Malpelo desidera altro: l’amore,
non la violenza
1) Malpelo avverte,
seppure confusamente, l’esistenza possibile di un mondo diverso.
E’ il mondo del suo rapporto con il padre, l’unico che gli aveva voluto bene,
il padre di cui ricorda le carezze quando indossa i pantaloni di fustagno
che erano stati del padre e che, recuperati dal cadavere, erano stati adattati
per il figlio:
la vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e
li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta,
e le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacchè
rimpiccolirsi le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non ne
aveva volute di scarpe del morto.
Malpelo se li lisciava sulle gambe quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo che solevano accarezzargli i capelli, così ruvidi e rossi com’erano. Quelle scarpe le teneva appese ad un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accanto all’altra, e stava a contemplarsele coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme per delle ore intere, rimugginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.
2) Malpelo
osserva le scarpe del padre “Rimugginando chi sa quali idee in quel
cervellaccio”. Naturalmente questo è il pensiero del narratore (che in
questo caso sarà la madre o la sorella, visto che la scena descritta si svolge
in casa). Ma noi lettori invece capiamo bene che Malpelo sta “rimugginando” sul ricordo del padre,
della violenza che ha subito quell’uomo mite e amorevole, e quindi anche sulla
solitudine cui lui è condannato, ora che ha perso l’unica persona che gli
voleva bene.
Malpelo desidera altro: un lavoro
all’aperto e alla luce
3) Malpelo
desidera un mondo diverso, al
di fuori di quello in cui vive lui; desidera, anche se non lo comprende
appieno, un mondo fondato sull’amore (e non sulla violenza): quel mondo
evocato dal calore dei calzoni di fustagno, ma anche dal pensiero che si potrebbe lavorare diversamente (come
il manovale "cantando sui ponti, in
alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena"; o come
"il contadino, che passa la vita fra
i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in
fondo, e il canto degli uccelli sulla testa").
4) Notate
come qui, quando il narratore tende a
diventare Malpelo stesso, cambiano
i colori che sono dominanti nell’intera novella, cioè il rosso, che è il colore maligno
dei capelli di Malpelo così come della rena della cava e infine dello “sbocco di sangue” di Ranocchio; il grigio, che è il colore degli
occhi di Malpelo così come del pelo dell’asino; il nero della sciara, ovvero del paesaggio su cui si stende la
lava pietrificata, ed anche della cava, che è chiamata il “buco nero”. Ora, nei sogni di Malpelo, compaiono colori chiari e luminosi, l’azzurro, il verde, il turchino,
quasi simbolo di un altro mondo, un
mondo irraggiungibile, fuori dal nero della miniera e dalla violenza del rosso.
Malpelo desidera altro: una madre
come quella di Ranocchio
5) Il
mondo che Malpelo intravvede è anche
quello del paradiso di cui gli parla Ranocchio,
quando nelle sere d’estate, dopo la giornata di lavoro, si stendono a terra
fuori della cava e guardano il cielo stellato (e Ranocchio gli spiega che lassù
c’è il paradiso "dove vanno a stare
i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori");
6) è
il mondo confusamente avvertito nel pianto della madre di Ranocchio per il
figlio morente (e qui Malpelo ha
bisogno di un alibi, per continuare ad accettare il proprio mondo: la
madre di Ranocchio piangeva perché "il
suo figliolo era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei
marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era
malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui, perchè non aveva mai avuto
timore di perderlo.").
Malpelo sa individuare i
responsabili di quella condizione
7) Malpelo sa tutto, ha
capito tutto, è davvero il più saggio degli uomini.
Sa che fra gli uomini, a tutti i livelli sociali, anche al livello degli
ultimi, dei “dannati della terra”, vige la legge del più forte e del proprio
tornaconto personale e sa che per i buoni, come suo padre, non c’è scampo.
Ma sa anche individuare con chiarezza
i responsabili della violenza subita da suo padre: i minatori, il padrone, lo
Sciancato:
Certo ei provava uno strano diletto a
rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto
subire a suo padre, e del modo in cui l’avevano lasciato crepare. E quando era
solo borbottava: – Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché egli non faceva così! – E
una volta che passava il padrone,
accompagnandolo con un’occhiata torva: – È
stato lui! per trentacinque tarì! – E un’altra volta, dietro allo Sciancato: – E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho
udito, quella sera! –
E li indica al
lettore
8) E
dunque quest’opera, come dicevo all’inizio, è uno sconvolgente capolavoro non solo perché rappresenta senza
pietismi e senza speranze consolatorie la verità della condizione popolare, ma anche perché riesce a comunicare con
forza la inaccettabilità di tale condizione. Il lettore non può non
pensare alla responsabilità degli uomini, non della natura, quando si vede l’ingegnere più interessato al
teatro che alla morte di un minatore, o il padrone in più occasioni (ad esempio, quando è contento che Ranocchio malato non venga
più alla cava “perché oramai era più
d’impiccio che d’altro”), o i minatori
che scherniscono mastro Misciu e
maltrattano suo figlio. E infine il
lettore non può non avvertire, insieme a Malpelo, il bisogno di un mondo diverso
che sia la negazione di quel mondo in atto.
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