AMORE E MORTE NELL'IMMAGINARIO MEDIEVALE (Lezioni)

 

Introduzione

1)    Sono ricorrenti nella letteratura medievale visioni dell’oltretomba, cioè visioni della condizione umana dopo la morte (basti pensare a quella grandiosa visione dell’aldilà che è la Divina Commedia). Ebbene, ci sono visioni dedicate alla condizione riservata ad uomini e donne dopo la morte, specificamente in relazione al modo in cui hanno praticato o non hanno praticato l’amore durante la vita.

2)    Esaminando queste visioni (io ne ho selezionate quattro), si può vedere come nel giro di un paio di secoli cambi il modo di concepire l’amore, cambi in relazione agli sviluppi della società e all’affermarsi di diversi principi morali.

La visione di Andrea Cappellano: i tre gruppi

3)    La prima visione, che prendo in considerazione, è quella che si trova nel De amore di Andrea Cappellano. Dell’autore poco si sa, se non che fu attivo fra la seconda metà del sec. XII e i primi decenni del secolo successivo, e, presumibilmente, fu ‘cappellano’ (da cui l’appellativo con cui è ricordato nei codici) prima alla corte di Maria di Champagne, poi a quella del re di Francia Filippo Augusto. L’opera, a cui è legata la sua fama, il De amore (o De arte honeste amandi), è un trattato in tre libri, scritto in latino e tradotto ben presto nelle principali lingue indo-europee.

4)    Ed ecco la visione. In una calda e luminosa giornata d’estate un nobile cavaliere, un certo Gualtieri, mentre cavalca nella selva reale di Francia al seguito del re ed insieme ad altri nobili, si trova a vivere una straordinaria avventura. Infatti, per un contrattempo durante una sosta, perde di vista la propria compagnia, quindi cerca di ritrovarla, ma si imbatte in un’altra compagnia di uomini e donne, a piedi e a cavallo. Si tratta nientemeno che di una compagnia di morti.

5)    Il corteo incontrato – come gli spiega una donna che ne fa parte – è guidato dal dio Amore ed è composto da donne, suddivise in tre gruppi. Nel primo gruppo ci sono donne molto belle e ben vestite, che cavalcano un palafreno lussuosamente bardato e sono accompagnate ciascuna da due cavalieri che procedono al loro fianco e da un terzo appiedato che guida a mano il loro cavallo: sono, costoro, quelle "beatissime donne" che in vita concessero il loro amore agli amanti che ne erano degni, e che perciò ora ricevono, come ricompensa, tale onore. Le donne del secondo gruppo sono accompagnate da una gran quantità di servitori, a piedi e a cavallo, ma la moltitudine e la confusione sono tali che esse, invece di essere adeguatamente servite, ricevono soltanto impaccio nel cavalcare: si tratta delle donne che in vita “si concessero al piacere di chiunque, senza discrezione, e che perciò ora hanno in cambio tale condizione disagiata. Nel terzo gruppo ci sono donne mal vestite, costrette a cavalcare senza sella su cavalli macilenti e zoppicanti, senza alcun cavaliere che le accompagni e le serva, per di più accecate e soffocate dalla molta polvere sollevata dal gruppo precedente: sono queste le donne che in vita "mantennero chiusa la porta dell’amore", rifiutarono di concedersi anche ai cavalieri che degnamente le avrebbero amate, preferirono la castità e perciò ora subiscono la giusta punizione.

6)    Anche nel regno governato dal dio Amore, ove il nobile protagonista giunge al seguito del corteo, le tre schiere hanno una collocazione corrispondente: di premio o di punizione, secondo criteri analoghi a quelli riscontrati nella cavalcata. In una radura ci sono tre zone concentriche: quella più interna (Amoenitas) è una sorta di paradiso terrestre, e lì, all’ombra di un grande albero e presso il trono del dio Amore, risiedono felici con i loro cavalieri le donne che amarono e si lasciarono amare cortesemente; nella zona intermedia (Humiditas), su prati inondati da acqua gelida, sono collocate le donne di facili costumi; in quella più esterna (Siccitas), arsa da un sole cocente, si trovano le donne che si vollero mantenere caste, ora costrette, per maggiore tormento, a sedere su dolorosi fasci di spine.

Sono in campo canoni in antitesi rispetto a quelli cristiani

7)    Non si può non notare il fatto che qui l’amore di cui si parla sia assolutamente dissociato dall’idea cristiana di peccato, ed anzi esaltato e premiato nell’oltretomba, quando praticato in vita secondo canoni evidentemente diversi da quelli cristiani. Né può sfuggire che, nella visione testé narrata, la condizione peggiore (direi ‘infernale’, adottando una categoria che appartiene all’oltretomba cristiano) è riservata alle donne che praticarono la castità, ovvero la virtù per eccellenza secondo la morale cristiana (le donne più miserabili di tutte, che, in vita, chiusero la porta a tutti quelli che volevano entrare nel palazzo di amore... rifiutarono e respinsero come odiosi coloro che chiedevano di servire in amore), mentre una sorta di ‘regno intermedio’ c’è per le donne che, vere e proprie lussuriose, si concessero indiscriminatamente (donne immonde, che, in vita, non ebbero ritegno di offrirsi al piacere di tutti, consentirono al desiderio di chiunque chiedesse…); al ‘paradiso’ hanno accesso le donne che non negarono il loro amore, ma corrisposero, com’era giusto e doveroso, alla richiesta degli amanti cortesi (donne beatissime, che, in vita, seppero saggiamente offrirsi ai cavalieri d’amore e concessero tutto il loro favore a quelli che volevano amarle).

8)    Appare dunque evidente che la concezione che ispira la visione di Andrea è in aperto contrasto con la dottrina cristiana, anzi si struttura come una vera e propria religione antitetica a quella cristiana: c’è un’oltretomba, come s’è visto, e c’è un dio, Amore, che attribuisce premi e castighi secondo un rigoroso contrappasso, che determina la condizione ultraterrena in relazione al comportamento tenuto in vita.

I canoni dell’ “amor cortese”

9)    I canoni diversi rispetto a quelli cristiani non sono altro che i canoni del cosiddetto “amor cortese” (o fin amor, ovvero “amore raffinato”, come è chiamato in lingua d’oc). Si tratta di una concezione originale dell’amore, espressa per la prima volta dalla lirica d’amore che nasce in Provenza nel XII secolo e di cui Andrea Cappellano con il suo trattato è il vero teorico e grande divulgatore. E’ una concezione decisamente nuova rispetto all’antichità e con caratteristiche peculiari.

10)                      Più precisamente: 1) l’amore è un sentimento nobile e nobilitante, proprio soltanto di chi ha costumi, ed animo, “cortesi”; 2) il poeta si dichiara vassallo della donna, cui si sottomette con umiltà e fedeltà (si parla infatti anche di “vassallaggio d’amore”, estendendo al rapporto d’amore il rapporto di vassallaggio che esiste nella società feudale); 3) la donna è innalzata al di sopra dell’uomo (fatto che non riflette condizioni sociali, giacché la condizione della donna nelle istituzioni feudali è di assoluta subalternità); 4) è un amore estraneo al matrimonio, anzi, si potrebbe dire che l’adulterio ne è un carattere qualificante (ciò non solo è evidente nella letteratura cortese, dalla lirica provenzale ai romanzi cavallereschi – si pensi ad esempio all’amore fra Lancillotto e Ginevra – ma è espressamente dichiarato proprio da Andrea: “nessuna donna, anche moglie di re, potrà essere degna di elogio in amore, se non amerà fuori del vincolo coniugale”; è un aspetto che può sembrare strano, ma lo si può comprendere se si pensa che in quel mondo il matrimonio ha ben poco a che fare con l’amore, ma piuttosto è determinato da logiche di interesse e di convenienza politica).

Una concezione nuova rispetto all’antichità

11)                      E’ una concezione nuova perché nella letteratura classica l’amore è sentito come sensuale, fonte di gioia e dolore, ma sempre, in definitiva, non certo come un sentimento nobile e nobilitante, ma come una malattia che fa perdere il senno; e la donna non è altro che proprietà dell’uomo (nell’Iliade, Elena e Briseide sono semplici oggetti di lite; nell’Odissea, Penelope fa parte dei possedimenti di Ulisse, e infatti di lei come dei possedimenti intendono impadronirsi i Proci).

12)                      Non mi dilungherò sulle varie spiegazioni che si sono date sulle origini (latine, celtiche, germaniche, arabe, cristiane) della concezione “cortese” dell’amore. Mi limito a dire che non è convincente l’idea che sia stato il cristianesimo, con il culto della vergine Maria, a portare ad una idealizzazione della donna; al contrario, secondo molti studiosi, è più probabile che il culto della Vergine sia un effetto e non una causa dell’amor cortese – e, su tutto un altro piano, un effetto ci sarebbe stato anche nel gioco degli scacchi, per cui a un certo momento la donna (la regina) ha preso il sopravvento su tutti gli altri pezzi.

Si esalta la passione amorosa, estranea al matrimonio di interesse

13)                      Di più, non si può non notare che, nella concezione cortese, l’amore è sì sentito come un sentimento nobile e nobilitante, ma non per questo è ridotto ad un fatto puramente spirituale, depauperato delle sue componenti erotico-sensuali: al contrario, tali componenti  sono apertamente valorizzate nel trattato di Andrea e il fatto che l’adulterio ne sia un canone qualificante, dimostra una volta di più, se ce ne fosse bisogno, che l’amore di cui si tratta è un amore-passione, in forza di ciò legittimato a realizzarsi al di fuori dei vincoli di interesse e convenienza connessi con il matrimonio. In altre parole si potrebbe anche dire che la dottrina in questione, di cui Andrea è il grande divulgatore, intende dare dignità morale a quella passione amorosa da sempre oggetto della riprovazione della Chiesa.

Passione sempre condannata dalla dottrina cristiana

14)                      Nel merito, la storia secolare dell’atteggiamento della Chiesa, da Paolo di Tarso a Tommaso d’Aquino, è sostanzialmente una storia di condanne: la passione d’amore, che travolge la ragione, è peccaminosa, è il segno dell’imperfezione umana dopo la Caduta; l’amore carnale, fuori del matrimonio, non si giustifica in alcun modo, nel matrimonio è tollerato ai fini della procreazione, ma, anche in questo caso, con le dovute cautele, perché il desiderio è intrinsecamente malvagio. Basterà ricordare, per tutti, Gerolamo che, nell’Adversus Jovinianum, bolla così il desiderio troppo intenso del marito: “E’ adultero chi ama la propria moglie con troppo ardore... L’uomo saggio deve amare la moglie con giudizio, non con passione... Non c’è niente di più turpe che amare la moglie come un’adultera”.

La condanna del De amore e la crociata anti-catara

15)                      E infatti la condanna della Chiesa si abbattè sul libro di Andrea nel 1277, per opera del vescovo di Parigi, Stephan Tempier. E si noti che non valse ad Andrea il fatto di aver rinnegato nel terzo libro tutte le tesi sull’amore sostenute nei primi due libri. Ma quella condanna non era che l’ultimo anello di una catena che aveva finito per strangolare, insieme a quell’etica inaccettabile per l’ortodossia cattolica, la grande cultura cortese fiorita nel sud della Francia.

16)                      Quella cultura era fiorita negli stessi luoghi in cui si era affermata l’eresia dei catari. Quale che fosse la relazione fra il catarismo e la concezione dell’amor cortese (una relazione molto stretta, secondo alcuni studiosi), non c’è dubbio che la crociata contro gli Albigesi (dalla città di Albi, nel sud della Francia, dove l’eresia era particolarmente diffusa) indetta da papa Innocenzo III nel 1209, non si limitò ad estirpare la mala pianta dell’eresia, ma determinò anche in modo irreversibile il tramonto di quella civiltà. In particolare, non poteva avere cittadinanza all’interno della comunità cristiana quella concezione dell’amore che celebrava apertamente una passione tutta terrena e addirittura idealizzava l’adulterio: fu perseguita come una peste, come il frutto avvelenato di quella haeretica pravitas che, in spregio del matrimonio, sembrava aver rovesciato il detto paolino (melius est nubere quam uri) nel suo contrario (melius est uri quam nubere).

Gli ideali dell’amor cortese importati in Italia

17)                      Ma in Italia, nel 1277, la “peste” si era già diffusa. Non solo perché a quella data il De amore risulta già conosciuto, ma proprio perché la lirica siciliana dell’età di Federico II sembra avere importato in Italia quegli ideali di amore cortese, banditi nelle terre d’origine. Di quegli ideali si nutre più di una generazione di poeti, quegli ideali (e quindi il De amore, che li organizza sistematicamente) costituiscono una componente fondamentale nella cultura di ogni poeta del sec. XIII, dai siciliani agli "stilnovisti", da Jacopo da Lentini a Dante .

Dante li assume, ma  infine si scontrano con la sua fede cristiana

18)                      Dante ha letto gli autori provenzali, conosce il trattato di Andrea, padroneggia quelle problematiche, come era pressoché indispensabile per chiunque volesse trattare d’amore. Ma è per lui un bagaglio sempre più pesante, in quanto quella cultura, con quel sistema di valori, in particolare con quella concezione laica dell’amore, non può non scontrarsi, nella sua coscienza, con i dettami della morale cristiana. Di tale scontro - e della continua ricerca di una superiore conciliazione - è testimonianza esemplare il percorso poetico che conduce dalla Vita Nova alla Commedia.

L’episodio di Francesca e il confronto con la visione di Andrea

19)                      Ed è interessante notare come proprio l’episodio di Francesca, nel V dell’Inferno, sia segno di un rapporto intensamente, e drammaticamente, vissuto dall’autore con i modelli proposti dalla cultura cortese. Un rapporto mai dimenticato, ma ormai inaccettabile alla luce di una concezione che ha tolto all’amore ogni connotazione mondana per collocarlo in una dimensione autenticamente religiosa (di una religione, cioè, fedele a Cristo e non al dio Amore).

20)                      Nel V dell’Inferno ci troviamo di fronte ad una visione dell’oltretomba che, fatte le debite proporzioni, non può non rievocare quella immaginata da Andrea nel I libro del De amore: in entrambi i casi è la passione d’amore l’elemento rispetto al quale si è giudicati e "mandati" per l’eternità. E dunque non pare improprio il confronto, e non solo perché è comune l’idea del viaggiatore, perdutosi nella selva, cui è concesso di apprendere la condizione nell’aldilà perché possa riferirne ad ammaestramento dei viventi; o perché tale condizione appare regolata, analogamente, dalla legge del contrappasso, o per altre similitudini che vi si vogliano riscontrare; quanto perché il confronto ci consente di misurare appieno la distanza che separa le due concezioni, una distanza che conduce addirittura ad un rovesciamento di prospettiva, ad una inconciliabile opposizione.

Ma Francesca è dannata proprio per il suo amore cortese

21)                      L’amore esaltato da Andrea, l’amore proprio di chi ha cuore gentile, l’amore nobile e nobilitante, e perciò santificato nel suo oltretomba, è diventato nella Commedia peccato di lussuria, proprio di coloro che “la ragione sommettono al talento”, un peccato che conduce alla dannazione eterna. Analogamente, alla condizione beata delle donne cui è reso ogni onore e servizio nella visione di Andrea, corrisponde nella Commedia la condizione di Francesca, travolta per sempre dalla bufera infernale. E si badi: il comportamento per cui Francesca è punita non differisce da quello che nel De amore si raccomanda come esemplare; non differisce, perché Francesca non ha concesso il suo amore indiscriminatamente, ma, lei gentile, ha corrisposto all’amore di un uomo gentile, com’era doveroso; né è l’adulterio a fare la differenza, visto che la condizione extra-coniugale degli amanti è indicata espressamente nel trattato di Andrea come qualificante l’autenticità dell’amore. Queste cose Francesca le sa: perciò dichiara a voce alta la sua colpa, che lei continua a non sentire come una colpa.

22)                      E ovviamente, ancor prima di lei, le sa l’autore della Commedia, che qui si trova non solo a regolare i conti con la grande tradizione della cultura cortese, ma anche a combattere con i fantasmi della propria giovinezza: non altrimenti si spiega la forte intensità emotiva che pervade l’intero episodio, e coinvolge, come mai in seguito, il visitatore dell’oltretomba fino al punto estremo di non sopportazione (Io venni meno sì com’io morisse. / E caddi come corpo morto cade).

Le tre terzine famose rimandano ad Andrea e a Guinizzelli

23)                      Le parole con cui Francesca si giustifica sono quelle racchiuse dalle terzine famose, introdotte dalla triplice anafora:

     Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,

     prese costui de la bella persona

     che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.

     Amor, ch’a nullo amato amar perdona,

     mi prese del costui piacer sì forte,

     che, come vedi, ancor non m’abbandona.

     Amor condusse noi ad una morte.

     Caina attende chi a vita ci spense

 

Queste sono parole care alle orecchie di Dante: con quelle parole sono professati i principi dell’amor cortese, quasi nei termini di una traduzione delle regole enunciate da Andrea nel De amore. Di più: il primo verso (Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende) rimanda ad un autore amatissimo (il padre / mio e de gli altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre), quel Guinizzelli, maestro indimenticabile, che aveva cantato Al cor gentil rempaira sempre amore; un insegnamento ben recepito dall’allievo, che l’aveva ripreso in un sonetto della Vita Nova (Amore e ’l cor gentil sono una cosa, / sì come il saggio in suo dittare pone).

24)                      Ma anche il "saggio" aveva sbagliato: non aveva visto il pericolo implicito nell’affermazione di quella identità (tra amore e cor gentile), non era riuscito a liberarsi completamente della zavorra che tratteneva a terra quell’idea dell’amore. Beatrice ha indicato un’altra strada: l’amore virtuoso si determina, sì, fra persone fisicamente concrete, ma è capace di staccarsi dalla materialità corporea, si risolve in un processo di purificazione interiore, diventa elevazione al cielo. Fuori di questa strada c’è la prevaricazione del "talento" sulla "ragione", e non varranno nobili intenzioni e nobile sentire a salvare Francesca dalla dannazione eterna. Per lei, e per la sua umana debolezza, potrà esserci "pietà", ma nel buio del cerchio in cui è relegata sarà per sempre travolta dal turbine, così come in vita si lasciò travolgere dalla lussuria.

Passavanti: l’exemplum del carbonaio di Niversa

25)                      Chi non patisce un siffatto dramma interiore, ma ha invece solide certezze, è Jacopo Passavanti, il frate domenicano vissuto nelle prima metà del sec. XIV, autore di un trattato (lo Specchio di vera penitenza) in cui sono raccolte le prediche da lui stesso tenute nella quaresima del 1354. Servendosi di racconti esemplari quanto mai vividi, Passavanti intende ammonire i fedeli ad astenersi dal peccato e a fare penitenza, se non vogliono incorrere, dopo la morte, nei rigori della giustizia divina. Fra questi, l’exemplum del carbonaio di Niversa è certamente uno dei più famosi; ed è anche interessante per il nostro discorso, perché, essendo ancora una volta la passione d’amore il peccato oggetto di punizione nell’aldilà, richiama inevitabilmente alla memoria le precedenti visioni di Dante e di Andrea Cappellano.

26)                      Vi si racconta di come un carbonaio assista nottetempo, mentre veglia presso la fossa accesa dei carboni, alla visione terrificante di una, cosiddetta, "caccia tragica". Leggo il passo:

vide venire in verso la fossa correndo e stridendo una femmina iscapigliata e ignuda; e dietro le veniva uno cavaliere in su uno cavallo nero, correndo, con uno coltello ignudo in mano: e della bocca, e degli occhi, e del naso del cavaliere e del cavallo usciva una fiamma di fuoco ardente. Giugnendo la femmina alla fossa che ardeva, non passò più oltre, e nella fossa non ardiva di gittarsi, ma correndo intorno alla fossa fu sopraggiunta dal cavaliere, che dietro le correva: la quale traendo guai, presa per li svolazzanti capelli, crudelmente la ferì per lo mezzo del petto col coltello che tenea in mano. E, cadendo in terra, con molto spargimento di sangue, sì la riprese per li insanguinati capelli, e gittolla nella fossa de’ carboni ardenti: dove, lasciandola stare per alcuno spazio di tempo, tutta focosa e arsa la ritolse; e ponendolasi davanti in su il collo del cavallo, correndo se ne andò per la via onde era venuto

La visione si presenta identica per tre notti, finché il carbonaio ne parla al conte di Niversa, il quale assiste di persona alla visione e quindi, per quanto spaventato, osa chiederne ragione al feroce cavaliere. E questi gli risponde:

“sappi ch’io fui Giuffredi tuo cavaliere, e in tua corte nutrito. Questa femmina contro alla quale io sono tanto crudele e fiero, è dama Beatrice, moglie che fu del tuo caro cavaliere Berlinghieri. Noi, prendendo piacere di disonesto amore l’uno dell’altro, ci conducemmo a consentimento di peccato; il qual a tanto condusse lei che, per potere più liberamente fare il male, uccise il suo marito. E perseverammo nel peccato insino alla infermitade della morte….” E domandando il conte che gli desse ad intendere le loro pene più specificatamente, rispuose con lacrime e con sospiri, e disse: «Imperò che questa donna per amore di me uccise il marito suo, le è data questa penitenzia, che, ogni notte tanto quanto ha istanziato la divina iustizia, patisca per le mie mani duolo di penosa morte di coltello, e imperò ch’ella ebbe in verso di me ardente amore di carnale concupiscienzia, per le mie mani ogni notte, è gittata ad ardere nel fuoco, come nella visione vi fu mostrato. E come già ci vedemmo con grande disio e con piacere di grande diletto, così ora ci veggiamo con grande odio, e ci perseguitamo con grande sdegno. E come l’uno fu cagione all’altro d’accendimento di disonesto amore, così l’uno è cagione all’altro di crudele tormento: ché ogni pena ch’io fo patire a lei, sostengo io, ché il coltello di che io la ferisco, tutto è fuoco che non si spegne; e, gittandola nel fuoco, e traendonela e portandola, tutto ardo io di quello medesimo fuoco che arde ella. Il cavallo è uno dimonio al quale noi siamo dati, che ci ha a tormentare

Siccome poi, aggiunge il cavaliere, loro due peccatori si pentirono in punto di morte, la misericordia di Dio mutò la pena eterna dello ’nferno in pena temporale di purgatorio; pertanto egli sollecita preghiere, elemosine e messe affinché le loro sofferenze siano alleviate.

L’amore cortese condannato senza dubbi e perplessità

27)                      Questo l’exemplum narrato da Passavanti. E non si può non avvertire che, per quanto la pena descritta sia di purgatorio e non di inferno, temporanea e non eterna, purtuttavia la stessa è così orribile che al confronto impallidisce la pena di Paolo e Francesca (i quali, nel loro inferno, non si vedono con odio e terrore, ma insieme vanno ancora legati da un amore che sembra sfidare la stessa legge divina che li ha dannati). E’ evidente che per fra’ Jacopo la passione d’amore non ammette scusanti, non porta con sé alcun segno di nobiltà, è ormai soltanto esecrabile concupiscenza della carne: la morale cristiana ha fatto valere appieno i suoi principi, senza più dubbi e senza perplessità, quei dubbi e quelle perplessità che avevano reso così dolorosamente lacerante l’incontro di Dante con Francesca.

Più che l’uxoricidio la colpa è il “disonesto amore”

28)                      E si badi: non è tanto l’uxoricidio (apro una parentesi: il termine “uxoricidio” in italiano indica non solo l’uccisione della moglie, uxor in latino, ma anche quella del marito da parte della moglie), quanto il disonesto amore (nel testo ripetuto due volte) a determinare per i due (e per la donna in particolare) una punizione così terribile; l’uccisione del marito è tuttalpiù un aggravante, certo una conseguenza, come ogni altra nefandezza, di un peccato che comporta offuscamento della ragione (di un peccato proprio di coloro che, appunto, la ragione sommettono al talento).

29)                      Dunque, il disonesto amore: e "disonesto" perché adulterino. Niente di più distante dalle teorizzazioni di Andrea Cappellano. Là l’adulterio, lungi dall’essere deplorato, era raccomandato. Né si può pensare che in Passavanti la "disonestà" sia associata alla mancanza di cortesia dei due protagonisti; perché è vero che niente si dice sui loro costumi e che il cavaliere non tenta di giustificare - a differenza di quel che fa Francesca - con il "cuore gentile" la caduta nel peccato; ma è anche vero che il loro nobile lignaggio (lui è cavaliere, “nutrito” alla corte del conte; lei è “dama Beatrice”) lascia intendere di per sé, in mancanza di indicazioni contrarie, un mondo di belle cortesie, all’interno del quale, secondo la dottrina enunciata da Andrea, quell’amore, ancorché carnale e adulterino, avrebbe avuto pieno titolo per realizzarsi.

La visione è notturna, come in Dante, mentre è diurna in Andrea

30)                      Ma vediamo qualche altro particolare. L’ombra nera della notte avvolge la scena, una notte lugubre, rischiarata dal rosso vivo dei carboni accesi e del fuoco che spira della boca e degli ochi e dello naso del cavaliere e del cavallo. E’ la notte che si addice al peccato: la tenebra materiale corrisponde ora a quella tenebra che in vita rese cieca la ragione, quando la lussuria prese il sopravvento. Anche per Francesca, nell’Inferno di Dante, c’è la notte, il loco d’ogne luce muto (famosa sinestesia), il buio senza tempo e senza fine del mondo sotterraneo. Se la luce è vita ed è salvezza, non può esserci la luce per i dannati all’inferno.

31)                      Alla luce piena del giorno avveniva invece, nella visione di Andrea Cappellano, l’incontro del cavaliere con il corteo guidato dal dio Amore. Lì evidentemente la passione amorosa non implicava in alcun modo l’idea di peccato; e questo non solo perché, come s’è visto, ad essere punita era piuttosto la castità, ma anche perché quell’oltretomba era associato ad un paesaggio terreno rischiarato dal sole, la visione non comportava il passaggio ad una dimensione allucinata ed angosciante, ma si compiva in un ambiente naturale i cui elementi, per quanto dolorosi, sono riconoscibili e familiari, appartengono alla quotidianità (il sole cocente, la polvere, i cavalli zoppi e macilenti, le spine). E ciò sembra appropriato ad una concezione laica che si serve sì, in ossequio alle idee dominanti, di una visione ultraterrena, ma sostanzialmente tratta in termini naturali e terreni una questione naturale e terrena come l’amore fra l’uomo e la donna.

Boccaccio: la novella di Nastagio degli Onesti

32)                      Alla luce piena del giorno avviene anche la visione di cui narra Boccaccio nella novella di Nastagio degli Onesti. E questo sarebbe già il segno, se non ci fossero anche altri e ben vistosi elementi, di una mentalità non più ossessionata dalla paura del peccato e della dannazione eterna. Si tratta di una visione che presenta tali somiglianze con quella del carbonaio di Niversa da far pensare che la fonte sia comune o che Boccaccio conoscesse Passavanti.

33)                      Leggo il testo. Nastagio, nobile ravennate,

s’innamorò d’una figliuola di messer Paolo Traversaro, giovane troppo più nobile che esso non era, prendendo speranza con le sue opere di doverla trarre a amar lui. Le quali, quantunque grandissime, belle e laudevoli fossero, non solamente non gli giovavano, anzi pareva che gli nocessero, tanto cruda e dura e salvatica gli si mostrava la giovinetta amata, forse per la sua singular bellezza o per la sua nobiltà sì altiera e disdegnosa divenuta, che né egli né cosa che gli piacesse le piaceva. La qual cosa era tanto a Nastagio gravosa a comportare, che per dolore più volte dopo essersi doluto gli venne in disidero d’uccidersi;  poi, pur tenendosene, molte volte si mise in cuore di doverla del tutto lasciare stare, o se potesse d’averla in odio come ella aveva lui. Ma invano tal proponimento prendeva, per ciò che pareva che quanto più la speranza mancava, tanto più multiplicasse il suo amore. Perseverando adunque il giovane e nello amare e nello spendere smisuratamente, parve a certi suoi amici e parenti che egli sé e ’l suo avere parimente fosse per consumare; per la qual cosa più volte il pregarono e consigliarono che si dovesse di Ravenna partire e in alcuno altro luogo per alquanto tempo andare a dimorare, per ciò che, così faccendo, scemerebbe l’amore e le spese.

Nastagio si lascia convincere ad allontanarsi da Ravenna, ma finge di andare lontano e invece si ritira nella vicina Chiassi dove continua a pensare alla giovane Traversari e a condurre “la più bella vita e la più magnifica, come quando stava a Ravenna (fa infatti portare tende e baracche, organizza banchetti “or questi e or quegli altri invitando a cena e a desinare, come usato s’era”). Qui un giorno, quasi all’entrata di maggio, verso mezzogiorno, essendo uno bellissimo tempo, mentre immerso nei suoi pensieri si inoltra nella pineta, assiste alla seguente scena:

Vide venire per un boschetto assai folto d’albuscelli e di pruni, correndo verso il luogo dove egli era, una bellissima giovane ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche e da’ pruni, piagnendo e gridando forte mercé; e oltre a questo le vide a’ fianchi due grandi e fieri mastini, li quali duramente appresso correndole spesse volte crudelmente dove la giugnevano la mordevano; e dietro a lei vide venire sopra un corsier nero un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco in mano, lei di morte con parole spaventevoli e villane minacciando. Questa cosa a un’ora maraviglia e spavento gli mise nell’animo e ultimamente compassione della sventurata donna, dalla qual nacque disidero di liberarla da sì fatta angoscia e morte, se el potesse. Ma senza arme trovandosi, ricorse a prendere un ramo d’albero in luogo di bastone e cominciò a farsi incontro a’ cani e contro al cavaliere. Ma il cavaliere che questo vide gli gridò di lontano: «Nastagio, non t’impacciare, lascia fare a’ cani e a me quello che questa malvagia femina ha meritato». E così dicendo, i cani, presa forte la giovane ne’ fianchi, la fermarono, e il cavaliere sopra giunto smontò da cavallo; al quale Nastagio avvicinatosi disse: «Io non so chi tu ti se’ che me così cognosci, ma tanto ti dico che gran viltà è d’un cavaliere armato volere uccidere una femina ignuda e averle i cani alle coste messi come se ella fosse una fiera salvatica: io per certo la difenderò quant’io potrò». Il cavaliere allora disse: «Nastagio, io fui d’una medesima terra teco, e eri tu ancora piccol fanciullo quando io, il quale fui chiamato messer Guido degli Anastagi, era troppo più innamorato di costei che tu ora non se’ di quella de’ Traversari; e per la sua fierezza e crudeltà andò sì la mia sciagura, che io un dì con questo stocco, il quale tu mi vedi in mano, come disperato m’uccisi, e sono alle pene eternali dannato. Né stette poi guari tempo che costei ….  morì, e per lo peccato della sua crudeltà e della letizia avuta de’ miei tormenti, non pentendosene, come colei che non credeva in ciò aver peccato ma meritato, similmente fu e è dannata alle pene del Ninferno. Nel quale come ella discese, così ne fu e a lei e a me per pena dato, a lei di fuggirmi davanti e a me, che già cotanto l’amai, di seguitarla come mortal nemica, non come amata donna; e quante volte io la giungo, tante con questo stocco, col quale io uccisi me, uccido lei e aprola per ischiena, e quel cuor duro e freddo, nel qual mai né amor né pietà poterono entrare, con l’altre interiora insieme, sì come tu vedrai incontanente, le caccio di corpo e dolle mangiare a questi cani. Né sta poi grande spazio che ella, sì come la giustizia e la potenzia di Dio vuole, come se morta non fosse stata, risurge e da capo incomincia la dolorosa fugga, e i cani e io a seguitarla. E avviene che ogni venerdì in su questa ora io la giungo qui e qui ne fo lo strazio che vederai; e gli altri dì non credere che noi riposiamo, ma giungola in altri luoghi ne’ quali ella crudelmente contro a me pensò o operò; e essendole d’amante divenuto nemico, come tu vedi, me la conviene in questa guisa tanti anni seguitar quanti mesi ella fu contro a me crudele. Adunque lasciami la divina giustizia mandare a essecuzione, né ti volere opporre a quello a che tu non potresti contrastare». Nastagio, udendo queste parole, tutto timido divenuto e quasi non avendo pelo addosso che arricciato non fosse, tirandosi adietro e riguardando alla misera giovane, cominciò pauroso a aspettare quello che facesse il cavaliere; il quale, finito il suo ragionare, a guisa d’un cane rabbioso con lo stocco in mano corse addosso alla giovane, la quale inginocchiata e da’ due mastini tenuta forte gli gridava mercé, e a quella con tutta sua forza diede per mezzo il petto e passolla dall’altra parte. Il qual colpo come la giovane ebbe ricevuto, così cadde boccone sempre piagnendo e gridando: e il cavaliere, messo mano a un coltello, quella aprì nelle reni, e fuori trattone il cuore e ogni altra cosa da torno, a’ due mastini il gittò, li quali affamatissimi incontanente il mangiarono. Né stette guari che la giovane, quasi niuna di queste cose stata fosse, subitamente si levò in piè e cominciò a fuggire verso il mare, e i cani appresso di lei sempre lacerandola: e il cavaliere, rimontato a cavallo e ripreso il suo stocco, la cominciò a seguitare, e in picciola ora si dileguarono in maniera che più Nastagio non gli poté vedere.

La trovata di Nastagio e la conclusione “onorevole”

34)                      Nastagio, dopo essere stato per un po’ tra pietoso e pauroso, capisce di poter sfruttare l’informazione a proprio vantaggio. Per il venerdì successivo fa apparecchiare proprio in quel punto un grande banchetto, cui invita parenti, amici e tutta la famiglia Traversari. La bella da lui amata, quindi, assiste alla scena raccapricciante, ascolta la spiegazione del cavaliere e non può non riconoscere che la stessa sorte della fanciulla dannata sarà riservata a lei, se continuerà a rifiutare il suo amore a Nastagio. Pertanto nottetempo gli manda una sua cameriera per fargli sapere che ella era presta di far tutto ciò che fosse piacer di lui. Nastagio se ne rallegra, ma risponde che con onor di lei voleva il suo piacere, e questo era sposandola per moglie. Lei acconsente e la storia si conclude con il lieto fine del matrimonio cui fa seguito una lunga vita felice.

La visione è simile a quella di Passavanti, ma il senso è contrario

35)                      E dunque qui la caccia infernale ha una funzione esattamente opposta a quella che aveva nell’exemplum di Passavanti. Là doveva insegnare che cedere alla passione amorosa è un peccato degno, dopo la morte, delle pene più terribili; in Boccaccio, al contrario, è la ritrosia in amore ad essere indicata come degna del castigo divino, e la visione serve a persuadere le donne che è bene accondiscendere alla richiesta d’amore. E’ vero infatti che, come si dice chiaramente, la donna è punita per aver causato il suicidio dell’innamorato respinto e per essersene compiaciuta; ma dal senso complessivo della novella, avvalorato dalla stessa conclusione, si capisce bene che tale aspetto passa in secondo piano (come l’uxoricidio nell’exemplum di Passavanti) rispetto a quello dell’amore negato.

Ritornano gli ideali cortesi teorizzati da Andrea

36)                      E’ evidente che Boccaccio ha innestato sul modello cristiano della caccia tragica rappresentato da Passavanti, elementi che provenivano da tutt’altra tradizione, e precisamente da quella che fa capo al De amore di Andrea Cappellano. Qualche osservazione basterà a dimostrarlo. Anzitutto, i protagonisti della novella si muovono in un mondo che richiama alla memoria, col nome stesso delle famiglie degli Onesti, dei Traversari e degli Anastagi, ambienti di gioiosa e raffinata cortesia; e cortesi sono i modi di Nastagio, sia perché ama una donna di condizione sociale superiore alla sua (troppo più nobile che esso non era), come espressamente raccomandato da Andrea, sia perché, per amore, conduce la più bella vita e la più magnifica che mai si facesse. Nastagio infatti segue il precetto della liberalità (largueza, in lingua d’oc), fondamentale per un amante cortese, secondo cui si deve evitare l’avarizia e usare con generosità la propria ricchezza: un precetto anche questo raccomandato nel De amore e ripetutamente esaltato nella letteratura cortese, sia francese che provenzale.

La luce, la stagione, il paesaggio e la prevalenza del naturale

37)                      Entrando nel dettaglio, non solo l’ora meridiana (di cui s’è già detto), ma anche la stagione primaverile e il paesaggio ameno della pineta, che fanno da sfondo alla visione di Nastagio, ne indicano l’affinità con la visione del cavaliere nel libro di Andrea; e il tutto, in Boccaccio, contribuisce a mitigare l’orrore della scena. Al contrario, l’atmosfera cupa e tenebrosa, propria della predica di Passavanti, intendeva senz’altro accentuare quell’orrore.

38)                      Quanto alla scena in sé, è vero che il cacciatore è altrettanto spietato e violento (la caccia è altrettanto "tragica") in ambedue le visioni, di Nastagio e del carbonaio di Niversa: ma mentre in Passavanti la distanza dal quotidiano è volutamente marcata con l’insistenza sul soprannaturale (si pensi a quel cavallo e quel cavaliere che spirano fuoco dagli occhi, dal naso e dalla bocca) e sul sangue (cadendo in terra con molto spargimento di sangue, la riprese per l’insanguinati capelli), in Boccaccio il soprannaturale è limitato, per così dire, allo stretto necessario (la rinascita della donna dopo lo squartamento), ed anche l’opera del cacciatore, pur con i suoi particolari raccapriccianti, è tutto sommato riconducibile alla quotidianità di un lavoro da macelleria (il coltello sembra maneggiato con una certa professionalità, quando il cacciatore dice aprola per ischiena, e quel cuor... con l’altre interiora insieme... le caccio di corpo e dolle mangiare a questi cani ; e poi, di fatto, quella aprì nelle reni, e fuori trattone il cuore e ogni altra cosa dattorno, a’ due mastini il gittò). Del resto, quel banchetto preparato da Nastagio con cura e raffinatezza (fece le tavole mettere sotto i pini dintorno..., fatti mettere gli uomini e le donne a tavola..., essendo adunque venuta l’ultima vivanda...) fa pensare ad una cortese brigata che si accinge ad assistere ad un piacevole spettacolo, ancorché a tinte forti, invece che ad una terribile visione: tutt’altra atmosfera rispetto a quella, paurosa ed angosciante, che incombe sul conte e il carbonaio di Niversa in attesa dell’evento.

Una sensibilità non più medievale non avverte la presenza del divino

39)                      Se ne può concludere, insomma, che Boccaccio tratta quel materiale medievale con una sensibilità che non è più medievale, non solo perché rovescia beffardamente le funzione di un exemplum edificante, ma anche perché, coi modi stessi della narrazione, dimostra di non avvertire, se non pretestuosamente, la presenza del divino (e del diabolico) nelle vicende terrene. Così come, circa un secolo e mezzo prima, non l’avvertiva Andrea Cappellano, il quale, altrettanto pretestuosamente, per trattare d’amore si era servito del soprannaturale.

L’etica cortese corretta alla luce dell’etica borghese

40)                      Nel tramonto del Medioevo, è dunque la voce di Andrea che torna a farsi sentire. Ma l’etica cortese, cui Andrea aveva dato sistemazione nel suo trattato, viene rivisitata e corretta alla luce dell’etica borghese, ormai trionfante nella società cui Boccaccio appartiene. Si pensi, ad esempio, a una certa aura di negatività che nella novella, a dispetto del precetto cortese della liberalità, si riverbera da quello spendere smisuratamente di Nastagio (talché, come si dice nella novella, i suoi parenti temono per il patrimonio);[1] o anche, ed è elemento davvero vistoso, alla scelta finale del matrimonio ‘onorevole’, che contraddice seccamente quella precettistica. Bisognerà appunto considerare che Boccaccio, per quanto guardi con sincera nostalgia alle idealità di un mondo ormai lontano, è pur sempre l’interprete di una società (borghese) in cui si sono imposti altri valori, si rivolge ad un pubblico per il quale il lieto fine non può essere dissociato dall’amministrazione oculata del patrimonio e dal rispetto delle convenienze sociali. Si potrebbe dire che etica cortese ed etica borghese si sono alleate, individuando nell’etica cristiana il comune nemico

L’amore non è peccato, ma forza incomprimibile della natura

41)                      In altre parole, riconoscere il tono parodistico della novella di Nastagio (che certamente esiste) non vuol dire negare a Boccaccio l’intenzione consapevole (del resto evidente in tanti luoghi del Decamerone) di sottrarre l’amore al regno del peccato per collocarlo in quello dei bisogni naturali dell’uomo. Passavanti è lontano, ma è lontano anche Dante. L’amore terreno non è più esecrato come causa di dannazione, ma nemmeno è liberato dal peso della sua materialità perché possa indirizzarsi al cielo: è semplicemente accettato come una forza incomprimibile della natura, che determina, al pari e più di altre, i comportamenti dell’uomo.

Anche qui Boccaccio anticipa la nuova concezione del Rinascimento

42)                      E naturalmente non desta meraviglia che a tale mutamento di prospettiva dia voce un autore così rappresentativo di quell’età di transizione in cui comincia ad affermarsi una nuova concezione dell’uomo e del mondo.

Due riprese nel Rinascimento

43)                      Non sarà un caso se alla fine del Quattrocento, Botticelli - che pure opera in un ambiente di alta spiritualità quale quello neo-platonico della corte di Lorenzo de’ Medici - illustrerà proprio la novella di Nastagio in quattro tavolette destinate a decorare la cassa da corredo per una sposa; e se in pieno Rinascimento, Ariosto, visibilmente riallacciandosi a quella tradizione che risaliva ad Andrea Cappellano, immaginerà, nel suo Orlando Furioso, punite all’inferno, ancora una volta, le donne che non vollero amare ed essere amate.

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