sabato 31 ottobre 2015

Virgilio: la profezia sul destino di Roma

Eneide (VI, vv. 752-759, 788-800, 847-853)
 
Dixerat Anchises natumque unaque Sibyllam
conventus trahit in medios turbamque sonantem,
et tumulum capit unde omnis longo ordine posset
adversos legere et venientum discere vultus.
Nunc age, Dardaniam prolem quae deinde sequatur
gloria, qui maneant Itala de gente nepotes,
inlustris animas nostrumque in nomen ituras,
expediam dictis, et te tua fata docebo.
(……………………………………..)
Huc geminas nunc flecte acies, hanc aspice gentem
Romanosque tuos.
Hic Caesar et omnis Iuli
progenies magnum caeli ventura sub axem.
Hic vir, hic est, tibi quem promitti saepius audis,
Augustus Caesar, divi genus, aurea condet
saecula qui rursus Latio regnata per arva
Saturno quondam, super et Garamantas et Indos
proferet imperium; iacet extra sidera tellus,
extra anni solisque vias, ubi caelifer Atlas
axem umero torquet stellis ardentibus aptum.
Huius in adventum iam nunc et Caspia regna
responsis horrent divum et Maeotia tellus,
et septemgemini turbant trepida ostia Nili.
(……………………………………….)
Excudent alii spirantia mollius aera
credo equidem, vivos ducent de marmore vultus,
orabunt causas melius, caelique meatus
describent radio et surgentia sidera dicent:
tu regere imperio populos, Romane, memento
hae tibi erunt artes, pacique imponere morem,
parcere subiectis et debellare superbos.”
 
Traduzione
 
Dopo aver detto queste cose, Anchise conduce il figlio insieme alla Sibilla in mezzo ai gruppi ed alla rumorosa folla di anime e raggiunge un'altura donde potesse passare in rassegna tutti coloro che in lungo ordine gli stavano di fronte e riconoscere il volto delle anime che venivano. “Ecco, ora ti spiegherò con le parole quale gloria raggiungerà in futuro la prole di Dardano, quali discendenti rimarranno della gente italica, anime illustri destinate a portare il nostro nome e ti ammaestrerò sui tuoi destini.
(………………………………………………………..)
Ora volgi qua i tuoi occhi, guarda questa gente e i tuoi Romani. Qui Cesare e tutta la discendenza di Iulo che verrà sotto l'ampia volta del cielo; questo è l'uomo. Questo è colui che molto spesso ti senti promettere, Cesare Augusto, figlio del Divo, che di nuovo riporterà nel Lazio il secolo d'oro per i campi un tempo dominati da Saturno ed estenderà il suo dominio sui Garamanti (1) e sugli Indi, sulle terre che si estendono oltre le vie dell'anno e del sole, fin dove Atlante (2) reggitore del cielo regge sulle spalle la volta celeste cosparsa di stelle ardenti. Già ora per il suo arrivo rabbrividiscono i regni del Caspio e la terra Meotica (3) per i responsi degli dèi e si turbano le trepide foci del Nilo dalle sette ramificazioni.
(………………………………………………………)
Altri foggeranno più elegantemente statue di bronzo che sembrano vive (lo credo davvero) scolpiranno nel marmo volti che sembrano vivi, patrocineranno meglio le cause e descriveranno col compasso le vie del cielo e prediranno il corso degli astri: tu, o Romano, ricordati di governare col tuo imperio i popoli (queste saranno le tue arti) e di dettare le condizioni di pace, risparmiare chi si sottomette e debellare i superbi.
_________________
 
(1) Popolazione nomade del deserto libico.
(2) Uno dei giganti, figlio di Giove. In quanto ribelle, fu condannato a sostenere la volta celeste. Dà il nome alla catena di monti del nord-Africa.
(3) Indica la attuale regione del mar d’Azov, presso la Crimea.
 
 
 
 

Virgilio: l'elogio della vita campestre

dalle Georgiche (II, 458-535)

O fortunatos nimium, sua si bona norint,
agricolas! quibus ipsa procul discordibus armis
fundit humo facilem victum iustissima tellus.              
Si non ingentem foribus domus alta superbis
mane salutantum totis vomit aedibus undam,
nec varios inhiant pulchra testudine postis
inlusasque auro vestis Ephyreiaque aera,
alba neque Assyrio fucatur lana veneno,              
nec casia liquidi corrumpitur usus olivi;
at secura quies et nescia fallere vita,
dives opum variarum, at latis otia fundis,
speluncae vivique lacus, at frigida tempe
mugitusque boum mollesque sub arbore somni              
non absunt; illic saltus ac lustra ferarum
et patiens operum exiguoque adsueta iuventus,
sacra deum sanctique patres; extrema per illos
Iustitia excedens terris vestigia fecit.
     Me vero primum dulces ante omnia Musae,              
quarum sacra fero ingenti percussus amore,
accipiant caelique vias et sidera monstrent,
defectus solis varios lunaeque labores;
unde tremor terris, qua vi maria alta tumescant
obicibus ruptis rursusque in se ipsa residant,              
quid tantum Oceano properent se tingere soles
hiberni, vel quae tardis mora noctibus obstet.
Sin has ne possim naturae accedere partis
frigidus obstiterit circum praecordia sanguis,
rura mihi et rigui placeant in vallibus amnes,              
flumina amem silvasque inglorius. O ubi campi
Spercheosque et virginibus bacchata Lacaenis
Taygeta! O qui me gelidis convallibus Haemi
sistat, et ingenti ramorum protegat umbra!
Felix qui potuit rerum cognoscere causas              
atque metus omnis et inexorabile fatum
subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari:
fortunatus et ille deos qui novit agrestis
Panaque Silvanumque senem Nymphasque sorores.
illum non populi fasces, non purpura regum              
flexit et infidos agitans discordia fratres,
aut coniurato descendens Dacus ab Histro,
non res Romanae perituraque regna; neque ille
aut doluit miserans inopem aut invidit habenti.
Quos rami fructus, quos ipsa volentia rura              
sponte tulere sua, carpsit, nec ferrea iura
insanumque forum aut populi tabularia vidit.
Sollicitant alii remis freta caeca, ruuntque
in ferrum, penetrant aulas et limina regum;
hic petit excidiis urbem miserosque penatis,              
ut gemma bibat et Sarrano dormiat ostro;
condit opes alius defossoque incubat auro;
hic stupet attonitus rostris, hunc plausus hiantem
per cuneos geminatus enim plebisque patrumque
corripuit; gaudent perfusi sanguine fratrum,              
exsilioque domos et dulcia limina mutant
atque alio patriam quaerunt sub sole iacentem.
Agricola incurvo terram dimovit aratro:
hic anni labor, hinc patriam parvosque nepotes
sustinet, hinc armenta boum meritosque iuvencos.              
nec requies, quin aut pomis exuberet annus
aut fetu pecorum aut Cerealis mergite culmi,
proventuque oneret sulcos atque horrea vincat.
Venit hiems: teritur Sicyonia baca trapetis,
glande sues laeti redeunt, dant arbuta silvae;              
et varios ponit fetus autumnus, et alte
mitis in apricis coquitur vindemia saxis.
Interea dulces pendent circum oscula nati,
casta pudicitiam servat domus, ubera vaccae
lactea demittunt, pinguesque in gramine laeto             
inter se adversis luctantur cornibus haedi.
Ipse dies agitat festos fususque per herbam,
ignis ubi in medio et socii cratera coronant,
te libans, Lenaee, vocat pecorisque magistris
velocis iaculi certamina ponit in ulmo,              
corporaque agresti nudant praedura palaestra.
Hanc olim veteres vitam coluere Sabini,
hanc Remus et frater; sic fortis Etruria crevit
scilicet et rerum facta est pulcherrima Roma,
septemque una sibi muro circumdedit arces


Traduzione

O agricoltori anche troppo fortunati se solo conoscessero i loro beni! Per loro spontaneamente, lontano dalla discordia delle armi, la terra giustissima offre dal suolo facile sostentamento. Se l'alto palazzo dalle superbe porte non versa uno stuolo immenso di salutatori mattutini da tutte le sue porte, se (gli agricoltori) non bramano a bocca aperta, battenti variamente intarsiati di bella tartaruga, vesti ricamate in oro e bronzi di Corinto, se la bianca lana non è colorata con la porpora assira e l'uso dell'olio limpido non è guastato dalla cannella, ma invece non mancano una pace sicura e una vita che non conosce inganni, ricca di beni diversi, non mancano il riposo nei poderi, spelonche e laghi naturali e fresche vallate amene, e muggiti di buoi e molli sonni al riparo di un albero. Lì vi sono balze e tane di animali selvatici, una gioventù operosa e abituata al poco, non manca il culto per gli dei e la venerazione per i genitori: fra loro la Giustizia segnò le sue ultime impronte quando abbandonò la terra. Invero, in primo luogo, le Muse dolci più di tutto, di cui io porto le sacre insegne colpito d'amore immenso, mi accolgano mostrandomi le vie del cielo e le stelle, le eclissi diverse del sole e le fasi della luna, l'origine dei terremoti, quale forza rigonfi i mari profondi spezzando gli argini e poi tornando in se stessi, perché tanto si affrettino a bagnarsi nell'Oceano i soli invernali, o quale indugio pesi sulle notti lenti a trascorrere. Se invece il sangue, freddo intorno al mio cuore, impedirà che io possa avvicinarmi a questi aspetti della natura, piacciano a me le campagne e i fiumi che irrigano le vallate, possa io amare anche senza gloria le selve ed i corsi d'acqua. Oh, dove sono le pianure e lo Sperchèo e le cime del Taigeto percorse in riti bacchici dalle vergini spartane! Oh, chi mi porterà tra le gelidi valli dell'Emo e mi riparerà con l'enorme ombra dei rami! Felice chi ha potuto investigare le cause delle cose e mettere sotto i piedi tutte le paure, il fato inesorabile, lo strepito dell'avido Acheronte. Fortunato anche colui che conosce gli dei agricoli, Pan e il vecchio Silvano e le Ninfe sorelle. Quell'uomo non possono turbare i fasci popolari, né la porpora dei re né la discordia che inquieta i fratelli che si tradiscono o i Daci che calano dal Danubio una volta fatta un'alleanza, non le vicende di Roma e i regni condannati a morire; e quello non si duole avendo pietà per il povero né invidia il ricco. Coglie i frutti che i rami, i campi generosi spontaneamente producono e ignora le leggi severe, le insanie del foro, i pubblici archivi. Ma c'è chi tormenta coi remi mari ignoti e con le armi in pugno penetra nelle corti, nelle stanze dei re; fa strage nelle città e nelle povere case, per bere in una tazza preziosa, dormire sulla porpora di Tiro; o accumula ricchezze vegliando sull'oro sepolto; o si stupisce attonito davanti ai rostri, s'incanta rapito dall'applauso comune di popolo e patrizi che si leva a teatro; e chi cosparso di sangue fraterno si rallegra e muta la casa, la dolce terra con l'esilio cercando nuova patria sotto un altro sole. Curvo sull'aratro l'agricoltore smuove la terra: questa la sua fatica; e così nutre la casa, i figli, gli armenti di buoi, i giovenchi. Non vi è mai riposo: ogni giorno dell'anno trabocca di frutti, di nati del bestiame, di covoni di frumento e nei solchi si accumula il raccolto, al suo peso cedono i granai. Viene l'inverno: l'oliva si rompe nei frantoi, sazi di ghiande tornano i maiali, le selve si riempiono di bacche e l'autunno depone tutti i suoi frutti: al sole dolce matura l'uva sulle rocce. Pendono teneri i figli intorno ai baci e la casa conserva puro il suo pudore; seni gonfi di latte porgono le vacche e capretti robusti sull'erba folta lottano tra loro con le corna. Nei giorni di festa il contadino riposa e sdraiato sul prato intorno al fuoco, dove i compagni incoronano il cratere, alzando il bicchiere t'invoca, Leneo; pone ai pastori per la gara delle frecce il bersaglio su un olmo, e i corpi induriti si spogliano per una lotta rusticana. Questa vita condussero un tempo gli antichi Sabini e  Remo e il fratello, così crebbe forte l'Etruria e Roma divenne la più bella città del mondo, e sola circondò con un muro i suoi sette colli.

Virgilio: la fine dell'età dell'oro

dalle Georgiche (I, 118-146)
 
Nec tamen, haec cum sint hominumque boumque labores
versando terram experti, nihil improbus anser
Strymoniaeque grues et amaris intiba fibris             
officiunt aut umbra nocet. Pater ipse colendi
haud facilem esse viam voluit, primusque per artem
movit agros, curis acuens mortalia corda
nec torpere gravi passus sua regna veterno.
Ante Iovem nulli subigebant arva coloni:            
ne signare quidem aut partiri limite campum
fas erat; in medium quaerebant, ipsaque tellus
omnia liberius nullo poscente ferebat.
Ille malum virus serpentibus addidit atris
praedarique lupos iussit pontumque moveri,             
mellaque decussit foliis ignemque removit
et passim rivis currentia vina repressit,
ut varias usus meditando extunderet artis
paulatim, et sulcis frumenti quaereret herbam,
ut silicis venis abstrusum excuderet ignem.            
Tunc alnos primum fluvii sensere cavatas;
navita tum stellis numeros et nomina fecit
Pleiadas, Hyadas, claramque Lycaonis Arcton.
Tum laqueis captare feras et fallere visco
inventum et magnos canibus circumdare saltus;      
atque alius latum funda iam verberat amnem
alta petens, pelagoque alius trahit umida lina.
tum ferri rigor atque argutae lammina serrae
(nam primi cuneis scindebant fissile lignum),
tum variae venere artes.
Labor omnia vicit             
improbus et duris urgens in rebus egestas.
 
Traduzione
 
E tuttavia, nonostante la fatica di uomini e buoi nel voltare e rivoltare la terra, bastano a procurarle danno un'oca ingorda o le gru della Tracia, le radici amare della cicoria o (l'ingiuria del)l'ombra. Volle lo stesso padre degli dei che non fosse facile la via all'agricoltura e per primo impose di dissodare ad arte i campi, aguzzando con queste preoccupazioni l'ingegno dei mortali, per impedire che il suo regno intorpidisse in un letargo insopportabile. Prima di Giove non v'erano contadini che coltivassero la terra, né era lecito delimitare i campi tracciando confini: tutto era in comune e la terra, senza che le fosse richiesto, produceva spontaneamente e con generosità ogni cosa. Fu Giove che fornì alla malignità dei serpenti il veleno per nuocere, che indusse i lupi a vivere di preda, il mare ad agitarsi, che spogliò del miele le foglie, nascose il fuoco e seccò i ruscelli di vino che scorrevano ovunque, perché l'esperienza, con la riflessione, facesse nascere le diverse arti, ottenesse coi solchi gli steli del frumento e dalle vene della selce facesse sprizzare il fuoco nascosto. Allora per la prima volta chiglie d'ontano solcarono i fiumi; allora il navigante annoverò e nominò le stelle, le Pleiadi, le Íadi e l'Orsa di Licàone che risplende in cielo; allora si inventò il modo di catturare coi lacci la selvaggina, d'ingannarla col vischio e di accerchiare coi cani grandi radure. Ormai v'è chi frusta il fiume col giacchio, scandagliandone il fondale, e chi dal mare ritira gocciolanti le reti. Si affermarono allora la durezza del ferro, la lama stridula della sega (prima gli uomini spaccavano il legno fendendolo con cunei) e le diverse arti. La fatica ostinata e le necessità, che urgono in circostanze difficili, vinsero tutto.

mercoledì 28 ottobre 2015

La nostalgia della campagna nell'ecloga I di Virgilio

                     Meliboeus

Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi
silvestrem tenui Musam meditaris avena;
nos patriae fines et dulcia linquimus arva.
nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra
formosam resonare doces Amaryllida silvas.               5

                         Tityrus

O Meliboee, deus nobis haec otia fecit.
namque erit ille mihi semper deus, illius aram
saepe tener nostris ab ovilibus imbuet agnus.
ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum
ludere quae vellem calamo permisit agresti.               10

                         Meliboeus

Non equidem invideo, miror magis; undique totis
usque adeo turbatur agris. en ipse capellas
protenus aeger ago; hanc etiam vix, Tityre, duco.
hic inter densas corylos modo namque gemellos,
spem gregis, a, silice in nuda conixa reliquit.               15
saepe malum hoc nobis, si mens non laeva fuisset,
de caelo tactas memini praedicere quercus.
sed tamen iste deus qui sit da, Tityre,nobis.

                         Tityrus

Urbem quam dicunt Romam, Meliboee, putavi
stultus ego huic nostrae similem, cui saepe solemus               20
pastores ovium teneros depellere fetus.
sic canibus catulos similes, sic matribus haedos
noram, sic parvis componere magna solebam.
verum haec tantum alias inter caput extulit urbes
quantum lenta solent inter viburna cupressi.               25

                         Meliboeus

Et quae tanta fuit Romam tibi causa videndi?

                         Tityrus

Libertas, quae sera tamen respexit inertem,
candidior postquam tondenti barba cadebat,
respexit tamen et longo post tempore venit,
postquam nos Amaryllis habet, Galatea reliquit.               30
namque - fatebor enim - dum me Galatea tenebat,
nec spes libertatis erat nec cura peculi.
quamvis multa meis exiret victima saeptis
pinguis et ingratae premeretur caseus urbi,
non umquam gravis aere domum mihi dextra redibat.               35

                         Meliboeus

Mirabar quid maesta deos, Amarylli, vocares,
cui pendere sua patereris in arbore poma.
Tityrus hinc aberat. ipsae te, Tityre, pinus,
ipsi te fontes, ipsa haec arbusta vocabant.

                         Tityrus

Quid facerem? neque servitio me exire licebat               40
nec tam praesentis alibi cognoscere divos.
hic illum vidi iuvenem, Meliboee, quot annis
bis senos cui nostra dies altaria fumant,
hic mihi responsum primus dedit ille petenti:
'pascite ut ante boves, pueri, submittite tauros.'               45

                         Meliboeus

Fortunate senex, ergo tua rura manebunt
et tibi magna satis, quamvis lapis omnia nudus
limosoque palus obducat pascua iunco.
non insueta gravis temptabunt pabula fetas
nec mala vicini pecoris contagia laedent.               50
fortunate senex, hic inter flumina nota
et fontis sacros frigus captabis opacum;
hinc tibi, quae semper, vicino ab limite saepes
Hyblaeis apibus florem depasta salicti
saepe levi somnum suadebit inire susurro;               55
hinc alta sub rupe canet frondator ad auras,
nec tamen interea raucae, tua cura, palumbes
nec gemere aeria cessabit turtur ab ulmo.

                         Tityrus

Ante leves ergo pascentur in aethere cervi
et freta destituent nudos in litore pisces,               60
ante pererratis amborum finibus exsul
aut Ararim Parthus bibet aut Germania Tigrim,
quam nostro illius labatur pectore vultus.

                         Meliboeus

At nos hinc alii sitientis ibimus Afros,
pars Scythiam et rapidum cretae veniemus Oaxen               65
et penitus toto divisos orbe Britannos.
en umquam patrios longo post tempore finis
pauperis et tuguri congestum caespite culmen,
post aliquot, mea regna, videns mirabor aristas?
impius haec tam culta novalia miles habebit,               70
barbarus has segetes. en quo discordia civis
produxit miseros; his nos consevimus agros!
insere nunc, Meliboee, piros, pone ordine vites.
ite meae, felix quondam pecus, ite capellae.
non ego vos posthac viridi proiectus in antro               75
dumosa pendere procul de rupe videbo;
carmina nulla canam; non me pascente, capellae,
florentem cytisum et salices carpetis amaras.

                         Tityrus

Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem
fronde super viridi. sunt nobis mitia poma,               80
castaneae molles et pressi copia lactis,
et iam summa procul villarum culmina fumant
maioresque cadunt altis de montibus umbrae.

Traduzione
 
Melibeo: O Titiro, tu, disteso sotto la volta di un ampio faggio, moduli una silvestre melodia su sottile zampogna; noi lasciamo le terre dei padri e i dolci campi; noi abbandoniamo la patria; tu, Titiro, adagiato nell’ombra, insegni alle selve a ripetere il nome d’Amarillide bella.
Titiro: O Melibeo, un Dio mi ha donato questa pace (lett.: ha fatto per me quest’ozio): e per me almeno, egli sarà sempre un Dio; spesso un tenero agnello (uscito) dai miei ovili (lett.: dai nostri ovili) intriderà (del suo sangue) l’altare di lui; egli permise che le mie giovenche continuassero a pascolare, come vedi, e che anch’io potessi cantare quel che volevo su agreste zampogna.
Melibeo: Non (ti) invidio di certo, piuttosto sono stupito: a tal punto vi è ovunque scompiglio per tutti i campi. Ecco, anch’io, afflitto, spingo innanzi le caprette; e anche questa, o Titiro, (la) trascino a stento; infatti, poco fa, fra i folti noccioli, ha partorito ed ha abbandonato (lett.: ha lasciato dopo essersi sgravata), ahi! sulla nuda pietra due capretti, speranza del gregge. Spesso questa sventura, mi ricordo che le querce colpite dal fulmine ce la predissero, se solo la mente non fosse stata sciocca. Ma, tuttavia, o Titiro, dicci  quale sia questo Dio.
Titiro: La città che chiamano Roma, o Melibeo, io stolto credetti che fosse simile a questa nostra, dove spesso noi pastori siamo soliti portare i teneri agnelli (lett.: i teneri parti delle pecore). Così io sapevo che i cuccioli sono simili ai cani, così i capretti alle madri, così ero solito paragonare le cose grandi alle piccole. Questa città, invece, di tanto ha innalzato il capo tra le altre, di quanto sono soliti (innalzarsi) i cipressi fra i flessuosi viburni.
Melibeo: E quale ragione così grave avesti per (lett.: di) vedere Roma? [oppure: E quale fu per te il motivo così importante di vedere Roma?].
Titiro: La libertà che, pur tardiva, tuttavia mi guardò, mentre non me ne curavo (lett.: guardò me inerte), dopo che nel raderla (lett.: a me che la radevo), la barba mi cadeva più bianca; mi guardò tuttavia e dopo lungo tempo venne, da quando mi tiene Amarillide (e) Galatea mi ha lasciato. Infatti, devo pur confessarlo (lett.: lo confesserò), finché mi teneva Galatea, non c’era né speranza di libertà, né cura del risparmio. Sebbene molte bestie da macello uscissero dai miei recinti, e grasso formaggio fosse pressato per l’ingrata città, mai la mia destra ritornava a casa colma di denaro.
Melibeo: Mi chiedevo perché mesta invocassi gli Dei, o Amarillide, per chi tu lasciassi pendere sugli alberi i frutti; Titiro era lontano da qui; perfino i pini, Titiro, perfino le sorgenti, perfino questi arbusti ti chiamavano.
Titiro: Che avrei dovuto fare? Altrove non mi era possibile liberarmi della schiavitù, né conoscere dèi così propizi. Lì ho visto quel giovane, o Melibeo, per il quale i miei altari fumano dodici giorni ogni anno. Là egli, per primo, diede (questa) risposta a me che (la) chiedevo: ”Pascolate come prima i buoi, ragazzi, aggiogate i tori”.
Melibeo: O fortunato vecchio, allora i campi resteranno tuoi. E per te grandi abbastanza, anche se la nuda pietra e la palude con il limaccioso giunco invadano tutti i pascoli; non insidieranno le pecore pregne inconsueti pascoli, né faranno loro del male i pericolosi contagi del vicino bestiame; fortunato vecchio, qui fra noti torrenti e sacre fonti godrai l’ombrosa frescura; da una parte la siepe di sempre dal vicino confine, succhiata dalle api Iblee nel fiore del salice spesso t’inviterà ad entrare nel sonno con il lieve sussurro: dall’altra il potatore canterà ai venti sotto un’alta rupe, né tuttavia nel frattempo le rauche colombe, tua cura, né la tortora, cesseranno di gemere dalla cima dell’olmo.
Titiro: Dunque i cervi pascoleranno leggeri nell’aria e i flutti abbandoneranno i pesci nudi sulla spiaggia, il Parto esule berrà l’Arar e la Germania il Tigri, dopo aver percorso i territori di entrambi, prima che il volto di lui si dilegui dal mio (lett.: nostro) cuore.
Melibeo: Noi, invece, da qui andremo alcuni dagli assetati Africani, parte (andremo) in Scizia e all’Oasse vorticoso di Creta e dai Britanni completamente separati da tutto il mondo. Oh, ammirerò mai rivedendoli [umquamvidens mirabor], dopo lungo tempo [longo post tempore], i confini della patria (oppure: i patri territori) e il tetto della mia povera capanna fatto di zolle, mio regno, dopo qualche anno [post aliquot aristas = dopo qualche raccolto]? Un empio soldato avrà questi maggesi così ben coltivati, un barbaro, queste messi. Ecco dove la discordia ha condotto i miseri cittadini: per questi noi abbiamo seminato i campi! Innesta ora, o Melibeo, i peri, disponi in filari le viti. Andate mie caprette, andate, gregge un tempo felice. Io non vi vedrò, d’ora in poi, pendere di lontano da una rupe piena di cespugli, sdraiato in un verde antro; non canterò nessun carme; o caprette, non brucherete sotto la mia guida di pastore (lett.: portandovi io al pascolo) il citiso in fiore e i salici amari.
Titiro: Tuttavia avresti potuto riposarti qui con me questa notte sopra un verde giaciglio di fronde (lett.: verde fogliame); abbiamo frutti maturi, tenere castagne e abbondanza di latte rappreso e già i comignoli delle case fumano di lontano e le ombre scendono più lunghe giù dagli alti monti [oppure: dalle cime dei monti].
 
      N.B. : dei versi 67-69 sono state proposte altre interpretazioni:
      En umquam patrios longo post tempore finis
      pauperis et tuguri congestum caespite culmen,
      post aliquot mea regna videns mirabor aristas?
 
1.      Oh, ammirerò mai rivedendoli [umquamvidens mirabor], dopo lungo tempo [longo post tempore], i confini della patria (oppure: i patri territori)  e il tetto della mia povera capanna fatto di zolle, mio regno, (spiandoli di nascosto) dietro qualche spiga [post aliquot aristas]?
2.      Oh, ammirerò mai [umquam mirabor], dopo lungo tempo [longo post tempore], i confini della patria (oppure: i patri territori) e il tetto della mia povera capanna fatto di zolle, (ammirerò mai) delle spighe [aristas], vedendo dopo qualche tempo [post aliquotvidens] il mio regno?
3.      Oh, ammirerò mai in futuro [umquam miraborpost] un pugno di spighe [aliquot aristas], vedendo dopo lungo tempo [longo post tempore videns] i confini della patria (oppure: i patri territori) e (vedendo) il tetto della mia povera capanna fatto di zolle, (vedendo) il mio regno?
4.      Oh, ammirerò mai in futuro [umquam miraborpost] un pugno di spighe [aliquot aristas],  vedendo dopo lungo tempo [longo post tempore videns] i confini della patria (oppure: i patri territori) e il tetto della mia povera capanna fatto di zolle, mio regno?
 
 

Il mito dell'età dell'oro nell'ecloga IV di Virgilio

Sicelides Musae, paulo maiora canamus.
non omnis arbusta iuvant humilesque myricae;
si canimus silvas, silvae sint consule dignae.
Ultima Cumaei venit iam carminis aetas;
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.               5
iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna,
iam nova progenies caelo demittitur alto.
tu modo nascenti puero, quo ferrea primum
desinet ac toto surget gens aurea mundo,
casta fave Lucina; tuus iam regnat Apollo.               10
Teque adeo decus hoc aevi, te consule, inibit,
Pollio, et incipient magni procedere menses;
te duce, si qua manent sceleris vestigia nostri,
inrita perpetua solvent formidine terras.
ille deum vitam accipiet divisque videbit               15
permixtos heroas et ipse videbitur illis
pacatumque reget patriis virtutibus orbem.
At tibi prima, puer, nullo munuscula cultu
errantis hederas passim cum baccare tellus
mixtaque ridenti colocasia fundet acantho.               20
ipsae lacte domum referent distenta capellae
ubera nec magnos metuent armenta leones;
ipsa tibi blandos fundent cunabula flores.
occidet et serpens et fallax herba veneni
occidet; Assyrium vulgo nascetur amomum.               25
At simul heroum laudes et facta parentis
iam legere et quae sit poteris cognoscere virtus,
molli paulatim flavescet campus arista
incultisque rubens pendebit sentibus uva
et durae quercus sudabunt roscida mella.               30
Pauca tamen suberunt priscae vestigia fraudis,
quae temptare Thetin ratibus, quae cingere muris
oppida, quae iubeant telluri infindere sulcos.
alter erit tum Tiphys et altera quae vehat Argo
delectos heroas; erunt etiam altera bella               35
atque iterum ad Troiam magnus mittetur Achilles.
Hinc, ubi iam firmata virum te fecerit aetas,
cedet et ipse mari vector nec nautica pinus
mutabit merces; omnis feret omnia tellus.
non rastros patietur humus, non vinea falcem,               40
robustus quoque iam tauris iuga solvet arator;
nec varios discet mentiri lana colores,
ipse sed in pratis aries iam suave rubenti
murice, iam croceo mutabit vellera luto,
sponte sua sandyx pascentis vestiet agnos.               45
'Talia saecla' suis dixerunt 'currite' fusis
concordes stabili fatorum numine Parcae.
Adgredere o magnos—aderit iam tempus—honores,
cara deum suboles, magnum Iovis incrementum.
aspice convexo nutantem pondere mundum,               50
terrasque tractusque maris caelumque profundum;
aspice, venturo laetantur ut omnia saeclo.
O mihi tum longae maneat pars ultima vitae,
spiritus et quantum sat erit tua dicere facta:
non me carminibus vincat nec Thracius Orpheus               55
nec Linus, huic mater quamvis atque huic pater adsit,
Orphei Calliopea, Lino formosus Apollo.
Pan etiam, Arcadia mecum si iudice certet,
Pan etiam Arcadia dicat se iudice victum.
Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem;               60
matri longa decem tulerunt fastidia menses.
incipe, parve puer. qui non risere parenti,
nec deus hunc mensa dea nec dignata cubili est.

Traduzione
 
              Muse siciliane, cantiamo argomenti un po’ più elevati:  
non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici;
se cantiamo le selve, le selve siano degne di un console.
È giunta ormai l’ultima età del carme cumano,
v. 5 nasce da capo un grande ciclo di secoli;
già torna la Vergine (e) ritornano i regni di Saturno,
già una nuova progenie viene mandata dall’alto del cielo.
Tu, o casta Lucina, sii favorevole al bambino che ora nasce
con cui per la prima volta cesserà la generazione del ferro
 v. 10 e in tutto il mondo nascerà quella (lett.: la generazione) dell’oro: già regna il tuo Apollo.
Proprio sotto il tuo consolato incomincerà questa età gloriosa (lett.: questa gloria di età),
o Pollione, e incominceranno a trascorrere i grandi mesi;
sotto la tua guida, se rimangono alcune tracce della nostra scelleratezza,
rese vane, libereranno le terre dalla continua paura.
v. 15 Egli riceverà la vita degli dei e vedrà gli eroi mescolati agli dei,
ed egli stesso sarà visto con loro
e reggerà il mondo pacato dalle virtù paterne (oppure: reggerà con le virtù paterne).
Intanto la terra, senza esere coltivata, effonderà per te, o fanciullo,
(quali) primi piccoli doni (oppure: i primi piccoli doni),
edere erranti qua e là col baccare  
v. 20 e la colocasia mista al ridente acanto.
Le caprette da sole riporteranno a casa le mammelle gonfie di latte
e gli armenti non temeranno i grandi leoni.
La culla stessa effonderà per te deliziosi fiori.
Morirà anche il serpente e la ingannevole erba del veleno
v. 25 morirà; dovunque nascerà l’amomo assiro.
Ma non appena potrai leggere le lodi degli eroi e le imprese del padre
e potrai conoscere che cosa (lett.: quale) sia la virtù,
a poco a poco la pianura biondeggerà di flessuose spighe,
dai rovi selvatici penderà la rosseggiante uva
v. 30 e le dure querce trasuderanno rugiadosi mieli.
Rimarranno tuttavia poche tracce dell’antica colpa
che spingeranno (lett.: spingano) a tentare Teti con le navi, a cingere di mura
le città, a tracciare solchi nella terra.
Ci sarà allora un secondo Tifi e una seconda Argo per portare (lett.: che porti)
v. 35 eroi scelti; ci saranno anche altre guerre
e di nuovo il grande Achille sarà mandato a Troia.
Quindi, quando l’età ormai matura ti avrà reso uomo,
si ritirerà anche il navigante spontaneamente né le navi
scambieranno (lett.: il pino nautico scambierà) le merci, ogni terra produrrà tutto.
v. 40 La terra non patirà i rastrelli, la vigna non (patirà) la falce,
anche il robusto aratore toglierà ormai il giogo ai tori;
  e la lana non imparerà a fingere i vari colori,
  ma da solo sui prati l’ariete cambierà il (colore del) vello
  ora con la porpora che rosseggia soave ora con il giallo zafferano;
  v. 45 spontaneamente il sandice rivestirà gli agnelli che pascolano.
  “Filate in fretta tali secoli!” dissero ai loro fusi
  le Parche concordi nello stabile volere dei fati.
  Assurgi ai grandi onori (sarà tempo ormai)
  o cara prole degli dei, grande progenie di Giove,.
  v. 50 Guarda il mondo che annuisce nella (lett.: che si inclina con la)    sua mole convessa
  E le terre e le distese del mare e il cielo profondo;
  guarda come tutte le cose si allietino per il secolo che sta per venire.
  Oh, possa rimanermi l’ultima parte di una lunga vita
  E tanta ispirazione quanta mi sarà sufficiente a cantare le tue imprese!
  v. 55 Non mi vinceranno nel canto  (lett.: nei canti)  né il tracio Orfeo,
  né Lino; sebbene all’uno sia di aiuto la madre, all’altro il padre,
  ad Orfeo Calliope, a Lino il bell’Apollo.
  Anche Pan, se gareggiasse con me, giudice l’Arcadia,
  anche Pan, giudice l’Arcadia, si dichiarerebbe vinto.
  v. 60 Incomincia, piccolo bambino, a riconoscere la madre dal sorriso [oppure: col sorriso]:
  alla madre nove (lett.: dieci) mesi arrecarono lunghe sofferenze.
  Incomincia, piccolo mambino: (colui) al quale non sorrisero i genitori
  né un dio lo degna della (sua) mensa, né una dea del (suo) letto.