Analisi de L'infinito
1. Sempre caro
mi fu quest'ermo colle,
2. e questa
siepe, che da tanta parte
3. dell'ultimo orizzonte il guardo
esclude.
4. Ma sedendo
e mirando, interminati
5. spazi di là
da quella, e sovrumani
6. silenzi, e
profondissima quïete
7. io nel pensier mi fingo, ove per poco
9. odo stormir
tra queste piante, io quello
10. infinito
silenzio a questa voce
11. vo comparando: e mi
sovvien l'eterno,
12. e le morte stagioni, e la presente
13. e viva, e il
suon di lei. Così tra questa
14. immensità
s'annega il pensier mio:
15. e il
naufragar m'è dolce in questo mare.
1) Il tema
Si
tratta di un itinerarium ad infinitum:
il sentimento che si vuole comunicare è quello dell’infinito, nella sua
dimensione prima spaziale e poi temporale. L’idillio, di 15 versi, è infatti
perfettamente diviso a metà del verso 8 nelle due parti che, appunto, intendono
rappresentare il sentimento-sensazione della infinitezza, nello spazio e nel
tempo. Ed è un sentimento che nasce, per contrasto, dall’avvertimento, tramite
i sensi prima della vista e poi dell’udito, di dati concreti: la siepe che, in
quanto preclude la vista dell’orizzonte, consente l’immaginazione (io nel pensier mi fingo) dell’infinito
spaziale; lo stormire del vento tra le piante che, in quanto interrompe il
silenzio, sollecita il pensiero (mi
sovvien) dell’eterno (dell’infinito scorrere del tempo). Ma siccome si
tratta di sentimenti-immaginazioni troppo vaste perché la mente le possa
definire e il cuore le possa abbracciare, in esse ci si perde, con paura
dapprima (8), e ci si annega, come in un dolce naufragio poi (15). E’
un’esperienza potente, per certi versi terribile, perché comporta un perdersi,
un annullamento della propria individualità: ne è prova l’uso, nel momento in
cui si descrive l’acme dell’esperienza, di verbi estremamente significativi,
che risaltano nel lessico abbastanza povero dell’idillio e che hanno nell’opera
leopardiana un riscontro rarissimo (si
spaura, solo in La vita solitaria
e Amore e morte) o unico (s’annega, naufragar).[1]
Ma
se questo è schematicamente il piano tematico dell’idillio, molti e
significativi sono i rilievi che si possono fare sul piano formale, della
struttura complessiva, della sintassi, del lessico, della metrica[2].
2) La struttura
e la sintassi
Sulla
struttura complessiva andranno notate non solo le corrispondenze già rilevate
(perfetta divisione in due parti, parallela simmetria dal dato concreto al suo
trascendimento), ma anche
a.
la continuità
ritmica dell’intera lirica, tale per cui, con la sequenza ininterrotta delle
inarcature[3],
nessun verso è isolato e a sé stante: nessuno, tranne il primo e l’ultimo, che
quindi sembrano incorniciare perfettamente l’idillio (non ci si lasci ingannare
dal punto alla fine del verso 3: la pausa sintattica è apparente perché la
coordinante avversativa che segue tende ad unire i due versi, malgrado il
punto).
b.
Il perfetto
disegno costruttivo si rileva, oltre che dall’incorniciamento fornito dal primo
e dall’ultimo verso, anche dalla divisone sintattica in quattro periodi che si
corrispondono in modo speculare: il primo (tre versi) corrisponde all’ultimo
(due versi e mezzo), il secondo (quattro e mezzo) al terzo (cinque): la lirica
risulta così divisa in due parti uguali, di sette versi e mezzo ciascuna (per
cui risalta la centralità dell’ottavo verso, che contiene due emistichi che
separano e congiungono le due parti del componimento).
c.
Inoltre il primo
e l’ultimo periodo hanno un andamento piano, paratattico, a carattere
enunciativo, mentre i periodi mediani sono connotati da una sintassi più mossa
e con un incremento dei costrutti ipotattici (c’è la tensione che vuole rendere
il processo mentale che conduce all’infinità, spaziale e temporale; una
tensione preceduta dalla descrizione affettiva del paesaggio e seguita dal suo
placamento-compimento nel naufragio finale).
3) Il lessico
Interessanti
sono i riscontri sul piano del lessico:
a.
la poesia è
punteggiata di parole che Leopardi stesso indica come particolarmente poetiche
per l’indefinito del loro significato (le cataloga proprio come “Voci e frasi piacevoli e poetiche
assolutamente, per l’infinito o l’indefinito del loro significato” nell’ Indice del mio Zibaldone, che compila,
da notare, a partire dal luglio del 1827): e sono ermo, tanta, ultimo, silenzio, profondo, eterno, morte; ma a queste
si possono aggiungere sostantivi come orizzonte,
immensità, e aggettivi come interminati,
sovrumani, infinito).
b.
Un rilievo a
parte va fatto per l’avverbio “sempre”,
con cui si apre la lirica. La prima cosa da notare è l’ascendenza petrarchesca
di tale incipit (tipico in Petrarca, a indicare la persistenza di una
condizione: “io amai sempre, et amo forte
ancora”, “cercato ò sempre solitaria
vita”, ecc.). In Leopardi la parola è, come altre, per il suo significato
indeterminato, evocativa dell’infinito. Ma notate come nell’espressione “sempre caro mi fu” sia associata ad un
passato remoto, tempo verbale che contrasta con tutti i presenti iterativi che
seguono nella lirica. La cosa è sempre apparsa problematica ai lettori, ma a me
sembra che nella scelta si manifesti l’intenzione dell’autore di unire l’esperienza
straordinaria che si accinge a descrivere al ricordo di un passato felice: quel
“sempre”, più che indicare il
ripetersi dell’evento, sollecita la memoria di un passato affettivamente
evocato (caro); il sentimento
affettivo è intensificato dalla memoria, e quel “fu” sottolinea proprio questa associazione affetto-memoria. Dunque
qui è in campo un altro elemento della poetica dell’indefinito, e cioè
l’elemento della poeticità della rimembranza.
c.
Il riferimento
del “quella” del v. 5 alla siepe non
convince tutti (alcuni preferiscono riferirlo a “tanta parte”, visto che la siepe è vicina, tant’è che al v. 2 era
accompagnata dal dimostrativo “questa”).
Ora, a parte che la logica impone di intendere il riferimento alla siepe, mi
pare convincente la lettura che A. Marchese ha fatto dell’uso dei dimostrativi
nell’idillio. Essi segnalano il passaggio da un “qui ed ora” iniziale (questo colle, questa siepe) a un “altrove” trascendente in cui è trasportata la
mente del poeta (quella siepe, perché
ora il poeta è lontano dalla siepe, è altrove, nella lontananza infinita);
quindi lo stormire del vento è come se risvegliasse il poeta dal suo sogno di
un viaggio nell’altrove, lo riporta a terra, qui ed ora (dunque, queste piante, quel silenzio, questa
voce); ma la mente è ora sollecitata al pensiero dell’infinito scorrere del
tempo, trascende di nuovo i dati del reale e del presente, è altrove (in questa immensità, in questo mare).
d.
Altro problema è
quello del valore dell’avversativo “ma”
con cui si apre il verso 4. E’ un problema perché logicamente non può avversare
il periodo precedente (non si può avversare il fatto che il colle e la siepe al
poeta siano cari), caso mai avversa soltanto la seconda parte del periodo –
tant’è che Bacchelli proponeva di intenderlo come un asseverativo, nel senso di
“appunto, proprio per questo”. Nella forza di quel “ma” sarà da vedere piuttosto l’intenzione di avversare il carattere
petrarchesco-arcadico di quell’incipit che sembra evocare la tradizionale
figura del locus amoenus. Quel “ma” intende dire che l’idillio non vuole
descrivere le piacevolezze di un luogo campestre, ma invece rappresentare
sensazioni di tutt’altro tipo, proporre una narrazione diversa, di tipo mentale
e introspettivo, rappresentare appunto l’itinerarium
ad infinitum.
4) Il ritmo
Quel “ma”
forse ci suggerisce anche il cambiamento di ritmo che ci attende nei versi
successivi:
a.
dall’andamento
piano e regolare, prevalentemente bisillabico, si passa ora ad un ritmo segnato
da fortissime inarcature e rallentato dalla serie ardita di parole
polisillabiche, in un crescendo che va da parole trisillabiche (sedendo, mirando) a parole di 5 sillabe
(interminati, profondissima), parole
che anche foneticamente vorrebbero esprimere l’idea dell’infinito (come se la
lentezza della pronuncia volesse segnalare la difficoltà di circoscrivere
quell’idea).
b.
Come abbiamo
notato, l’alta frequenza di enjambements e di pause sintattiche interne fa sì
che nessun verso della lirica sia sintatticamente isolabile, ad eccezione dei
due estremi (che per altro non sono perfettamente isolati perché congiunti
dalla coordinante “e”). Il componimento si presenta così come un continuum
ritmico, in cui spiccano alcuni fortissimi enjambements che mettono in rilievo
termini infinitivi, accentuandone la carica evocativa (vedi i due aggettivi “interminati” e “sovrumani” a fine verso, o i sostantivi “infinito silenzio” e “immensità”
ad inizio verso, ma evidenziati dall’attesa creata dai dimostrativi alla fine
del verso precedente). La carica evocativa propria dei tre sintagmi dei vv. 4-6
è potenziata dagli enjambements che separano e uniscono i primi due, e trova
compimento e appagamento (sintattico e metrico) nel terzo (profondissima quiete),
cui contribuisce anche la dieresi che rende trisillabo il sostantivo “quiete”, rallentandone la pronuncia.
5) I fonemi
Sul
piano fonetico, da notare
a.
sia la “rilevanza
strategica” di timbri vocalici aperti, in particolare di quello in “a”, in
posizione tonica e/o ritmica, cioè a fine verso (parte, rafforzato da tanta,
interminati, sovrumani, mare) o a fine
emistichio (in quarta o sesta sillaba, a seconda che l’endecasillabo sia a
minore o a maiore: mirando, comparando, immensità, naufragar); e
sono in maggioranza parole legate al tema dell’infinito, per le quali dunque
l’apertura vocalica entra in sinergia col significato di vastità. Il fenomeno
era già stato notato da Contini (“trionfo di a”), e la minore forza
impressiva delle parole con timbro in
“e” (pur leggermente prevalenti nella lirica) andrà ascritta alla eterogeneità
semantica di tali parole (con significati e collocazioni non di rilievo).
b.
sia la frequenza di parole caratterizzate
dall’incontro di nasale più consonante, con effetti di amplificazione sonora
(fenomeno che investe in particolare parole che intendono esprimere l’infinito:
orizzonte, interminati, profondissima,
infinito, silenzio, immensità).
[1] Per
altro, quella di cui si parla non è un’esperienza di tipo mistico-religioso:
non lo è, sia perché Leopardi stesso precisa nello Zibaldone che “l’infinità della inclinazione dell’uomo è una
infinità materiale” (luglio 1820), sia perché è evidente la base sensistica di
tutta la costruzione (l’immaginazione dell’infinito si ha a partire da dati
sensibili), sia infine perché ancora lo stesso autore chiarisce nello Zibaldone (4 gennaio 1821) che “non solo
la facoltà conoscitiva, o quella d’amare, ma neanche l’immaginativa è capace
dell’infinito, o di conoscere infinitamente, ma solo dell’indefinito, e di
concepire indefinitamente. La qual cosa ci diletta perché l’anima, non vedendo
i confini, riceve l’impressione di una specie d’infinito, e confonde
l’indefinito con l’infinito..”
[2] Per alcuni di tali rilievi
sono debitore a Luigi Blasucci (Leopardi e i segnali dell'infinito,
Bologna 1985).
[3] Per
chi non lo sapesse, l’inarcatura, o enjambement, è quel fenomeno per cui la
pausa metrica non coincide con la pausa sintattica, anzi la pausa metrica
separa elementi che sintatticamente sono uniti (ad esempio, un sostantivo e il
suo attributo), con l’effetto di sottolineare maggiormente (nel suono e nel
significato) i termini separati.
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