martedì 28 novembre 2023

I promessi sposi, un romanzo controverso (II parte)

 


Teresa Borri Stampa



Il primo tomo della ventisettana e l'edizione definitiva

Il problema di una lingua “popolare”

1)    Infine, il problema della lingua. Manzoni, coerentemente con le idee romantiche che in quegli anni si diffondono a Milano e che lui condivide, intende fare un’opera che sia popolare, ovvero che si rivolga non al mondo ristretto e raffinato degli ambienti letterari, bensì al popolo. Ma cosa intende Manzoni quando parla di popolo? Ce lo dice nella lettera al D’Azeglio Sul Romanticismo: intende quella massa di lettori “non letterata, né illetterata” capace di leggere e capire, quei lettori che, come aveva detto Berchet nella Lettera semiseria di Crisostomo, “stanno a milioni nella terza classe”, la classe – così l’aveva definita – intermedia fra i Parigini (troppo “letterati”, gente in cui l’eccesso di raziocinio ha bruciato il sentimento) e gli Ottentoti (assolutamente “illetterati”, intorpiditi dai bisogni materiali, pertanto incapaci di sentimento e fantasia). La classe intermedia a cui si rivolge il poeta è dunque la borghesia, quella che gli inglesi chiamano the middle class, appunto, la classe di mezzo. E’ questa classe di mezzo, la borghesia, che Manzoni intende quando parla di popolo.

Il problema di una lingua “nazionale”

2)    Ma la lingua che Manzoni cerca deve essere allo stesso tempo popolare e nazionale. La questione della lingua era in Italia una questione secolare, una questione su cui nell’Ottocento si era riaperto il dibattito. Non esisteva una lingua nazionale e popolare, una lingua che consentisse la comunicazione se si incontravano individui provenienti da regioni diverse. La comunicazione sarebbe stata possibile fra persone colte che potevano intendersi usando la lingua letteraria, altrimenti era come un incontro fra stranieri parlanti lingue diverse. Ma anche fra persone colte ci si poteva intendere con qualche fatica, perché con la lingua letteraria non era facile parlare di cose della quotidianità. Sentite cosa dice Manzoni in una lettera all’amico Fauriel:

Supponete che ci troviamo cinque o sei milanesi in una casa, dove stiam discorrendo in milanese del più e del meno. Capita uno e presenta un piemontese, o un veneziano, o un bolognese, o un napoletano, o un genovese; e, come vuol la creanza, si smette di parlar milanese e si parla italiano. Dite voi se il discorso cammina come prima, dite se ora non dovremo servirci di un vocabolario generico e approssimativo (…) ora aiutarci con perifrasi, e descrivere, dove prima non s’avrebbe avuto a far altro che nominare; ora tirar a indovinare, dove prima s’era certi del vocabolo che si doveva usare, anzi non ci si pensava, veniva da sé; ora anche adoperare per disperati il vocabolo milanese, correggendolo con un: come si dice da noi.

 

3)     Dunque quello della lingua era un problema vitale per Manzoni, tant’è che lavora alla stesura del romanzo, soprattutto per quanto riguarda le scelte linguistiche, per ben vent’anni, visto che la prima redazione del romanzo è del 21/23 (il Fermo e Lucia) e la redazione definitiva è del 40/42 (la cosiddetta quarantana).

Dal Fermo e Lucia alla ventisettana

4)    La lingua del Fermo e Lucia, come ammette lo stesso Manzoni, era un misto di toscano, milanese, latinismi e francesismi (ricordiamo che Manzoni, a seguito dei lunghi soggiorni, parlava e scriveva perfettamente il francese). Il passaggio dal Fermo e Lucia all’edizione del ’27 (la cosiddetta ventisettana) è caratterizzato da modifiche significative per quanto riguarda la struttura del romanzo: non solo cambiano alcuni nomi (Fermo diventa Renzo, il conte del Sagrato diventa l’Innominato, Geltrude diventa Gertrude), cambia anche la struttura compositiva: prima c’erano lunghi blocchi narrativi che seguivano separatamente le vicende di Lucia e di Renzo, poi queste vicende vengono opportunamente alternate e intrecciate (alla macrostruttura è applicato lo stesso procedimento messo in atto nella sequenza della “notte degli imbrogli”, dove si intrecciano la vicenda del matrimonio a sorpresa con il tentato sequestro di Lucia da parte dei bravi). Inoltre vengono eliminate certe digressioni troppo estese, che finivano per essere dei “racconti nel racconto”, ad esempio per quanto riguarda la vicenda della monaca di Monza (la relazione fra Geltrude ed Egidio con il conseguente assassinio della conversa, era una concessione al romanzo gotico, allora di moda; Manzoni toglie tutto, si limita a dire che Egidio, da una finestra del suo palazzo che guardava il cortile del convento, rivolse la parola alla monaca, quindi sintetizza l’esito della vicenda con una sola frase: “la sventurata rispose”), la storia del conte del Sagrato (è ridotta la narrazione delle sue imprese al momento della presentazione) o quella del processo agli untori (materiale che poi costituirà la Storia della colonna infame, pubblicata come appendice del romanzo). A fronte dei tagli c’è anche qualche aggiunta (Renzo all’alba sulle rive dell’Adda, la descrizione della vigna di Renzo, la grande pioggia purificatrice).

5)    Ma già in questa edizione del ’27 Manzoni interviene sulla lingua, insoddisfatto com’era di quella miscela linguistica propria del Fermo e Lucia. Si convince che debba utilizzare il toscano della tradizione letteraria, per cui corregge ampiamente la lingua del Fermo e Lucia, dopo essersi dedicato sia ad una massiccia lettura dei classici toscani, soprattutto quelli “popolareggianti” (i comico-realisti, i novellieri, i cronisti), sia alla consultazione sistematica delle parole riportate nel Vocabolario della Crusca.

Dalla ventisettana alla quarantana

6)    Tuttavia, se dal punto di vista strutturale e narrativo, questa edizione è definitiva, dal punto di vista linguistico Manzoni continua ad essere scontento. La correzione compiuta tramite i libri non lo soddisfa, dunque ecco la cosiddetta “risciacquatura dei panni in Arno”, ovvero il soggiorno a Firenze e il lavoro di revisione linguistica che porterà all’edizione del ‘40-42, la quarantana. Il modello scelto è il fiorentino vivo, non libresco, quello parlato, ma parlato dalle persone colte, ed è la scelta che garantisce il carattere nazionale e popolare della lingua. Fiorentino deve essere, perché Firenze è la capitale linguistica d’Italia (come lo è Parigi per la Francia, scriveva a Fauriel); il fatto che sia non quello letterario ma quello parlato ne garantisce la popolarità; il fatto che sia parlato dalle persone colte ne garantisce il carattere nazionale (il parlato dalle persone incolte, con caratteri marcatamente dialettali, rimarrebbe una lingua di diffusione regionale).

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