mercoledì 28 ottobre 2015

La nostalgia della campagna nell'ecloga I di Virgilio

                     Meliboeus

Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi
silvestrem tenui Musam meditaris avena;
nos patriae fines et dulcia linquimus arva.
nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra
formosam resonare doces Amaryllida silvas.               5

                         Tityrus

O Meliboee, deus nobis haec otia fecit.
namque erit ille mihi semper deus, illius aram
saepe tener nostris ab ovilibus imbuet agnus.
ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum
ludere quae vellem calamo permisit agresti.               10

                         Meliboeus

Non equidem invideo, miror magis; undique totis
usque adeo turbatur agris. en ipse capellas
protenus aeger ago; hanc etiam vix, Tityre, duco.
hic inter densas corylos modo namque gemellos,
spem gregis, a, silice in nuda conixa reliquit.               15
saepe malum hoc nobis, si mens non laeva fuisset,
de caelo tactas memini praedicere quercus.
sed tamen iste deus qui sit da, Tityre,nobis.

                         Tityrus

Urbem quam dicunt Romam, Meliboee, putavi
stultus ego huic nostrae similem, cui saepe solemus               20
pastores ovium teneros depellere fetus.
sic canibus catulos similes, sic matribus haedos
noram, sic parvis componere magna solebam.
verum haec tantum alias inter caput extulit urbes
quantum lenta solent inter viburna cupressi.               25

                         Meliboeus

Et quae tanta fuit Romam tibi causa videndi?

                         Tityrus

Libertas, quae sera tamen respexit inertem,
candidior postquam tondenti barba cadebat,
respexit tamen et longo post tempore venit,
postquam nos Amaryllis habet, Galatea reliquit.               30
namque - fatebor enim - dum me Galatea tenebat,
nec spes libertatis erat nec cura peculi.
quamvis multa meis exiret victima saeptis
pinguis et ingratae premeretur caseus urbi,
non umquam gravis aere domum mihi dextra redibat.               35

                         Meliboeus

Mirabar quid maesta deos, Amarylli, vocares,
cui pendere sua patereris in arbore poma.
Tityrus hinc aberat. ipsae te, Tityre, pinus,
ipsi te fontes, ipsa haec arbusta vocabant.

                         Tityrus

Quid facerem? neque servitio me exire licebat               40
nec tam praesentis alibi cognoscere divos.
hic illum vidi iuvenem, Meliboee, quot annis
bis senos cui nostra dies altaria fumant,
hic mihi responsum primus dedit ille petenti:
'pascite ut ante boves, pueri, submittite tauros.'               45

                         Meliboeus

Fortunate senex, ergo tua rura manebunt
et tibi magna satis, quamvis lapis omnia nudus
limosoque palus obducat pascua iunco.
non insueta gravis temptabunt pabula fetas
nec mala vicini pecoris contagia laedent.               50
fortunate senex, hic inter flumina nota
et fontis sacros frigus captabis opacum;
hinc tibi, quae semper, vicino ab limite saepes
Hyblaeis apibus florem depasta salicti
saepe levi somnum suadebit inire susurro;               55
hinc alta sub rupe canet frondator ad auras,
nec tamen interea raucae, tua cura, palumbes
nec gemere aeria cessabit turtur ab ulmo.

                         Tityrus

Ante leves ergo pascentur in aethere cervi
et freta destituent nudos in litore pisces,               60
ante pererratis amborum finibus exsul
aut Ararim Parthus bibet aut Germania Tigrim,
quam nostro illius labatur pectore vultus.

                         Meliboeus

At nos hinc alii sitientis ibimus Afros,
pars Scythiam et rapidum cretae veniemus Oaxen               65
et penitus toto divisos orbe Britannos.
en umquam patrios longo post tempore finis
pauperis et tuguri congestum caespite culmen,
post aliquot, mea regna, videns mirabor aristas?
impius haec tam culta novalia miles habebit,               70
barbarus has segetes. en quo discordia civis
produxit miseros; his nos consevimus agros!
insere nunc, Meliboee, piros, pone ordine vites.
ite meae, felix quondam pecus, ite capellae.
non ego vos posthac viridi proiectus in antro               75
dumosa pendere procul de rupe videbo;
carmina nulla canam; non me pascente, capellae,
florentem cytisum et salices carpetis amaras.

                         Tityrus

Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem
fronde super viridi. sunt nobis mitia poma,               80
castaneae molles et pressi copia lactis,
et iam summa procul villarum culmina fumant
maioresque cadunt altis de montibus umbrae.

Traduzione
 
Melibeo: O Titiro, tu, disteso sotto la volta di un ampio faggio, moduli una silvestre melodia su sottile zampogna; noi lasciamo le terre dei padri e i dolci campi; noi abbandoniamo la patria; tu, Titiro, adagiato nell’ombra, insegni alle selve a ripetere il nome d’Amarillide bella.
Titiro: O Melibeo, un Dio mi ha donato questa pace (lett.: ha fatto per me quest’ozio): e per me almeno, egli sarà sempre un Dio; spesso un tenero agnello (uscito) dai miei ovili (lett.: dai nostri ovili) intriderà (del suo sangue) l’altare di lui; egli permise che le mie giovenche continuassero a pascolare, come vedi, e che anch’io potessi cantare quel che volevo su agreste zampogna.
Melibeo: Non (ti) invidio di certo, piuttosto sono stupito: a tal punto vi è ovunque scompiglio per tutti i campi. Ecco, anch’io, afflitto, spingo innanzi le caprette; e anche questa, o Titiro, (la) trascino a stento; infatti, poco fa, fra i folti noccioli, ha partorito ed ha abbandonato (lett.: ha lasciato dopo essersi sgravata), ahi! sulla nuda pietra due capretti, speranza del gregge. Spesso questa sventura, mi ricordo che le querce colpite dal fulmine ce la predissero, se solo la mente non fosse stata sciocca. Ma, tuttavia, o Titiro, dicci  quale sia questo Dio.
Titiro: La città che chiamano Roma, o Melibeo, io stolto credetti che fosse simile a questa nostra, dove spesso noi pastori siamo soliti portare i teneri agnelli (lett.: i teneri parti delle pecore). Così io sapevo che i cuccioli sono simili ai cani, così i capretti alle madri, così ero solito paragonare le cose grandi alle piccole. Questa città, invece, di tanto ha innalzato il capo tra le altre, di quanto sono soliti (innalzarsi) i cipressi fra i flessuosi viburni.
Melibeo: E quale ragione così grave avesti per (lett.: di) vedere Roma? [oppure: E quale fu per te il motivo così importante di vedere Roma?].
Titiro: La libertà che, pur tardiva, tuttavia mi guardò, mentre non me ne curavo (lett.: guardò me inerte), dopo che nel raderla (lett.: a me che la radevo), la barba mi cadeva più bianca; mi guardò tuttavia e dopo lungo tempo venne, da quando mi tiene Amarillide (e) Galatea mi ha lasciato. Infatti, devo pur confessarlo (lett.: lo confesserò), finché mi teneva Galatea, non c’era né speranza di libertà, né cura del risparmio. Sebbene molte bestie da macello uscissero dai miei recinti, e grasso formaggio fosse pressato per l’ingrata città, mai la mia destra ritornava a casa colma di denaro.
Melibeo: Mi chiedevo perché mesta invocassi gli Dei, o Amarillide, per chi tu lasciassi pendere sugli alberi i frutti; Titiro era lontano da qui; perfino i pini, Titiro, perfino le sorgenti, perfino questi arbusti ti chiamavano.
Titiro: Che avrei dovuto fare? Altrove non mi era possibile liberarmi della schiavitù, né conoscere dèi così propizi. Lì ho visto quel giovane, o Melibeo, per il quale i miei altari fumano dodici giorni ogni anno. Là egli, per primo, diede (questa) risposta a me che (la) chiedevo: ”Pascolate come prima i buoi, ragazzi, aggiogate i tori”.
Melibeo: O fortunato vecchio, allora i campi resteranno tuoi. E per te grandi abbastanza, anche se la nuda pietra e la palude con il limaccioso giunco invadano tutti i pascoli; non insidieranno le pecore pregne inconsueti pascoli, né faranno loro del male i pericolosi contagi del vicino bestiame; fortunato vecchio, qui fra noti torrenti e sacre fonti godrai l’ombrosa frescura; da una parte la siepe di sempre dal vicino confine, succhiata dalle api Iblee nel fiore del salice spesso t’inviterà ad entrare nel sonno con il lieve sussurro: dall’altra il potatore canterà ai venti sotto un’alta rupe, né tuttavia nel frattempo le rauche colombe, tua cura, né la tortora, cesseranno di gemere dalla cima dell’olmo.
Titiro: Dunque i cervi pascoleranno leggeri nell’aria e i flutti abbandoneranno i pesci nudi sulla spiaggia, il Parto esule berrà l’Arar e la Germania il Tigri, dopo aver percorso i territori di entrambi, prima che il volto di lui si dilegui dal mio (lett.: nostro) cuore.
Melibeo: Noi, invece, da qui andremo alcuni dagli assetati Africani, parte (andremo) in Scizia e all’Oasse vorticoso di Creta e dai Britanni completamente separati da tutto il mondo. Oh, ammirerò mai rivedendoli [umquamvidens mirabor], dopo lungo tempo [longo post tempore], i confini della patria (oppure: i patri territori) e il tetto della mia povera capanna fatto di zolle, mio regno, dopo qualche anno [post aliquot aristas = dopo qualche raccolto]? Un empio soldato avrà questi maggesi così ben coltivati, un barbaro, queste messi. Ecco dove la discordia ha condotto i miseri cittadini: per questi noi abbiamo seminato i campi! Innesta ora, o Melibeo, i peri, disponi in filari le viti. Andate mie caprette, andate, gregge un tempo felice. Io non vi vedrò, d’ora in poi, pendere di lontano da una rupe piena di cespugli, sdraiato in un verde antro; non canterò nessun carme; o caprette, non brucherete sotto la mia guida di pastore (lett.: portandovi io al pascolo) il citiso in fiore e i salici amari.
Titiro: Tuttavia avresti potuto riposarti qui con me questa notte sopra un verde giaciglio di fronde (lett.: verde fogliame); abbiamo frutti maturi, tenere castagne e abbondanza di latte rappreso e già i comignoli delle case fumano di lontano e le ombre scendono più lunghe giù dagli alti monti [oppure: dalle cime dei monti].
 
      N.B. : dei versi 67-69 sono state proposte altre interpretazioni:
      En umquam patrios longo post tempore finis
      pauperis et tuguri congestum caespite culmen,
      post aliquot mea regna videns mirabor aristas?
 
1.      Oh, ammirerò mai rivedendoli [umquamvidens mirabor], dopo lungo tempo [longo post tempore], i confini della patria (oppure: i patri territori)  e il tetto della mia povera capanna fatto di zolle, mio regno, (spiandoli di nascosto) dietro qualche spiga [post aliquot aristas]?
2.      Oh, ammirerò mai [umquam mirabor], dopo lungo tempo [longo post tempore], i confini della patria (oppure: i patri territori) e il tetto della mia povera capanna fatto di zolle, (ammirerò mai) delle spighe [aristas], vedendo dopo qualche tempo [post aliquotvidens] il mio regno?
3.      Oh, ammirerò mai in futuro [umquam miraborpost] un pugno di spighe [aliquot aristas], vedendo dopo lungo tempo [longo post tempore videns] i confini della patria (oppure: i patri territori) e (vedendo) il tetto della mia povera capanna fatto di zolle, (vedendo) il mio regno?
4.      Oh, ammirerò mai in futuro [umquam miraborpost] un pugno di spighe [aliquot aristas],  vedendo dopo lungo tempo [longo post tempore videns] i confini della patria (oppure: i patri territori) e il tetto della mia povera capanna fatto di zolle, mio regno?
 
 

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