Il
problema di una lingua “popolare”
1)
Infine, il problema della lingua. Manzoni, coerentemente con le idee
romantiche che in quegli anni si diffondono a Milano e che lui condivide, intende
fare un’opera che sia popolare, ovvero che si rivolga non al mondo ristretto
e raffinato degli ambienti letterari, bensì
al popolo. Ma cosa intende Manzoni quando parla di popolo? Ce lo dice
nella lettera al D’Azeglio Sul
Romanticismo: intende quella massa
di lettori “non letterata, né
illetterata” capace di leggere e capire, quei lettori che, come
aveva detto Berchet nella Lettera
semiseria di Crisostomo, “stanno
a milioni nella terza classe”, la classe – così l’aveva definita –
intermedia fra i Parigini (troppo
“letterati”, gente in cui l’eccesso di raziocinio ha bruciato il sentimento) e
gli Ottentoti (assolutamente
“illetterati”, intorpiditi dai bisogni materiali, pertanto incapaci di
sentimento e fantasia). La classe intermedia a cui si rivolge il poeta è dunque la borghesia, quella che gli inglesi chiamano the middle class, appunto, la
classe di mezzo. E’ questa classe di mezzo, la borghesia, che Manzoni intende
quando parla di popolo.
Il
problema di una lingua “nazionale”
2)
Ma la
lingua che Manzoni cerca deve essere allo stesso tempo popolare e nazionale.
La questione della lingua era in Italia una questione secolare, una
questione su cui nell’Ottocento si era riaperto il dibattito. Non esisteva una
lingua nazionale e popolare, una lingua che consentisse la comunicazione se
si incontravano individui provenienti da regioni diverse. La comunicazione
sarebbe stata possibile fra persone colte che potevano intendersi usando la lingua letteraria, altrimenti era
come un incontro fra stranieri parlanti lingue diverse. Ma anche fra persone
colte ci si poteva intendere con qualche fatica, perché con la lingua
letteraria non era facile parlare di
cose della quotidianità. Sentite cosa dice Manzoni in una lettera all’amico
Fauriel:
Supponete che ci
troviamo cinque o sei milanesi in una casa, dove stiam discorrendo in milanese
del più e del meno. Capita uno e presenta un piemontese, o un veneziano, o un
bolognese, o un napoletano, o un genovese; e, come vuol la creanza, si smette
di parlar milanese e si parla italiano. Dite voi se il discorso cammina come
prima, dite se ora non dovremo servirci
di un vocabolario generico e approssimativo (…) ora aiutarci con perifrasi,
e descrivere, dove prima non s’avrebbe avuto a far altro che nominare; ora
tirar a indovinare, dove prima s’era certi del vocabolo che si doveva usare,
anzi non ci si pensava, veniva da sé; ora
anche adoperare per disperati il vocabolo milanese, correggendolo con un: come
si dice da noi.
3)
Dunque
quello della lingua era un problema vitale per Manzoni, tant’è che lavora alla
stesura del romanzo, soprattutto per quanto riguarda le scelte linguistiche,
per ben vent’anni, visto che la prima redazione del romanzo è del 21/23 (il Fermo e Lucia) e la
redazione definitiva è del 40/42 (la
cosiddetta quarantana).
Dal
Fermo e Lucia alla ventisettana
4)
La
lingua del Fermo e Lucia,
come ammette lo stesso Manzoni, era
un misto di toscano, milanese, latinismi e francesismi (ricordiamo che Manzoni,
a seguito dei lunghi soggiorni, parlava e scriveva perfettamente il francese).
Il passaggio dal Fermo e Lucia
all’edizione del ’27 (la cosiddetta ventisettana) è caratterizzato
da modifiche significative per quanto riguarda la struttura del romanzo: non
solo cambiano alcuni nomi (Fermo
diventa Renzo, il conte del Sagrato diventa l’Innominato, Geltrude diventa
Gertrude), cambia anche la
struttura compositiva: prima c’erano lunghi blocchi narrativi che
seguivano separatamente le vicende di Lucia e di Renzo, poi queste vicende
vengono opportunamente alternate e intrecciate (alla macrostruttura è
applicato lo stesso procedimento messo in atto nella sequenza della “notte degli imbrogli”, dove si
intrecciano la vicenda del matrimonio a sorpresa con il tentato sequestro di
Lucia da parte dei bravi). Inoltre vengono
eliminate certe digressioni troppo estese, che finivano per essere dei
“racconti nel racconto”, ad esempio per quanto riguarda la vicenda della
monaca di Monza (la relazione fra Geltrude ed Egidio con il conseguente assassinio
della conversa, era una concessione al romanzo gotico, allora di moda;
Manzoni toglie tutto, si limita a dire che Egidio, da una finestra del suo
palazzo che guardava il cortile del convento, rivolse la parola alla monaca,
quindi sintetizza l’esito della vicenda con una sola frase: “la
sventurata rispose”), la
storia del conte del Sagrato (è ridotta la narrazione delle sue imprese
al momento della presentazione) o
quella del processo agli untori (materiale che poi costituirà la Storia
della colonna infame, pubblicata come appendice del romanzo). A fronte
dei tagli c’è anche qualche aggiunta
(Renzo
all’alba sulle rive dell’Adda, la descrizione della vigna di Renzo, la grande
pioggia purificatrice).
5)
Ma già in questa edizione del ’27
Manzoni interviene sulla lingua, insoddisfatto com’era di quella miscela linguistica
propria del Fermo e Lucia. Si
convince che debba utilizzare il
toscano della tradizione letteraria, per cui corregge ampiamente la
lingua del Fermo e Lucia, dopo
essersi dedicato sia ad una massiccia lettura
dei classici toscani, soprattutto quelli “popolareggianti” (i
comico-realisti, i novellieri, i cronisti), sia alla consultazione sistematica delle parole riportate nel Vocabolario della Crusca.
Dalla
ventisettana alla quarantana
6)
Tuttavia, se dal punto di vista strutturale e narrativo, questa edizione è
definitiva, dal punto di vista linguistico Manzoni continua ad essere
scontento. La correzione compiuta tramite i libri non lo soddisfa, dunque ecco la cosiddetta “risciacquatura dei panni in Arno”,
ovvero il soggiorno a Firenze e il lavoro di revisione linguistica che porterà
all’edizione del ‘40-42, la quarantana.
Il modello scelto è il fiorentino
vivo, non libresco, quello parlato, ma parlato dalle persone colte, ed
è la scelta che garantisce il
carattere nazionale e popolare della lingua. Fiorentino deve essere,
perché Firenze è la capitale linguistica d’Italia (come lo è Parigi per la
Francia, scriveva a Fauriel); il fatto che sia non quello letterario ma quello parlato ne garantisce la popolarità;
il fatto che sia parlato dalle persone
colte ne garantisce il carattere nazionale (il parlato dalle persone
incolte, con caratteri marcatamente dialettali, rimarrebbe una lingua di
diffusione regionale).
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