esortato Leopardi a tradurre i Dialoghi in questa prospettiva. Ma Leopardi non aveva mai amato Platone, appunto perché misticheggiante e irrazionale[9]. Insomma, quando L. polemizza con Platone, lo fa in nome del valore della ragione: già nel novembre del ’20 contrapponeva la filosofia scientifica di Aristotele, fondata sul vero e sull’esperienza, alla “filosofia artistica” di Platone; diceva, parlando di Teofrasto:
“Il sapere… egli non lo faceva servire, come Platone, all’immaginativa, per fabbricarne un sistema fondato sul brillante e sul fantastico, ma, come Aristotele, alla ragione, per discorrere delle cose sul fondamento del vero e dell’esperienza” (Zib. 351).
Ma tale antiplatonismo trova la sua più chiara espressione in un pensiero del 17/10/26 (Zib. 4219-22), laddove L. riporta e commenta un passo della Vita di Isidoro (neoplatonico del V sec. d. C.) di Damascio (neoplatonico del VI sec.); dopo aver detto che il misticismo irrazionale di Isidoro gli pare ridicolo e peraltro simile al misticismo irrazionale dei tempi presenti che svaluta la ragione ed esalta il sentimento, aggiunge:
“che altro è questo sentimento, questa sensibilità, questo entusiasmo, queste ispirazioni… che ci si dà per il principal mezzo di conoscere il vero, ed a cui si debba subordinare ogni altro mezzo compresa la ragione…?… Pochi filosofi anteriori o contemporanei (e così posteriori) avevano osato così sfacciatamente ripudiar la ragione, o sottometterla al sentimento, all’entusiasmo, all’ispirazione… deprimere e condannare Aristotele, appunto perché seguace tou anankàiou, cioè dei metodi esatti di conoscere il vero, di ragionare, di convincere, per principi incontrastabili, conseguenze necessariamente dedotte; ed anteporgli Platone, Pitagora, ec., perché non ragionatori, perché pistèuontas al libero sentimento, all’immaginario, che Isidoro chiama divino”.
23)                      Si potrà obiettare che qui si parla di filosofia e che quindi è ovvio che si faccia riferimento alla ragione (che è la facoltà per conoscere il vero) e si deplori l’uso di ogni altra facoltà non razionale (il sentimento, l’immaginazione). Ma non si dimentichi che L. aveva esaltato la superiorità, anche conoscitiva, dell’immaginazione poetica sulla fredda razionalità scientifico-filosofica. E si avverte pienamente il cambiamento di pensiero in L. se si confronta il passo sopra citato con il seguente, del 22/8/23, a conclusione del quale elogiava proprio Platone (in quanto filosofo-poeta, dotato di immaginazione e cuore) quel Platone che, per la stessa ragione, nel sopra citato passo del 26 viene trattato in modo così sprezzante:
“Chiunque esamina la natura delle cose colla pura ragione, senz’aiutarsi dell’immaginazione, né del sentimento, né dar loro alcun luogo… potrà ben quello che suona il vocabolo analizzare, cioè risolvere e disfare la natura, ma e’ non potrà mai ricomporla, voglio dire e’ non potrà mai dalle sue osservazioni e dalla sua analisi tirare una grande e generale conseguenza…”
Insomma, continua, potrà conoscere le singole parti della natura, ma gli sfuggiranno sempre l’insieme, i rapporti fra le parti, le finalità; gli sfuggirà sempre la poeticità della natura, che, della natura, è la verità più profonda; quindi
“tutto ciò ch’è poetico si sente piuttosto che si conosca e s’intenda, o vogliamo anzi dire, sentendolo si conosce e s’intende, né altrimenti può essere conosciuto, scoperto ed inteso, che col sentirlo. Ma la pura ragione e la matematica non hanno sensorio alcuno. Spetta all’immaginazione e alla sensibilità lo scoprire e l’intendere tutte le sopraddette cose… e queste facoltà nostre sono esse sole in armonia col poetico ch’è nella natura; la ragione non lo è; onde quelle sono molto più atte e potenti a indovinar la natura che non è la ragione a scoprirla. E siccome alla sola immaginazione ed al cuore spetta il sentire, e quindi il conoscere ciò ch’è poetico, però ad essi soli è possibile ed appartiene l’entrare e il penetrare ne’ grandi misteri… della natura… Finalmente la sola immaginazione ed il cuore, e le passioni stesse, o la ragione non altrimenti che colla loro efficace intervenzione, hanno scoperto e insegnato e confermato le più grandi, più generali, più sublimi, profonde, fondamentali verità filosofiche che si posseggano, e rivelato o dichiarato i più grandi, alti, intimi misteri che si conoscano della natura delle cose.” (3238-45).
24)                      Fondamentale è anche la rivalutazione della civiltà moderna intesa come un risorgimento dalla barbarie medievale; lo strumento di liberazione è stato il pensiero filosofico e scientifico, a partire dal Rinascimento fino al secolo dei lumi: quest’ultimo, quindi, non l’antichità, diventa il termine di riferimento per misurare la decadenza del presente. Si veda l’elogio del metodo scientifico di Newton, in opposizione all’”arbitrarietà” degli antichi (4/4/24):
… gli spiriti e nella fisica e nell’altre scienze e in ogni ricerca del vero… si sono volti all’esame fondato dei particolari (senza cui è impossibile generalizzare con verità e profitto) e alla pratica ed esperienza e alle cose certe, rinunziando all’immaginazione, all’incerto, allo splendido, ai generali arbitrari, tanto del gusto de’ secoli antecedenti e padri di tanti sistemi a quei tempi, che rapidamente brillavano e si spegnevano, e succedevansi e distruggansi l’un l’altro (4057).
E ancora, nel Discorso sopra lo stato presente del costume degl’Italiani  (marzo del 24), in polemica con Chateaubriand, pur mantenendo l’antichità come termine di confronto irrinunciabile, indica il Medioevo come momento estremo di decadenza da cui si è risorti[10]:
E’ un falsissimo modo di vedere quello di considerare la civiltà moderna come liberatrice dell’Europa dallo stato antico… Il risorgimento è stato dalla barbarie de’ tempi bassi, non dallo stato antico; la civiltà, le scienze, le arti, i lumi, rinascendo, avanzando e propagandosi, non ci hanno liberato dall’antico, ma anzi dalla totale e orribili corruzione dell’antico. In somma la civiltà non nacque nel Quattrocento in Europa, ma rinacque…Il grande e incontrastabile beneficio della rinata civiltà e del risorgimento de’ lumi si è di averci liberato da quello stato egualmente lontano dalla coltura e dalla natura proprio de’ tempi bassi, cioè di tempi correttissimi… Da questo stato ci ha liberati la civiltà moderna; da questo, di cui sono ancora grandissime le reliquie, ci vanno liberando sempre più i suoi progressi giornalieri; da’ suoi effetti e da’ suoi avanzi e dalle opinioni che li favoriscono procura e sforzasi di liberarci la nuova filosofia, nata, si può dire, non ancor sono due secoli…
25)                      Ma la valorizzazione della ragione da parte di L. si intravede anche se si segue l’evoluzione del suo pensiero sul cristianesimo. Di questo si dice non solo che è stato negativo per l’umanità perché ha insegnato il disprezzo del mondo e del corpo (1426-27, 13/9/21, 2/2/22), ma anche che, dopo secoli di dominio incontrastato, da un secolo e mezzo a questa parte è stato soppiantato – e per sempre – dalla filosofia dei lumi: è il 7/8/21, e per Leopardi è ancora valido il sistema fondato sull’opposizione natura-ragione, ma già riconosce la positività di quella ragione che ha demolito le false credenze religiose.
26)                      Dunque, cambia il pensiero di L. sulla ragione e l’ultimo canto, la Ginestra, è la celebrazione della ragione come unico valore a cui appigliarsi dopo la strage delle illusioni, unica bussola nel deserto della vita. Ed è proprio la ragione settecentesca, la ragione illuminista nel senso etimologico, se solo si guarda a quell’epigrafe evangelica (vangelo di Giovanni) con cui si apre il componimento: un’epigrafe in cui i termini “luce” e “tenebra” hanno perso i connotati religiosi originari per acquisire quelli settecenteschi di “luce rischiarante della ragione” e “tenebra dell’ignoranza e della superstizione”. Del resto, la polemica contro lo spiritualismo dell’età contemporanea, contro il ritorno di fideismi consolatori, e la rivendicazione della superiorità dell’età precedente, quella settecentesca (che aveva avuto il coraggio di guardare in faccia la verità con la luce della ragione), sono evidenti non solo nella Ginestra:
Qui mira e qui ti specchia, / secol superbo e sciocco, / che il calle insino allora / dal risorto pensier segnato innanti / abbandonasti, e volti addietro i passi, / del ritornar ti vanti, / e procedere il chiami… Così ti spiacque il vero / dell’aspra sorte e del depresso loco / che natura ci diè. Per questo il tergo / vigliaccamente rivolgesti al lume / che il fe’ palese: e, fuggitivo, appelli / vil chi lui segue.. (vv. 52-58, 78-83)
ma in tutta la fase finale della produzione poetica leopardiana (la fase dei canti “fiorentini” e “napoletani”, ovvero della “poesia eroica”, secondo la definizione di Binni), caratterizzata dalla polemica politica e culturale nei confronti dei moderati toscani (i cattolici-liberali) che si riunivano attorno all’Antologia. Si vedano, ad esempio, le ottave iniziali del canto IV dei Paralipomeni, dove è presente la stessa irridente polemica contro i fideismi consolatori che caratterizza la Ginestra:
In quell’età (e intende quella settecentesca), d’un aspra guerra in onta / altra filosofia regnar fu vista, / a cui dinanzi valorosa e pronta / l’età nostra arretrassi appena avvista / di ciò che più le spiace e che più monta, / esser quella in sostanza amara e trista (strofa 16)
27)                      Infine, l’intera Ginestra non è altro che una celebrazione del dovere di non rinunciare a quella conoscenza della verità della condizione umana che la ragione, dalla sua rinascita al Settecento, ha palesato (v. in particolare la seconda strofa). Ma la ragione, scientifica e filosofica, che viene valorizzato non è quella che fonda la moderna società industriale e tecnologica (la cui negatività è denunciata esemplarmente nella Palinodia), bensì quella laica che demistifica l’ideologia del progresso e consente la possibilità di una società, se non “buona” (che non può esistere), almeno meno “cattiva”[11]:
Così fatti pensieri / quando fien, come fur, palesi al volgo, / e quell’orror che primo / contra l’empia natura / strinse i mortali in social catena, / fia ricondotto in parte / da verace saper, l’onesto e il retto / conversar cittadino, / e giustizia e pietade, altra radice / avranno allor che non superbe fole/ (vv. 145-154)
E la stessa ginestra è allo stesso tempo simbolo della poesia (il suo profumo “il deserto consola”) e della ragione (in quanto, più saggia dell’uomo, priva di “fetido orgoglio”, umile ma tenace, conosce e non si nasconde il destino che l’aspetta).




[1] Il riferimento a Rousseau impone dei chiarimenti. Lo stato di natura, per lui, più che una remota realtà storica, è un’ipotesi teorica che serve a delineare un nuovo tipo d’uomo e di società; diventa, non a caso, un’ipotesi propositiva con lEmilio e il contratto sociale. In Leopardi invece lo stato di natura resta sempre allo stato di rimpianto per un tempo irrimediabilmente perduto (malgrado certe indicazioni sulla necessità di educare il corpo, istituire feste pubbliche, premiare i virtuosi), non è più di un modello teorico da contrapporre alla negatività del presente (v. Biral, Il significato di natura). Bisogna inoltre ricordare che le idee di Leopardi sulla società larga (favorevole alla vita umana) e società stretta (sfavorevole) non collimano con quelle di Rousseau, perché mettono in discussione la socialità del’uomo, quindi rifiutano lo stato di natura dei selvaggi (già degenerato dalla società stretta) e rimandano a uno stato di natura ancora precedente, non identificabile storicamente, caratterizzato dalla minore socialità possibile (v. Melchiori in Leopardi e l’età romantica).
[2] Qui bisogna aprire una parentesi sull’idea leopardiana di società antica, perché i riferimenti sono sempre all’età classica, alla poesia omerica, a volte virgiliana, e quindi alle società greca e latina, che hanno un certo grado di civilizzazione, non sono naturali nel senso di selvagge e primitive (tanto è vero che quando L. vuole indicare questo modello, parla dei Californi: v. Inno ai patriarchi e Zib.), ma lo sono, evidentemente, in quanto interpretano (conoscono) la realtà mitologicamente, non scientificamente.
[3] Ma proprio il Bruto minore è, per Timpanaro, un testo che segnala il passaggio al pessimismo cosmico, perché è vero che Bruto si scaglia contro la malignità degli dei e del fato, ma non è difficile riconoscere in queste entità un modo provvisorio (e conforme alla mentalità pagana) di chiamare quella natura contro la cui potenza l’uomo non può opporsi.
[4] Timpanaro ritiene anche che l’idea dell’Inno ad Arimane provenga da una suggestione del Poema di Voltaire dove si parlava di un “nero Tifone, un barbaro Arimane che impongono la legge che ci condanna alla sofferenza”. E quindi così sintetizza: Rousseau è alla base del pessimismo storico, Voltaire di quello cosmico.
[5] Costui indica addirittura la primavera del 19 come punto di svolta, ovvero il periodo di forte crisi, segnato da un indebolimento della vista, cui L. fa riferimento in lettere (a Trissino, 27/9/19; a Giordani, 19/11/19) e in Zib. 144.
[6] E’ un’idea esattamente anti-aristotelica, ben spiegata in una nota del 3/10/23, ma già reperibile nell’abbozzo dell’Inno ai Patriarchi, laddove si dice che “la società è figlia del peccato”, perché fu Caino “vagabondo e ramingo per li rimorsi della coscienza… il primo fondatore della città”.
[7] Per tutto ciò, nelle ottave iniziali del canto IV dei Paralipomeni L. sembra ironizzare anche su se stesso, su questo momento del suo pensiero, quando deride l’idea che ci sia uno stato di natura perfetto da cui l’umanità sarebbe decaduta.
[8] Lo fa notare Angiola Ferrarsi, L’ultimo Leopardi, p.38-39.
[9] Non fa testo la lettera al Bunsen del 3/8/25, perché si tratta di una “lettera insincera” (Timpanaro, p. 283)
[10] In questo sarà anche da vedere una polemica contro il cristianesimo, responsabile della mortificazione del corpo (S. Paolo: castigo corpus meum et in servitutem redigo), e quindi della decadenza (Io riguardo l’indebolimento corporale delle generazioni umane, come l’una delle principali cause del gran mangiamento del mondo e dell’animo e cuore umano dall’antico al moderno, p. 163, 11/7/20)
[11] E’ l’espressione usata nella lettera al Giordani del 29/7/28: “Io tengo (e non a caso) che la società umana abbia principi ingeniti e necessari d’imperfezione, e che i suoi stati sieno cattivi più o meno, ma nessuno possa essere buono.”

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