lunedì 29 maggio 2023

Verga verista (IX parte)

 

il bell’affare!” nella novella Libertà

1)    Mi piace concludere con un riferimento alla novella Libertà, che è la ricostruzione di una vicenda storica, ovvero dei fatti di Bronte, quando, in occasione della spedizione dei Mille, i contadini (chiamati i “berretti”) insorsero e uccisero non pochi galantuomini (chiamati i “cappelli”). Si ribellavano così ad una secolare oppressione e, peraltro sollecitati da un decreto dello stesso Garibaldi che invitava alla distribuzione delle terre demaniali, intendevano impadronirsi di un po’ di quella terra che avevano lavorato per tutta la vita agli ordini dei padroni.

2)    Ebbene, anche questa ribellione si rivela un “bell’affare!” nel senso sarcastico che abbiamo detto. Gli stessi ribelli, dopo la giornata di violenza contro i galantuomini, non sanno che fare, diffidano l’uno dell’altro, sospettano che niente cambierà e aspettano rassegnati il generaleche veniva a far giustizia”, “quello che faceva tremare la gente. Eppure, per fermare la colonna che saliva verso Bronte “sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse”. Quel generale era Bixio. Leggo il passo che lo riguarda:

     Si vedevano le camice rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.

     Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono… Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schiopettate in fila come i mortaletti della festa. 

3)    E’ una novella molto controversa per il modo in cui Verga ricostruisce il fatto storico. Mi limito a ricordare la critica di Sciascia, che ha accusato Verga di aver voluto screditare gli insorti, presentando, ad esempio, Bixio, che era famoso per essere violento e spietato, ora come una figura epica (quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo), ora come un buon padre (mise a dormire i suoi ragazzi come un padre); tacendo della fucilazione dell’avvocato Lombardo, un intellettuale liberale non responsabile della feroce rivolta e delle uccisioni; e nominando fra i fucilati il “nano”, quando invece si trattava del matto del paese (ed era anche questo un modo per mettere in buona luce Bixio, visto che in genere si considera il “matto” come sacro e il “nano” invece come maligno e cattivo).

La conclusione della vicenda

4)    Ma vediamo la conclusione della vicenda:

Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo ahi! ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. (…) Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L’orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie, e temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all’uscire dal carcere, egli ripeteva: — Sta tranquilla che non ne esce più. — Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all’aria ci vanno i cenci.

Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicchè quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia — chè capponi davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s’era imparentato a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. — Voi come vi chiamate? — E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: — Sul mio onore e sulla mia coscienza!....

Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: — Dove mi conducete? — In galera? — O perchè? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!.... 

5)    A me interessa notare come anche qui torni il pessimismo di Verga circa la possibilità di cambiare in meglio – in questo caso con la violenza rivoluzionaria – la propria condizione sociale (“Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima”. Segue una specie di sintesi del famoso apologo di Menenio Agrippa: “I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini”).

6)    Ma, di più, torna la convinzione di Verga secondo cui il tentativo di cambiare in meglio la propria condizione si risolve inevitabilmente in un “bell’affare!”, ovvero in una rovinosa catastrofe. L’unico che non l’ha capito è il carbonaio, che “mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: — Dove mi conducete? — In galera? — O perchè? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!....”

 

 

Verga verista (VIII parte)

  Il pessimismo di Verga e Fantasticheria

1)    Ma quel mondo diverso è pensabile e desiderabile, come lo pensa e lo desidera Malpelo, ma è irrealizzabile. E qui abbiamo a che fare con il duro pessimismo di Verga, un pessimismo che – per quanto riguarda la migliorabilità della condizione umana – percorre tutta la sua opera.

2)    L’autore che ci dà un tale rappresentazione della disumanità del mondo in atto non crede nella possibilità di un cambiamento. Anzi, crede che ogni tentativo di cambiamento sia velleitario e si risolva inevitabilmente in una sconfitta.

3)    C’è una novella, Fantasticheria (una novella che è una sorta di anticipazione de I Malavoglia) in cui si teorizza la necessità per i deboli, gli ultimi, i derelitti, di “stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita”, di restare attaccati alle proprie radici, ai luoghi e ai modi in cui hanno sempre vissuto, così come l’ostrica sta attaccata allo scoglio, perché

allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui…. Per le ostriche l’argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio. 

La “brama di meglio” non solo travolge chi l’ha perseguita, ma come una condanna biblica si ripercuote rovinosamente anche sui consanguinei, su “i suoi più prossimi”.

Il bell’affare di mastro Bestia!

4)    Se c’è un’espressione che può sintetizzare il pessimismo verghiano è quella usata sarcasticamente dai minatori a proposito della morte di mastro Misciu: Il bell’affare di mastro Bestia!. Mastro Bestia pensava di migliorare la propria condizione con quel lavoro preso a cottimo, e infatti a questo pensava – dice il testo – mentre picconava il pilastro. Ma quell’affare si rivela in realtà la sua rovina.

il bell’affare!” ne I Malavoglia e nel Mastro don Gesualdo

5)    Ma altrettanto si potrebbe dire per l’affare affrontato dai Malavoglia con il trasporto dei lupini presi a credito. Anche quello era un tentativo di migliorare la propria condizione e si rivela sarcasticamente un “bell’affare!”, in quanto segna l’inizio della rovina per i Malavoglia, col naufragio della Provvidenza e il conseguente pignoramento della casa del nespolo.

6)    E sempre in questo senso è un “bell’affare!” anche quello di mastro don Gesualdo, che vuole migliorare la propria condizione sposando una nobile come Bianca Trao: quel matrimonio si rivela in realtà l’inizio della sua rovina. L’aristocrazia lo riterrà sempre un corpo estraneo, la moglie non lo ama, la stessa figlia (in realtà non figlia sua, ma di una relazione di Bianca con un cugino) ricambia il suo amore vergognandosi di lui. Gesualdo, ormai vecchio e sempre più solo, nel palazzo di Palermo dove l’hanno fatto trasferire, lontano dalle sue terre, vede il proprio patrimonio a poco a poco dissipato dalla figlia e dal genero. Si ammala di cancro e attende la morte nel suo letto voltato contro il muro, fra medici che lo trattano come un oggetto e servi che non lo rispettano. 

Verga verista (VII parte)

 

Malpelo desidera altro: l’amore, non la violenza

1)    Malpelo avverte, seppure confusamente, l’esistenza possibile di un mondo diverso. E’ il mondo del suo rapporto con il padre, l’unico che gli aveva voluto bene, il padre di cui ricorda le carezze quando indossa i pantaloni di fustagno che erano stati del padre e che, recuperati dal cadavere, erano stati adattati per il figlio:

la vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta, e le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacchè rimpiccolirsi le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non ne aveva volute di scarpe del morto.

Malpelo se li lisciava sulle gambe quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo che solevano accarezzargli i capelli, così ruvidi e rossi com’erano. Quelle scarpe le teneva appese ad un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accanto all’altra, e stava a contemplarsele coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme per delle ore intere, rimugginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.

2)    Malpelo osserva le scarpe del padre “Rimugginando chi sa quali idee in quel cervellaccio”. Naturalmente questo è il pensiero del narratore (che in questo caso sarà la madre o la sorella, visto che la scena descritta si svolge in casa). Ma noi lettori invece capiamo bene che Malpelo sta “rimugginando” sul ricordo del padre, della violenza che ha subito quell’uomo mite e amorevole, e quindi anche sulla solitudine cui lui è condannato, ora che ha perso l’unica persona che gli voleva bene.

Malpelo desidera altro: un lavoro all’aperto e alla luce

3)    Malpelo desidera un mondo diverso, al di fuori di quello in cui vive lui; desidera, anche se non lo comprende appieno, un mondo fondato sull’amore (e non sulla violenza): quel mondo evocato dal calore dei calzoni di fustagno, ma anche dal pensiero che si potrebbe lavorare diversamente (come il manovale "cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena"; o come "il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa").

4)    Notate come qui, quando il narratore tende a diventare Malpelo stesso, cambiano i colori che sono dominanti nell’intera novella, cioè il rosso, che è il colore maligno dei capelli di Malpelo così come della rena della cava e infine dello “sbocco di sangue” di Ranocchio; il grigio, che è il colore degli occhi di Malpelo così come del pelo dell’asino; il nero della sciara, ovvero del paesaggio su cui si stende la lava pietrificata, ed anche della cava, che è chiamata il “buco nero”. Ora, nei sogni di Malpelo, compaiono colori chiari e luminosi, l’azzurro, il verde, il turchino, quasi simbolo di un altro mondo, un mondo irraggiungibile, fuori dal nero della miniera e dalla violenza del rosso.  

Malpelo desidera altro: una madre come quella di Ranocchio

5)    Il mondo che Malpelo intravvede è anche quello del paradiso di cui gli parla Ranocchio, quando nelle sere d’estate, dopo la giornata di lavoro, si stendono a terra fuori della cava e guardano il cielo stellato (e Ranocchio gli spiega che lassù c’è il paradiso "dove vanno a stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori");

6)    è il mondo confusamente avvertito nel pianto della madre di Ranocchio per il figlio morente (e qui Malpelo ha bisogno di un alibi, per continuare ad accettare il proprio mondo: la madre di Ranocchio piangeva perché "il suo figliolo era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui, perchè non aveva mai avuto timore di perderlo.").

Malpelo sa individuare i responsabili di quella condizione

7)    Malpelo sa tutto, ha capito tutto, è davvero il più saggio degli uomini. Sa che fra gli uomini, a tutti i livelli sociali, anche al livello degli ultimi, dei “dannati della terra”, vige la legge del più forte e del proprio tornaconto personale e sa che per i buoni, come suo padre, non c’è scampo. Ma sa anche individuare con chiarezza i responsabili della violenza subita da suo padre: i minatori, il padrone, lo Sciancato:

      Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l’avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: – Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché egli non faceva così! – E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un’occhiata torva: – È stato lui! per trentacinque tarì! – E un’altra volta, dietro allo Sciancato: – E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera! –

E li indica al lettore

8)    E dunque quest’opera, come dicevo all’inizio, è uno sconvolgente capolavoro non solo perché rappresenta senza pietismi e senza speranze consolatorie la verità della condizione popolare, ma anche perché riesce a comunicare con forza la inaccettabilità di tale condizione. Il lettore non può non pensare alla responsabilità degli uomini, non della natura, quando si vede l’ingegnere più interessato al teatro che alla morte di un minatore, o il padrone in più occasioni (ad esempio, quando è contento che Ranocchio malato non venga più alla cava “perché oramai era più d’impiccio che d’altro”), o i minatori che scherniscono mastro Misciu e maltrattano suo figlio. E infine il lettore non può non avvertire, insieme a Malpelo, il bisogno di un mondo diverso che sia la negazione di quel mondo in atto.

Verga verista (VI parte)

 

Verga non denuncia. Il caso dell’ingegnere a teatro

1)    Ma dunque qual è l’atteggiamento dell’autore, di Verga, nei confronti di questa realtà? Non ci sono nel testo suoi giudizi, suoi commenti di denuncia della violenza e della sopraffazione sui più deboli, dello sfruttamento in generale e dello sfruttamento del lavoro minorile in particolare.

2)    C’era un punto nel testo della prima redazione in cui si intravvedeva un giudizio polemico dell’autore, cioè di Verga, una implicita denuncia nei confronti dell’ingegnere che dirigeva i lavori della cava. Ed è quando vengono a cercarlo perché mastro Misciu è rimasto schiacciato dalla rena. Così nella prima redazione:

      Quella sera in cui vennero a cercare in tutta fretta l’ingegnere che dirigeva i lavori della cava, ei si trovava a teatro, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, perch’era gran dilettante (grande appassionato di teatro). Rossi (la sua compagnia era rinomata) rappresentava l’Amleto, e c’era un bellissimo teatro. Sulla porta si vide accerchiato da tutte le femminucce di Monserrato, che strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch’era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti quasi fosse in gennaio. L’ingegnere, quando gli ebbero detto che il caso era accaduto da circa quattro ore, domandò cosa venissero a fare da lui dopo quattro ore. Nondimeno ci andò con scale e torcie a vento, ma passarono altre due ore, e fecero sei, e lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva una settimana.

      (…)

      L’ingegnere se ne tornò a veder seppellire Ofelia; e gli altri minatori si strinsero nelle spalle, e se ne tornarono a casa ad uno ad uno.

 

3)    Nei dettagli sull’ingegnere a teatro, sulla rappresentazione dell’Amleto, per cui l’ingegnere avrebbe preferito non muoversi di lì, più interessato alla sua serata a teatro che alla sorte dei minatori, sentiamo la mano dell’autore o comunque di un narratore che appartiene al mondo colto della borghesia. Il giudizio ironicamente polemico si avverte ancora di più nella frase conclusiva: “l’ingegnere se ne tornò a veder seppellire Ofelia”, cioè l’ingegnere lascia il minatore sepolto sotto la sabbia e se ne torna al suo Amleto, dove fa in tempo a vedere una sepoltura letteraria, ovvero quella di Ofelia. Nella redazione del 1897 tutto questo scompare:

      L’ingegnere che dirigeva i lavori della cava si trovava a teatro quella sera, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di Malpelo, che aveva fatto la morte del sorcio. Tutte le femminucce di Monserrato strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch’era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti invece, quasi avesse la terzana. L’ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu Bestia doveva già essere bell’e arrivato in Paradiso, andò quasi per scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il buco nella rena.

Della denuncia è rimasto solo un barlume, laddove si dice che l’ingegnere “non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono”. La narrazione è più asciutta e ricorrono le espressioni coerenti con l’artificio della regressione, cioè sentiamo la voce di un narratore che appartiene al mondo dei minatori; mastro Misciu “aveva fatto la morte del sorcio”, sua moglie sbatteva i denti “quasi avesse la terzana” e Misciu Bestia doveva già essere bell’e arrivato in Paradiso”.

Il pessimismo di Verga e la reazione del lettore

4)    Il pensiero di Verga – lo capiamo da altre novelle, dai romanzi del ciclo de I vinti ed anche dalle posizioni politiche conservatrici da lui in più occasioni manifestate (estimatore di Crispi[1], nel 1898 elogia la repressione milanese di Bava Beccaris[2], nel 1912 si dichiara nazionalista e poi interventista nella I guerra mondiale) – coincide con il pessimismo di Malpelo: così va il mondo e non c’è intervento divino né organizzazione umana che possa modificarne nel profondo le leggi. E dunque lo scrittore verista non può che rappresentare questo mondo nella sua brutale realtà.

5)    Forse è proprio questo (il suo cupo pessimismo, il suo essere ideologicamente un conservatore, il suo “rifiuto della speranza populista e delle suggestioni socialiste”) che – come scrive Asor Rosa – lo porta “alla rappresentazione più convincente che del mondo popolare sia stata data in Italia durante tutto l’Ottocento”.

6)    Proprio il suo pessimismo consente a Verga di cogliere con grande lucidità il negativo del mondo esistente, dove trionfano la forza e la ricerca del proprio utile, l’oppressione sui più deboli e la degradazione umana che ne risulta. Verga non indica alternative, la sua vuole essere una rappresentazione oggettiva delle cose, ma le cose parlano da sé, le cose gridano, invocano l’alternativa.

7)    Di fatto, che Verga ne sia consapevole o no, quanto più il lettore si addentra in questo mondo fatto di violenza e di sopraffazione, tanto più ne avverte la inaccettabilità, così come la avverte Malpelo, che pure ne teorizza la immodificabilità, come di una legge di natura.



[1] Nel 1894 represse con durezza il movimento contadino dei Fasci siciliani e determinò lo scioglimento del Partito socialista dei lavoratori.

[2] Nel 1898 fece sparare contro una manifestazione popolare che protestava per l’aumento del prezzo del pane: 83 morti, secondo il governo, 300 secondo l’opposizione.

Verga verista (V parte)

 

Malpelo “scolaro” alla scuola di violenza e “docente” con Ranocchio

1)    Ma torniamo alla novella. Malpelo cresce a questa scuola di violenza, subita sia alla cava che in famiglia: la madre “non aveva mai avuta una carezza da lui, e quindi non gliene faceva” (e anche qui c’è una bella stortura logica…); la sorella non solo “gli faceva la ricevuta a scapaccioni” ma anche lo aspettava sulla porta con il manico della scopa perché tutto sporco e malmesso com’era “avrebbe fatto scappare il suo damo (fidanzato) se avesse visto che razza di cognato gli toccava sorbirsi”.

2)    Il narratore dice che dopo la morte del padre Malpelo si incattivisce ancora di più. Era venuto a lavorare alla cava un ragazzino che non poteva più fare il manovale perché era caduto da un ponte e si era lussato il femore. Alla cava lo chiamano Ranocchio e Malpelo “lo tormentava in cento modi”, “lo batteva senza un motivo e senza misericordia”, così come picchiava l’asino grigio che veniva usato per trasportare la rena fuori dalla cava. Nei confronti di Ranocchio il suo è un intento pedagogico: gli vuole bene perché con lui Rosso, solitamente taciturno, parla, si confida, gli cede parte del suo cibo e quando si ammala lo assiste come può, ma vuole che capisca che in natura come nella società, come nella cava, vige la legge del più forte e del tornaconto personale ed è una legge di violenza nei confronti del più debole; così ammaestra Ranocchio:

            To’! Bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello!

            O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici, ― Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! ― Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll’occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n’era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe; e Malpelo allora confidava a Ranocchio: ― L’asino va picchiato, perchè non può picchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi.

           Oppure: ― Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così coloro su cui cadranno ti terranno per da più di loro, e ne avrai tanti di meno addosso (….)

            La rena è traditora, diceva a Ranocchio sottovoce; somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere.

3)    Scrive un critico (Spinazzola): Nessun testo letterario dell’Ottocento italiano ha sostenuto con tanta fermezza che operare il male significa appunto e solo conformarsi ai dettami della natura”. Malpelo, pur nel suo analfabetismo, è il più intellettuale dei personaggi verghiani, ha saltato l’infanzia ed è divenuto (dice Asor Rosa) “il più saggio degli uomini”.

Le tre morti: la morte del Grigio

4)    Tre morti scandiscono la sua “educazione sentimentale”, morti di deboli, di vinti, sopraffatti dai forti: la morte del padre, la morte di Ranocchio e, in mezzo, quella forse più significativa, la morte del Grigio, l’asino bastonato fino all’ultimo, fino a che non muore di vecchiaia e di stenti. Rosso vuole che Ranocchio veda, nella discarica dove il Grigio è stato buttato, l’orrendo spettacolo della sua carcassa spolpata dai cani affamati:

           In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara. ― Così si fa, brontolava Malpelo; gli arnesi che non servono più, si buttano lontano. ― Ei andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa bella o brutta; e stava a considerare con l’avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. ― Vedi quella cagna nera, gli diceva, che non ha paura delle tue sassate; non ha paura perchè ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole! Adesso non soffriva più, l’asino grigio, e se ne stava tranquillo colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde e a spolpargli le ossa bianche e i denti che gli laceravano le viscere non gli avrebbero fatto piegar la schiena come il più semplice colpo di badile che solevano dargli onde mettergli in corpo un po’ di vigore quando saliva la ripida viuzza. Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche (le piaghe prodotte dai finimenti di cuoio), e anch’esso quando piegava sotto il peso e gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: Non più! non più! Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche con quella bocca spolpata e tutta denti. E se non fosse mai nato sarebbe stato meglio.

5)    L’asino che se ne ride dei colpi e delle guidalesche” diventa il simbolo di una condizione umana che trova solo nella morte la fine del dolore. E il passo si conclude con una affermazione durissima nella sua semplicità, un’affermazione che ricorda il pessimismo leopardiano e la cosiddetta “sapienza silenica”: “e se non fosse mai nato sarebbe stato meglio”.

La morte di Ranocchio

6)    Infine la morte di Ranocchio mette Malpelo di fronte a una realtà per lui difficile da comprendere. Ranocchio si è ammalato, ha la febbre, sputa sangue. Malpelo, che gli vuole bene, lo aiuta come può, “ruba dei soldi dalla paga della settimana per comprargli del vino e della minestra calda”, addirittura gli cede “i suoi calzoni quasi nuovi, che lo coprivano meglio”, i calzoni di fustagno che gli erano carissimi perché erano quelli del padre morto. Ma Ranocchio si aggrava, non viene più alla cava, Malpelo lo va a trovare, vede che è nel letto ormai moribondo ma ciò che gli pare incomprensibile è che la madre “piangeva e si disperava come se il suo figliolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire alla settimana”; quindi:

           Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui nella notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così, e sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poichè anche la madre di Malpelo s’era asciugati i suoi dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un’altra volta, ed era andata a stare a Cifali; anche la sorella si era maritata e avevano chiusa la casa. D’ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, e quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.

La scelta finale

7)    La scelta finale di Malpelo è quella di accettare un lavoro pericoloso, un lavoro che, si dice, nessuno avrebbe accettato, nemmeno “per tutto l’oro del mondo”: si trattava di esplorare i cunicoli sotterranei della cava, con il rischio però di perdersi. Malpelo accetta, ma non fa più ritorno; non “si seppe più nulla di lui

      Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, e il fiasco del vino, e se ne andò: nè più si seppe nulla di lui.

      Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, chè hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi. 

8)    Quella di Malpelo più che una dimostrazione di coraggio sembra una scelta consapevole e volontaria di suicidio; nello stesso tempo una scelta di liberazione e un atto di accusa nei confronti di quel mondo in cui trionfa senza possibilità di scampo la legge violenta del più forte.

9)    E in quel mondo niente cambia. Malpelo scomparso diventa, nella credenza popolare, il protagonista di una leggenda nera per cui i ragazzi alla cava hanno paura di incontrarlo, quasi fosse “coi capelli rossi e gli occhiacci grigi” una mostruosa incarnazione del male.

Verga verista (IV parte)

 

Una rappresentazione del popolo non populista

1)    Questa, oltre alla già detta tecnica narrativa, è l’altra grande novità del verismo di Verga: una rappresentazione del popolo non mistificata, non paternalista, non consolatoria. Gli ultimi nella scala sociale, quali sono i minatori della novella in questione, sono violenti, privi di buoni sentimenti, non sono portatori di valori positivi a contrasto con l’egoismo e la corruzione delle classi alte; sono animati anche loro, come le classi alte, dalla logica egoistica del proprio utile. Questa è una vera rivoluzione, se si pensa al populismo di tanta letteratura ottocentesca, soprattutto nella sua versione paternalista, quella per cui il popolo, rappresentato come sostanzialmente buono ma sfruttato e ridotto a una vita miserabile, suscita compassione e commozione.

2)    A questa tipologia letteraria apparteneva ancora la novella Nedda. Lo chiarisce bene il biglietto che una certa contessa Maffei scrive a Verga dopo aver letto la novella: “La sua Nedda è un gioiello, l’ho letta con vera commozione… purtroppo tutto è vero in quel caro racconto, ed è verissimo che i poveri hanno sollievo, e forse il solo, dalla perdita dei suoi più cari (dice questo perché nel finale Nedda, quando le muore la figlia neonata, ringrazia la Madonna per averla sottratta alle sofferenze future)Quanta poesia nella miseria e quanta inconscia virtù, e quale obbligo di soccorrerla rispettandola!”.  

Il populismo paternalista di Prati e Parzanese

3)    Ma per comprendere l’assoluta novità della rappresentazione da parte di Verga della condizione popolare in Rosso Malpelo rispetto all’ottocentesco populismo paternalista, basterà leggere qualche verso di una poesia come Campagnuoli sapienti (1843) di Giovanni Prati:

Lavoriam, lavoriam, dolci fratelli,

sin che molle è la terra e i dì son belli.

Lavoriam, lavoriam; quanto ci mostra

di ricco il mondo, è passeggiero spettro;

il crin sudato è la corona nostra,

il piccone e la marra il nostro scettro.

(…..)

Lavoriam, lavoriam; l’ora che avanza

di lavor sia tessuta e di speranza.

Se questi ricchi, che ci dan le glebe,

qualche volta con noi miti non sono,

noi, dolorosa ma non trista plebe,

rispondiamo con l’opra e col perdono.

E cosi, nel silenzio, ammaestrando

l’umile cencio a rispettar del povero,

noi lavoriam cantando.

 

4)    O anche qualche verso della poesia Gli operai (1846) di Pietro Paolo Parzanese, ove ancora più evidente è l’invito, rivolto al popolo lavoratore, ad accettare con gioia la propria condizione:

Fatichiam, fratelli. Quando

noi nascemmo, Iddio ci disse:

«Voi vivrete lavorando»

e dal ciel ci benedisse.

Pan bagnato di sudor        

pure è dono del Signor.

Quel ch’ei vuole, noi vogliamo;

fatichiamo, fatichiamo.

Fatichiamo! Ci tradisce

chi ci chiama alla rapina,

chi c’infiamma e invelenisce

al tumulto e alla rovina,         20

promettendo un’altra età

senza stenti e povertà.

Dio ci fece quel che siamo;

fatichiamo, fatichiamo.

(….)

Fatichiam! Né sia chi dica

che de’ ricchi siam gli schiavi;

più di noi con la fatica       

furon grandi i padri e gli avi.

Ozio reo, e nulla più,

ci conduce a servitù.

Dio ci fece quel che siamo;

fatichiamo, fatichiamo.  

Il giudizio di Asor Rosa

5)    E’ vistosa la differenza fra questa rappresentazione delle classi popolari e quella che ci dà Verga in Rosso Malpelo. Non ci sono interventi dell’autore intesi a sollecitare una lacrima del lettore o a comunicare l’accettazione, più o meno gioiosa, di quella condizione o a sottolineare i buoni sentimenti di gente umile ma onesta o, tanto meno, a prospettare la speranza di un cambiamento in meglio di quella condizione. Mi piace citare una bella espressione di Asor Rosa per definire tale atteggiamento di Verga:Il borghese Verga rifiuta la tazza del consólo (è il banchetto che viene offerto da parenti ed amici ai famigliari del defunto nei primi giorni del lutto), che la borghesia è sempre così pronta ad apprestarsi quando s’avvicina al così detto problema sociale: alla protesta e alla speranza…. egli preferisce la conoscenza e la consapevolezza. Il rifiuto di un’ideologia progressista costituisce la fonte, non il limite della riuscita verghiana. Asor Rosa aggiunge che nell’Ottocento una simile rappresentazione del popolo non idealizzata, ma brutale nella sua verità, si può trovare solo nei sonetti di Belli. E io aggiungo che la rappresentazione del popolo che ci dà il conservatore Verga è quanto mai dirompente, proprio perché, senza pietismi e senza speranze, ci sbatte in faccia la inaccettabilità di quella condizione, quand’anche fosse tale, come pensa Malpelo, per una legge di natura.