MANZONI (testi)


Dal Carme in morte di Carlo Imbonati  (vv. 168-215)
Sorrise alquanto, e rispondea: « Qualunque
Di chiaro esempio, o di veraci carte
Giovasse altrui, fu da me sempre avuto
In onor sommo. E venerando il nome
Fummi di lui, che ne le reggie primo
l'orma stampò de l'italo coturno:
E l'aureo manto lacerato ai grandi,
Mostrò lor piaghe, e vendicò gli umili;
E di quel, che sul plettro immacolato
Cantò per me: Torna a fiorir la rosa.
Cui, di maestro a me poi fatto amico,
Con reverente affetto ammirai sempre
Scola e palestra di virtù. Ma sdegno
Mi fero i mille, che tu vedi un tanto
Nome usurparsi, e portar seco in Pindo
L'immondizia del trivio e l'arroganza
E i vizj lor; che di perduta fama
Vedi, e di morto ingegno, un vergognoso
Far di lodi mercato e di strapazzi.
Stolti! Non ombra di possente amico,
lodator comprati avea quel sommo
D'occhi cieco, e divin raggio di mente,
Che per la Grecia mendicò cantando.
Solo d'Ascra venian le fide amiche
Esulando con esso, e la mal certa
Con le destre vocali orma reggendo:
Cui poi, tolto a la terra, Argo ad Atene,
E Rodi a Smirna cittadin contende:
E patria ei non conosce altra che il cielo.
Ma voi, gran tempo ai mal lordati fogli
Sopravissuti, oscura e disonesta
Canizie attende. » E tacque; e scosso il capo,
E sporto il labbro, amaramente il torse,
Com'uom cui cosa appare ond'egli ha schifo.
Gioja il suo dir mi porse, e non ignota
Bile destommi; e replicai: « Deh! vogli
La via segnarmi, onde toccar la cima
Io possa, o far che, s'io cadrò su l'erta,
Dicasi almen: su l'orma propria ei giace. »
« Sentir », riprese, « e meditar: di poco
Esser contento: da la meta mai
Non torcer gli occhi: conservar la mano
Pura e la mente: de le umane cose
Tanto sperimentar, quanto ti basti
Per non curarle: non ti far mai servo:
Non far tregua coi vili: il santo Vero
Mai non tradir: né proferir mai verbo,
Che plauda al vizio, o la virtù derida. »


 

MARZO 1821
 
Ode
all'illustre memoria
di
Teodoro Koerner
poeta e soldato
della indipendenza germanica
morto sul campo di Lipsia
il giorno XVIII d'ottobre MDCCCXIII
nome caro a tutti i popoli
che combattono per difendere
o per riconquistare
una patria
 
         1         Soffermati sull'arida sponda,
         2   volti i guardi al varcato Ticino,
         3   tutti assorti nel novo destino,
         4   certi in cor dell'antica virtù
         5   han giurato: non fia che quest'onda
         6   scorra più tra due rive straniere:
         7   non fia loco ove sorgan barriere
         8   tra l'Italia e l'Italia, mai più!
         9        L'han giurato: altri forti a quel giuro
        10   rispondean da fraterne contrade,
        11   affilando nell'ombra le spade
        12   che or levate scintillano al sol.
        13   Già le destre hanno strette le destre;
        14   già le sacre parole son porte:
        15   o compagni sul letto di morte,
        16   o fratelli su libero suol.
        17        Chi potrà della gemina Dora,
        18   della Bormida al Tanaro sposa,
        19   del Ticino e dell'Orba selvosa
        20   scerner l'onde confuse nel Po;
        21   chi stornargli del rapido Mella
        21   e dell'Oglio le miste correnti,
        23   chi ritogliergli i mille torrenti
        24   che la foce dell'Adda versò,
        25        quello ancora una gente risorta
        26   potrà scindere in volghi spregiati,
        27   e a ritroso degli anni e dei fati,
        28   risospingerla ai prischi dolor:
        29   una gente che libera tutta,
        30   o fia serva tra l'Alpe ed il mare;
        31   una d'arme, di lingua, d'altare,
        32   di memorie, di sangue e di cor.
        33        Con quel volto sfidato e dimesso,
        34   con quel guardo atterrato ed incerto,
        35   con che stassi un mendico sofferto
        36   per mercede nel suolo stranier,
        37   star doveva in sua terra il Lombardo;
        38   l'altrui voglia era legge per lui;
        39   il suo fato, un segreto d'altrui;
        40   la sua parte, servire e tacer.
        41        O stranieri, nel proprio retaggio
        42   torna Italia, e il suo suolo riprende;
        43   o stranieri, strappate le tende
        44   da una terra che madre non v'è.
        45   Non vedete che tutta si scote,
        46   dal Cenisio alla balza di Scilla?
        47   non sentite che infida vacilla
        48   sotto il peso de' barbari piè?
        49        O stranieri! sui vostri stendardi
        50  sta l'obbrobrio d'un giuro tradito;
        51   un giudizio da voi proferito
        52   v'accompagna all'iniqua tenzon
        53   voi che a stormo gridaste in quei giorni:
        54   Dio rigetta la forza straniera;
        55   ogni gente sia libera, e pera
        56   della spada l'iniqua ragion.
        57        Se la terra ove oppressi gemeste
        58   preme i corpi de' vostri oppressori,
        59   se la faccia d'estranei signori
        60   tanto amara vi parve in quei dì;
        61   chi v'ha detto che sterile, eterno
        62   saria il lutto dell'itale genti?
        63   chi v'ha detto che ai nostri lamenti
        64   saria sordo quel Dio che v'udì?
        65        sì, quel Dio che nell'onda vermiglia
        66   chiuse il rio che inseguiva Israele,
        67   quel che in pugno alla maschia Giaele
        68   pose il maglio, ed il colpo guidò;
        69   quel che è Padre di tutte le genti,
        70   che non disse al Germano giammai:
        71   va, raccogli ove arato non hai;
        72   spiega l'ugne; l'Italia ti do.
        73        Cara Italia! dovunque il dolente
        74   grido uscì del tuo lungo servaggio;
        75   dove ancor dell'umano lignaggio,
        76   ogni speme deserta non è
        77   dove già libertade è fiorita,
        78   dove ancor nel segreto matura,
        79   dove ha lacrime un'alta sventura
        80   non c'è cor che non batta per te.
        81        Quante volte sull'Alpe spiasti
        82   l'apparir d'un amico stendardo!
        83   quante volte intendesti lo sguardo
        84   ne' deserti del duplice mar!
        85   ecco alfin dal tuo seno sboccati,
        86   stretti intorno a' tuoi santi colori,
        87   forti, armati de' propri dolori,
        88   i tuoi figli son sorti a pugnar.
        89        Oggi, o forti, sui volti baleni
        90   il furor delle menti segrete:
        91   per l'Italia si pugna, vincete!
        92   il suo fato sui brandi vi sta.
        93   O risorta per voi la vedremo
        94   al convito de' popoli assisa,
        95   o più serva, più vil, più derisa,
        96   sotto l'orrida verga starà.
        97        Oh giornate del nostro riscatto!
        98   oh dolente per sempre colui
        99   che da lunge, dal labbro d'altrui,
       100   come un uomo straniero, le udrà!
       101   che a' suoi figli narrandole un giorno,
       102   dovrà dir sospirando: io non c'era;
       103   che la santa vittrice bandiera
       104   salutata quel dì non avrà.
 
 
dall'Adelchi: l'amore "tremendo" di Ermengarda
 
Atto IV, Scena I (vv. 47-162)
 
(la scena si svolge nel giardino del monastero di San Salvatore in Brescia; Ermengarda, che si sente prossima alla morte, dialoga con la sorella Ansberga, badessa del convento)
 
 
        47   ERM.\ - .... Or tu raccogli
        48   La mia mente suprema. Al padre, Ansberga,
        49   Ed al fratel, quando li veggia - oh questa
        50   Gioia negata non vi sia! - dirai
        51   Che all'orlo estremo della vita, al punto
        52   In cui tutto s'obblìa, grata e soave
        53   Serbai memoria di quel dì, dell'atto
        54   Cortese, allor che a me tremante, incerta
        55   Steser le braccia risolute e pie,
        56   Né una reietta vergognar; dirai
        57   Che al trono del Signor, caldo incessante
        58   Per la vittoria lor stette il mio prego;
        59   E s'Ei non l'ode, alto consiglio è certo
        60   Di pietà più profonda; e ch'io morendo
        61   Gli ho benedetti - Indi, sorella... oh! questo
        62   Non mi negar! ... trova un Fedel che possa,
        63   Quando che sia, dovunque, a quel feroce
        64   Di mia gente nemico approssimarsi...
        65   \ANSB.\ Carlo! \ERM.\ Tu l'hai nomato: e sì gli dica:
        66   Senza rancor passa Ermengarda: oggetto
        67   D'odio in terra non lascia, e di quel tanto
        68   Ch'ella sofferse, Iddio scongiura, e spera
        69   Ch'egli a nessun conto ne chiegga, poi
        70   Che dalle mani sue tutto ella prese.
        71   Questo gli dica, e... se all'orecchio altero
        72   Troppa acerba non giunge esta parola...
        73   Ch'io gli perdono. - Lo farai? \ANSB.\ Le estreme
        74   Parole mie riceva il ciel, siccome
        75   Queste tue mi son sacre. \ERM.\ Amata! e d'una
        76   Cosa ti prego ancor: della mia spoglia,
        77   Cui, mentre un soffio l'animò, sì larga
        78   Fosti di cure, non ti sia ribrezzo
        79   Prender l'estrema; e la componi in pace.
        80   Questo anel, che tu vedi alla mia manca,
        81   Scenda seco nell'urna: ei mi fu dato
        82   Presso all'altar, dinanzi a Dio. Modesta
        83   Sia l'urna mia. - Tutti siam polve; ed io
        84   Di che mi posso gloriar? - Ma porti
        85   Di regina le insegne: un sacro nodo
        86   Mi fe' regina: il don di Dio, nessuno
        87   Rapir lo puote, il sai: come la vita,
        88   Dee la morte attestarlo. \ANSB.\ Oh! da te lunge
        89   Queste memorie dolorose! - Adempi
        90   Il sagrifizio; odi: di questo asilo,
        91   Ove ti addusse pellegrina Iddio,
        92   Cittadina divieni; e sia la casa
        93   Del tuo riposo tua. La sacra spoglia
        94   Vesti, e lo spirto seco, e d'ogni umana
        95   Cosa l'obblìo. \ERM.\ Che mi proponi, Ansberga?
        96   Ch'io mentisca al Signor! Pensa ch'io vado
        97   Sposa dinanzi a lui; sposa illibata,
        98   Ma d'un mortal. - Felici voi! felice
        99   Qualunque, sgombro di memorie il core
       100   Al Re dei regi offerse, e il santo velo
       101   Sovra gli occhi posò, pria di fissarli
       102   In fronte all'uom! Ma - d'altri io sono. \ANSB.\ Oh mai
       103   Stata nol fossi! \ERM.\ Oh mai! ma quella via,
       104   Su cui ci pose il ciel, correrla intera
       105   Convien, qual ch'ella sia, fino all'estremo.
       106   - E, se all'annunzio di mia morte, un novo
       107   Pensier di pentimento e di pietade
       108   Assalisse quel cor? Se, per ammenda
       109   Tarda, ma dolce ancor, la fredda spoglia
       110   Ei richiedesse come sua, dovuta
       111   Alla tomba real? - Gli estinti, Ansberga,
       112   Talor dei vivi son più forti assai.
       113   \ANSB.\ Oh! nol farà. \ERM.\ Tu pia, tu poni un freno
       114   Ingiurioso alla bontà di Lui,
       115   Che tocca i cor, che gode, in sua mercede,
       116   Far che ripari, chi lo fece, il torto?
       117   \ANSB.\ No, sventurata, ei nol farà. - Nol puote.
       118   \ERM.\ Come? perché nol puote? \ANSB.\ O mia diletta
       119   Non chieder oltre; obblia. \ERM.\ Parla! alla tomba
       120   Con questo dubbio non mandarmi. \ANSB.\ Oh! l'empio
       121   Il suo delitto consumò. \ERM.\ Prosegui!
       122   \ANSB.\ Caccialo al tutto dal tuo cor. Di nuove
       123   Inique nozze ei si fe' reo: su gli occhi
       124   Degli uomini e di Dio, l'inverecondo,
       125   Come in trionfo, nel suo campo ei tragge
       126   Questa Ildegarde sua... Tu impallidisci!
       127   Ermengarda! non m'odi? Oh ciel! Sorelle,
       128   Accorrete! oh che feci! Oh! chi soccorso
       129   Le ? Vedete: il suo dolor l'uccide.
       130   \PR.SUORA\ Fa core; ella respira. \SEC.SUORA\ O sventurata!
       131   A questa età, nata in tal loco, e tanto
       132   Soffrir! \DONZELLA\ Dolce mia donna! \PR.SUORA\ Ecco le luci
       133   Apre. \ANSB.\ Oh che sguardo! Ciel! che fia? \ERM.\ Cacciate
       134   Quella donna, o scudieri! Oh! non vedete
       135   Come s'avanza ardimentosa, e tenta
       136   Prender la mano al re? \ANSB.\ Svegliati! Oh Dio
       137   Non dir così; ritorna in te; rispingi
       138   Questi fantasmi; il nome santo invoca.
       139   \ERM.\ Carlo! non lo soffrir: lancia a costei
       140   Quel tuo sguardo severo. Oh! tosto in fuga
       141   Andranne: io stessa, io sposa tua, non rea
       142   Pur d'un pensiero, intraveder nol posso
       143   Senza tutta turbarmi - Oh ciel! che veggio?
       144   Tu le sorridi? Ah no! cessa il crudele
       145   Scherzo; ei mi strazia, io nol sostengo - O Carlo,
       146   Farmi morire di dolor, tu il puoi;
       147   Ma che gloria ti fia? Tu stesso un giorno
       148   Dolor ne avresti. - Amor tremendo è il mio.
       149   Tu nol conosci ancora; oh! tutto ancora
       150   Non tel mostrai: tu eri mio; secura
       151   Nel mio gaudio io tacea; né tutta mai
       152   Questo labbro pudico osato avria
       153   Dirti l'ebrezza del mio cor segreto.
       154   - Scacciala per pietà! Vedi; io la temo,
       155   Come una serpe: il guardo suo m'uccide.
       156   - Sola e debol son io: non sei tu il mio
       157   Unico amico? Se fui tua, se alcuna
       158   Di me dolcezza avesti... oh! non forzarmi
       159   A supplicar così dinanzi a questa
       160   Turba che mi deride... Oh cielo! ei fugge!
       161   Nelle sue braccia... io muoio! ...
 
 
Atto V, scena 8 (vv. 17-43)

 
ADELCHI:  Cessa i lamenti,
18 Cessa, o padre, per Dio! Non era questo
19 Il tempo di morir? Ma tu, che preso
20 Vivrai, vissuto nella reggia, ascolta.
21 Gran segreto è la vita; e nol comprende
22 Che l'ora estrema. Ti fu tolto un regno:
23 Deh! nol pianger; me 'l credi. Allor che a questa
24 Ora tu stesso appresserai, giocondi
25 Si schiereranno al tuo pensier dinanzi
26 Gli anni in cui re non sarai stato, in cui
27 Né una lagrima pur notata in cielo
28 Fia contra te, né il nome tuo saravvi
29 Con l'imprecar dei tribolati asceso.
30 Godi che re non sei; godi che chiusa
31 All'oprar t'è ogni via: loco a gentile,
32 Ad innocente opra non v'è: non resta
33 Che far torto, o patirlo. Una feroce
34 Forza il mondo possiede e fa nomarsi
35 Dritto: la man degli avi insanguinata
36 Seminò l'ingiustizia; i padri l'hanno
37 Coltivata col sangue; e omai la terra
38 Altra messe non dà. Reggere iniqui
39 Dolce non è; tu l'hai provato: e fosse;
40 Non dee finir così? Questo felice
41 Cui la mia morte fa più fermo il soglio,
42 Cui tutto arride, tutto plaude e serve,
43 Questi è un uom che morrà.
  
  dai Promessi sposi     
Cap. IV
 
Fra Cristoforo al palazzotto di don Rodrigo: l’elenco dei commensali come rappresentazione della collusione dei poteri
 
L’uomo onesto in faccia al malvagio, piace generalmente (non dico a tutti) immaginarselo con la fronte alta, con lo sguardo sicuro, col petto rilevato, con lo scilinguagnolo bene sciolto. Nel fatto però, per fargli prender quell’attitudine, si richiedon molte circostanze, le quali ben di rado si riscontrano insieme. Perciò, non vi maravigliate se fra Cristoforo, col buon testimonio della sua coscienza, col sentimento fermissimo della giustizia della causa che veniva a sostenere, con un sentimento misto d’orrore e di compassione per don Rodrigo, stesse con una cert’aria di suggezione e di rispetto, alla presenza di quello stesso don Rodrigo, ch’era lì in capo di tavola, in casa sua, nel suo regno, circondato d’amici, d’omaggi, di tanti segni della sua potenza, con un viso da far morire in bocca a chi si sia una preghiera, non che un consiglio, non che una correzione, non che un rimprovero. Alla sua destra sedeva quel conte Attilio suo cugino, e, se fa bisogno di dirlo, suo collega di libertinaggio e di soverchieria, il quale era venuto da Milano a villeggiare, per alcuni giorni, con lui. A sinistra, e a un altro lato della tavola, stava, con gran rispetto, temperato però d’una certa sicurezza, e d’una certa saccenteria, il signor podestà, quel medesimo a cui, in teoria, sarebbe toccato a far giustizia a Renzo Tramaglino, e a fare star a dovere don Rodrigo, come s’è visto di sopra. In faccia al podestà, in atto d’un rispetto il più puro, il più sviscerato, sedeva il nostro dottor Azzecca-garbugli, in cappa nera, e col naso più rubicondo del solito: in faccia ai due cugini, due convitati oscuri, de’ quali la nostra storia dice soltanto che non facevano altro che mangiare, chinare il capo, sorridere e approvare ogni cosa che dicesse un commensale, e a cui un altro non contraddicesse.   


Cap. XIX
 
Il conte zio (è zio di don Rodrigo e del conte Attilio, ed è un autorevole uomo politico che risiede a Milano) incontra il padre provinciale (è il padre superiore di tutti i cappuccini) per convincerlo a spostare fra Cristoforo da Pescarenico.
 
(…) Ora, tra il padre provinciale e il conte zio passava un’antica conoscenza: s’eran veduti di rado, ma sempre con gran dimostrazioni d’amicizia, e con esibizioni sperticate di servizi. E alle volte, è meglio aver che fare con uno che sia sopra a molti individui, che con un solo di questi, il quale non vede che la sua causa, non sente che la sua passione, non cura che il suo punto; mentre l’altro vede in un tratto cento relazioni, cento conseguenze, cento interessi, cento cose da scansare, cento cose da salvare; e si può quindi prendere da cento parti.
Tutto ben ponderato, il conte zio invitò un giorno a pranzo il padre provinciale, e gli fece trovare una corona di commensali assortiti con un intendimento sopraffino. Qualche parente de’ più titolati, di quelli il cui solo casato era un gran titolo; e che, col solo contegno, con una certa sicurezza nativa, con una sprezzatura signorile, parlando di cose grandi con termini famigliari, riuscivano, anche senza farlo apposta, a imprimere e rinfrescare, ogni momento, l’idea della superiorità e della potenza; e alcuni clienti legati alla casa per una dipendenza ereditaria, e al personaggio per una servitù di tutta la vita; i quali, cominciando dalla minestra a dir di sì, con la bocca, con gli occhi, con gli orecchi, con tutta la testa, con tutto il corpo, con tutta l’anima, alle frutte v’avevan ridotto un uomo a non ricordarsi più come si facesse a dir di no.
A tavola, il conte padrone fece cader ben presto il discorso sul tema di Madrid. A Roma si va per più strade; a Madrid egli andava per tutte. Parlò della corte, del conte duca, de’ ministri, della famiglia del governatore; delle cacce del toro, che lui poteva descriver benissimo, perché le aveva godute da un posto distinto; dell’Escuriale di cui poteva render conto a un puntino, perché un creato del conte duca l’aveva condotto per tutti i buchi. Per qualche tempo, tutta la compagnia stette, come un uditorio, attenta a lui solo, poi si divise in colloqui particolari; e lui allora continuò a raccontare altre di quelle belle cose, come in confidenza, al padre provinciale che gli era accanto, e che lo lasciò dire, dire e dire. Ma a un certo punto, diede una giratina al discorso, lo staccò da Madrid, e di corte in corte, di dignità in dignità, lo tirò sul cardinal Barberini, ch’era cappuccino, e fratello del papa allora sedente, Urbano VIII: niente meno. Il conte zio dovette anche lui lasciar parlare un poco, e stare a sentire, e ricordarsi che finalmente, in questo mondo, non c’era soltanto i personaggi che facevan per lui. Poco dopo alzati da tavola, pregò il padre provinciale di passar con lui in un’altra stanza.
Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte. Il magnifico signore fece sedere il padre molto reverendo, sedette anche lui, e cominciò: - stante l’amicizia che passa tra di noi, ho creduto di far parola a vostra paternità d’un affare di comune interesse, da concluder tra di noi, senz’andar per altre strade, che potrebbero... E perciò, alla buona, col cuore in mano, le dirò di che si tratta; e in due parole son certo che anderemo d’accordo. Mi dica: nel loro convento di Pescarenico c’è un padre Cristoforo da ***?
Il provinciale fece cenno di sì.
- Mi dica un poco vostra paternità, schiettamente, da buon amico... questo soggetto... questo padre... Di persona io non lo conosco; e sì che de’ padri cappuccini ne conosco parecchi: uomini d’oro, zelanti, prudenti, umili: sono stato amico dell’ordine fin da ragazzo... Ma in tutte le famiglie un po’ numerose... c’è sempre qualche individuo, qualche testa... E questo padre Cristoforo, so da certi ragguagli che è un uomo... un po’ amico de’ contrasti... che non ha tutta quella prudenza, tutti que’ riguardi... Scommetterei che ha dovuto dar più d’una volta da pensare a vostra paternità.
" Ho inteso: è un impegno, - pensava intanto il provinciale: - colpa mia; lo sapevo che quel benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in pulpito, e non lasciarlo fermare mesi in un luogo, specialmente in conventi di campagna ".
- Oh! - disse poi: - mi dispiace davvero di sentire che vostra magnificenza abbia in un tal concetto il padre Cristoforo; mentre, per quanto ne so io, è un religioso... esemplare in convento, e tenuto in molta stima anche di fuori.
- Intendo benissimo; vostra paternità deve... Però, però, da amico sincero, voglio avvertirla d’una cosa che le sarà utile di sapere; e se anche ne fosse già informata, posso, senza mancare ai miei doveri, metterle sott’occhio certe conseguenze... possibili: non dico di più. Questo padre Cristoforo, sappiamo che proteggeva un uomo di quelle parti, un uomo... vostra paternità n’avrà sentito parlare; quello che, con tanto scandolo, scappò dalle mani della giustizia, dopo aver fatto, in quella terribile giornata di san Martino, cose... cose... Lorenzo Tramaglino!
" Ahi! " pensò il provinciale; e disse: - questa circostanza mi riesce nuova; ma vostra magnificenza sa bene che una parte del nostro ufizio è appunto d’andare in cerca de’ traviati, per ridurli...
- Va bene; ma la protezione de’ traviati d’una certa specie...! Son cose spinose, affari delicati... - E qui, in vece di gonfiar le gote e di soffiare, strinse le labbra, e tirò dentro tant’aria quanta ne soleva mandar fuori, soffiando. E riprese: - ho creduto bene di darle un cenno su questa circostanza, perche se mai sua eccellenza... Potrebbe esser fatto qualche passo a Roma... non so niente... e da Roma venirle...
- Son ben tenuto a vostra magnificenza di codesto avviso; però son certo che, se si prenderanno informazioni su questo proposito, si troverà che il padre Cristoforo non avrà avuto che fare con l’uomo che lei dice, se non a fine di mettergli il cervello a partito. Il padre Cristoforo, lo conosco.
- Già lei sa meglio di me che soggetto fosse al secolo, le cosette che ha fatte in gioventù.
- È la gloria dell’abito questa, signor conte, che un uomo, il quale al secolo ha potuto far dir di sé, con questo indosso, diventi un altro. E da che il padre Cristoforo porta quest’abito...
- Vorrei crederlo: lo dico di cuore: vorrei crederlo; ma alle volte, come dice il proverbio... l’abito non fa il monaco.
Il proverbio non veniva in taglio esattamente; ma il conte l’aveva sostituito in fretta a un altro che gli era venuto sulla punta della lingua: il lupo cambia il pelo, ma non il vizio.
- Ho de’ riscontri, - continuava, - ho de’ contrassegni...
- Se lei sa positivamente, - disse il provinciale, - che questo religioso abbia commesso qualche errore (tutti si può mancare), avrò per un vero favore l’esserne informato. Son superiore: indegnamente; ma lo sono appunto per correggere, per rimediare.
- Le dirò: insieme con questa circostanza dispiacevole della protezione aperta di questo padre per chi le ho detto, c’è un’altra cosa disgustosa, e che potrebbe... Ma, tra di noi, accomoderemo tutto in una volta. C’è, dico, che lo stesso padre Cristoforo ha preso a cozzare con mio nipote, don Rodrigo ***.
- Oh! questo mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace davvero.
- Mio nipote è giovine, vivo, si sente quello che è, non è avvezzo a esser provocato...
- Sarà mio dovere di prender buone informazioni d’un fatto simile. Come ho già detto a vostra magnificenza, e parlo con un signore che non ha meno giustizia che pratica di mondo, tutti siamo di carne, soggetti a sbagliare... tanto da una parte, quanto dall’altra: e se il padre Cristoforo avrà mancato...
- Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo... si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest'urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti... A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent'altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire. Mio nipote è giovine; il religioso, da quel che sento, ha ancora tutto lo spirito, le... inclinazioni d’un giovine: e tocca a noi, che abbiamo i nostri anni... pur troppo eh, padre molto reverendo?...
Chi fosse stato lì a vedere, in quel punto, fu come quando, nel mezzo d’un’opera seria, s’alza, per isbaglio, uno scenario, prima del tempo, e si vede un cantante che, non pensando, in quel momento, che ci sia un pubblico al mondo, discorre alla buona con un suo compagno. Il viso, l’atto, la voce del conte zio, nel dir quel pur troppo!, tutto fu naturale: lì non c’era politica: era proprio vero che gli dava noia d’avere i suoi anni. Non già che piangesse i passatempi, il brio, l’avvenenza della gioventù: frivolezze, sciocchezze, miserie! La cagion del suo dispiacere era ben più soda e importante: era che sperava un certo posto più alto, quando fosse vacato; e temeva di non arrivare a tempo. Ottenuto che l’avesse, si poteva esser certi che non si sarebbe più curato degli anni, non avrebbe desiderato altro, e sarebbe morto contento, come tutti quelli che desideran molto una cosa, assicurano di voler fare, quando siano arrivati a ottenerla.
Ma per lasciarlo parlar lui, - tocca a noi, - continuò, - a aver giudizio per i giovani, e a rassettar le loro malefatte. Per buona sorte, siamo ancora a tempo; la cosa non ha fatto chiasso; è ancora il caso d’un buon principiis obsta. Allontanare il fuoco dalla paglia. Alle volte un soggetto che, in un luogo, non fa bene, o che può esser causa di qualche inconveniente, riesce a maraviglia in un altro. Vostra paternità saprà ben trovare la nicchia conveniente a questo religioso. C’è giusto anche l’altra circostanza, che possa esser caduto in sospetto di chi... potrebbe desiderare che fosse rimosso: e, collocandolo in qualche posto un po’ lontanetto, facciamo un viaggio e due servizi; tutto s’accomoda da sé, o per dir meglio, non c’è nulla di guasto.
Questa conclusione, il padre provinciale se l’aspettava fino dal principio del discorso. " Eh già! - pensava tra sé: - vedo dove vuoi andar a parare: delle solite; quando un povero frate è preso a noia da voi altri, o da uno di voi altri, o vi dà ombra, subito, senza cercar se abbia torto o ragione, il superiore deve farlo sgomberare ".
E quando il conte ebbe finito, e messo un lungo soffio, che equivaleva a un punto fermo, - intendo benissimo, - disse il provinciale, - quel che il signor conte vuol dire; ma prima di fare un passo...
È un passo e non è un passo, padre molto reverendo: è una cosa naturale, una cosa ordinaria; e se non si prende questo ripiego, e subito, prevedo un monte di disordini, un’iliade di guai. Uno sproposito... mio nipote non crederei... ci son io, per questo... Ma, al punto a cui la cosa è arrivata, se non la tronchiamo noi, senza perder tempo, con un colpo netto, non è possibile che si fermi, che resti segreta... e allora non è più solamente mio nipote... Si stuzzica un vespaio, padre molto reverendo. Lei vede; siamo una casa, abbiamo attinenze...
- Cospicue.
- Lei m’intende: tutta gente che ha sangue nelle vene, e che, a questo mondo... è qualche cosa. C’entra il puntiglio; diviene un affare comune; e allora... anche chi è amico della pace... Sarebbe un vero crepacuore per me, di dovere... di trovarmi... io che ho sempre avuta tanta propensione per i padri cappuccini...! Loro padri, per far del bene, come fanno con tanta edificazione del pubblico, hanno bisogno di pace, di non aver contese, di stare in buona armonia con chi... E poi, hanno de’ parenti al secolo... e questi affaracci di puntiglio, per poco che vadano in lungo, s’estendono, si ramificano, tiran dentro... mezzo mondo. Io mi trovo in questa benedetta carica, che m’obbliga a sostenere un certo decoro... Sua eccellenza... i miei signori colleghi... tutto diviene affar di corpo... tanto più con quell’altra circostanza... Lei sa come vanno queste cose.
- Veramente, - disse il padre provinciale, - il padre Cristoforo è predicatore; e avevo già qualche pensiero... Mi si richiede appunto... Ma in questo momento, in tali circostanze, potrebbe parere una punizione; e una punizione prima d’aver ben messo in chiaro...
- No punizione, no: un provvedimento prudenziale, un ripiego di comune convenienza, per impedire i sinistri che potrebbero... mi sono spiegato.
- Tra il signor conte e me, la cosa rimane in questi termini; intendo. Ma, stando il fatto come fu riferito a vostra magnificenza, è impossibile, mi pare, che nel paese non sia traspirato qualcosa. Per tutto c’è degli aizzatori, de’ mettimale, o almeno de’ curiosi maligni che, se posson vedere alle prese signori e religiosi, ci hanno un gusto matto; e fiutano, interpretano, ciarlano... Ognuno ha il suo decoro da conservare; e io poi, come superiore (indegno), ho un dovere espresso... L’onor dell’abito... non è cosa mia... è un deposito del quale... Il suo signor nipote, giacché è così alterato, come dice vostra magnificenza, potrebbe prender la cosa come una soddisfazione data a lui, e... non dico vantarsene, trionfarne, ma...
- Le pare, padre molto reverendo? Mio nipote è un cavaliere che nel mondo è considerato... secondo il suo grado e il dovere: ma davanti a me è un ragazzo; e non farà né più né meno di quello che gli prescriverò io. Le dirò di più: mio nipote non ne saprà nulla. Che bisogno abbiamo noi di render conto? Son cose che facciamo tra di noi, da buoni amici; e tra di noi hanno da rimanere. Non si dia pensiero di ciò. Devo essere avvezzo a non parlare -. E soffiò. - In quanto ai cicaloni, - riprese, - che vuol che dicano? Un religioso che vada a predicare in un altro paese, è cosa così ordinaria! E poi, noi che vediamo... noi che prevediamo... noi che ci tocca... non dobbiamo poi curarci delle ciarle.
- Però, affine di prevenirle, sarebbe bene che, in quest’occasione, il suo signor nipote facesse qualche dimostrazione, desse qualche segno palese d’amicizia, di riguardo... non per noi, ma per l’abito...
- Sicuro, sicuro; quest’è giusto... Però non c’è bisogno: so che i cappuccini son sempre accolti come si deve da mio nipote. Lo fa per inclinazione: è un genio in famiglia: e poi sa di far cosa grata a me. Del resto, in questo caso... qualcosa di straordinario... è troppo giusto. Lasci fare a me, padre molto reverendo; che comanderò a mio nipote... Cioè bisognerà insinuargli con prudenza, affinché non s’avveda di quel che è passato tra di noi. Perché non vorrei alle volte che mettessimo un impiastro dove non c’è ferita. E per quel che abbiamo concluso, quanto più presto sarà, meglio. E se si trovasse qualche nicchia un po’ lontana... per levar proprio ogni occasione...
- Mi vien chiesto per l’appunto un predicatore da Rimini; e fors’anche, senz’altro motivo, avrei potuto metter gli occhi...
- Molto a proposito, molto a proposito. E quando...?
- Giacché la cosa si deve fare, si farà presto.
- Presto, presto, padre molto reverendo: meglio oggi che domani. E, - continuava poi, alzandosi da sedere, - se posso qualche cosa, tanto io, come la mia famiglia, per i nostri buoni padri cappuccini...
- Conosciamo per prova la bontà della casa, - disse il padre provinciale, alzatosi anche lui, e avviandosi verso l’uscio, dietro al suo vincitore.
- Abbiamo spento una favilla, - disse questo, soffermandosi, - una favilla, padre molto reverendo, che poteva destare un grand’incendio. Tra buoni amici, con due parole s’accomodano di gran cose.
Arrivato all’uscio, lo spalancò, e volle assolutamente che il padre provinciale andasse avanti: entrarono nell’altra stanza, e si riunirono al resto della compagnia.
Un grande studio, una grand’arte, di gran parole, metteva quel signore nel maneggio d’un affare; ma produceva poi anche effetti corrispondenti. Infatti, col colloquio che abbiam riferito, riuscì a far andar fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini, che è una bella passeggiata.

 
                
                  Cap. XXXVIII
 
La conclusione del romanzo: il finale poco “lieto” e il “sugo” della storia.
 
(…) Chi domandasse se non ci fu anche del dolore in distaccarsi dal paese nativo, da quelle montagne; ce ne fu sicuro: ché del dolore, ce n’è, sto per dire, un po’ per tutto. Bisogna però che non fosse molto forte, giacché avrebbero potuto risparmiarselo, stando a casa loro, ora che i due grand’inciampi, don Rodrigo e il bando, eran levati. Ma, già da qualche tempo, erano avvezzi tutt’e tre a riguardar come loro il paese dove andavano. Renzo l’aveva fatto entrare in grazia alle donne, raccontando l’agevolezze che ci trovavano gli operai, e cento cose della bella vita che si faceva là. Del resto, avevan tutti passato de’ momenti ben amari in quello a cui voltavan le spalle; e le memorie triste, alla lunga guastan sempre nella mente i luoghi che le richiamano. E se que’ luoghi son quelli dove siam nati, c’è forse in tali memorie qualcosa di più aspro e pungente. Anche il bambino, dice il manoscritto, riposa volentieri sul seno della balia, cerca con avidità e con fiducia la poppa che l’ha dolcemente alimentato fino allora; ma se la balia, per divezzarlo, la bagna d’assenzio, il bambino ritira la bocca, poi torna a provare, ma finalmente se ne stacca; piangendo sì, ma se ne stacca.
Cosa direte ora, sentendo che, appena arrivati e accomodati nel nuovo paese, Renzo ci trovò de’ disgusti bell’e preparati? Miserie; ma ci vuol così poco a disturbare uno stato felice! Ecco, in poche parole, la cosa.
Il parlare che, in quel paese, s’era fatto di Lucia, molto tempo prima che la ci arrivasse; il saper che Renzo aveva avuto a patir tanto per lei, e sempre fermo, sempre fedele; forse qualche parola di qualche amico parziale per lui e per tutte le cose sue, avevan fatto nascere una certa curiosità di veder la giovine, e una certa aspettativa della sua bellezza. Ora sapete come è l’aspettativa: immaginosa, credula, sicura; alla prova poi, difficile, schizzinosa: non trova mai tanto che le basti, perché, in sostanza, non sapeva quello che si volesse; e fa scontare senza pietà il dolce che aveva dato senza ragione. Quando comparve questa Lucia, molti i quali credevan forse che dovesse avere i capelli proprio d’oro, e le gote proprio di rosa, e due occhi l’uno più bello dell’altro, e che so io? cominciarono a alzar le spalle, ad arricciar il naso, e a dire: - eh! l’è questa? Dopo tanto tempo, dopo tanti discorsi, s’aspettava qualcosa di meglio. Cos’è poi? Una contadina come tant’altre. Eh! di queste e delle meglio, ce n’è per tutto -. Venendo poi a esaminarla in particolare, notavan chi un difetto, chi un altro: e ci furon fin di quelli che la trovavan brutta affatto.
Siccome però nessuno le andava a dir sul viso a Renzo, queste cose; così non c’era gran male fin lì. Chi lo fece il male, furon certi tali che gliele rapportarono: e Renzo, che volete? ne fu tocco sul vivo. Cominciò a ruminarci sopra, a farne di gran lamenti, e con chi gliene parlava, e più a lungo tra sé. " E cosa v’importa a voi altri? E chi v’ha detto d’aspettare? Son mai venuto io a parlarvene? a dirvi che la fosse bella? E quando me lo dicevate voi altri, v’ho mai risposto altro, se non che era una buona giovine? È una contadina! V’ho detto mai che v’avrei menato qui una principessa? Non vi piace? Non la guardate. N’avete delle belle donne: guardate quelle ".
E vedete un poco come alle volte una corbelleria basta a decidere dello stato d’un uomo per tutta la vita. Se Renzo avesse dovuto passar la sua in quel paese, secondo il suo primo disegno, sarebbe stata una vita poco allegra. A forza d’esser disgustato, era ormai diventato disgustoso. Era sgarbato con tutti, perché ognuno poteva essere uno de’ critici di Lucia. Non già che trattasse proprio contro il galateo; ma sapete quante belle cose si posson fare senza offender le regole della buona creanza: fino sbudellarsi. Aveva un non so che di sardonico in ogni sua parola; in tutto trovava anche lui da criticare, a segno che, se faceva cattivo tempo due giorni di seguito, subito diceva: - eh già, in questo paese! - Vi dico che non eran pochi quelli che l’avevan già preso a noia, e anche persone che prima gli volevan bene; e col tempo, d’una cosa nell’altra, si sarebbe trovato, per dir così, in guerra con quasi tutta la popolazione, senza poter forse né anche lui conoscer la prima cagione d’un così gran male.
Ma si direbbe che la peste avesse preso l’impegno di raccomodar tutte le malefatte di costui. Aveva essa portato via il padrone d’un altro filatoio, situato quasi sulle porte di Bergamo; e l’erede, giovine scapestrato, che in tutto quell’edifizio non trovava che ci fosse nulla di divertente, era deliberato, anzi smanioso di vendere, anche a mezzo prezzo; ma voleva i danari l’uno sopra l’altro, per poterli impiegar subito in consumazioni improduttive. Venuta la cosa agli orecchi di Bortolo, corse a vedere; trattò: patti più grassi non si sarebbero potuti sperare; ma quella condizione de’ pronti contanti guastava tutto, perché quelli che aveva messi da parte, a poco a poco, a forza di risparmi, erano ancor lontani da arrivare alla somma. Tenne l’amico in mezza parola, tornò indietro in fretta, comunicò l’affare al cugino, e gli propose di farlo a mezzo. Una così bella proposta troncò i dubbi economici di Renzo, che si risolvette subito per l’industria, e disse di sì. Andarono insieme, e si strinse il contratto. Quando poi i nuovi padroni vennero a stare sul loro, Lucia, che lì non era aspettata per nulla, non solo non andò soggetta a critiche, ma si può dire che non dispiacque; e Renzo venne a risapere che s’era detto da più d’uno: - avete veduto quella bella baggiana che c’è venuta? - L’epiteto faceva passare il sostantivo.
E anche del dispiacere che aveva provato nell’altro paese, gli restò un utile ammaestramento. Prima d’allora era stato un po’ lesto nel sentenziare, e si lasciava andar volentieri a criticar la donna d’altri, e ogni cosa. Allora s’accorse che le parole fanno un effetto in bocca, e un altro negli orecchi; e prese un po’ più d’abitudine d’ascoltar di dentro le sue, prima di proferirle.
Non crediate però che non ci fosse qualche fastidiuccio anche lì. L’uomo (dice il nostro anonimo: e già sapete per prova che aveva un gusto un po’ strano in fatto di similitudini; ma passategli anche questa, che avrebbe a esser l’ultima), l’uomo, fin che sta in questo mondo, è un infermo che si trova sur un letto scomodo più o meno, e vede intorno a sé altri letti, ben rifatti al di fuori, piani, a livello: e si figura che ci si deve star benone. Ma se gli riesce di cambiare, appena s’è accomodato nel nuovo, comincia, pigiando, a sentire qui una lisca che lo punge, lì un bernoccolo che lo preme: siamo in somma, a un di presso, alla storia di prima. E per questo, soggiunge l’anonimo, si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio. È tirata un po’ con gli argani, e proprio da secentista; ma in fondo ha ragione. Per altro, prosegue, dolori e imbrogli della qualità e della forza di quelli che abbiam raccontati, non ce ne furon più per la nostra buona gente: fu, da quel punto in poi, una vita delle più tranquille, delle più felici, delle più invidiabili; di maniera che, se ve l’avessi a raccontare, vi seccherebbe a morte.
Gli affari andavan d’incanto: sul principio ci fu un po’ d’incaglio per la scarsezza de’ lavoranti e per lo sviamento e le pretensioni de’ pochi ch’eran rimasti. Furon pubblicati editti che limitavano le paghe degli operai; malgrado quest’aiuto, le cose si rincamminarono, perché alla fine bisogna che si rincamminino. Arrivò da Venezia un altro editto, un po’ più ragionevole: esenzione, per dieci anni, da ogni carico reale e personale ai forestieri che venissero a abitare in quello stato. Per i nostri fu una nuova cuccagna.
Prima che finisse l’anno del matrimonio, venne alla luce una bella creatura; e, come se fosse fatto apposta per dar subito opportunità a Renzo d’adempire quella sua magnanima promessa, fu una bambina; e potete credere che le fu messo nome Maria. Ne vennero poi col tempo non so quant’altri, dell’uno e dell’altro sesso: e Agnese affaccendata a portarli in qua e in là, l’uno dopo l’altro, chiamandoli cattivacci, e stampando loro in viso de’ bacioni, che ci lasciavano il bianco per qualche tempo. E furon tutti ben inclinati; e Renzo volle che imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacché la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro.
Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. - Ho imparato, - diceva, - a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere -. E cent’altre cose.
Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, - e io, - disse un giorno al suo moralista, - cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire, - aggiunse, soavemente sorridendo, - che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi.
Renzo, alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia.
La quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.
 
 
 

Nessun commento:

Posta un commento