PIRANDELLO (lezioni)


Pirandello umorista

L’umorismo

1) Ho intitolato in questo modo (Pirandello umorista) questo mio intervento perché Pirandello stesso in un famoso saggio (L’umorismo, 1908) ha espresso l’idea che l’umorismo sia il carattere qualificante di ogni grande opera letteraria – in ogni tempo, ma particolarmente nei tempi moderni, cioè da quando l’uomo, con la perdita della centralità della terra nell’universo, ha cominciato a dubitare di tutte le proprie certezze. C’è un passo in quel saggio in cui Pirandello si serve di un esempio celebre per indicare la differenza fra “comico” e “umoristico”, giacchè il primo nasce da quello che lui chiama “avvertimento del contrario” e il secondo dal “sentimento del contrario

Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata, e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perchè pietosamente s'inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sè l'amore del marito molto più giovine di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perchè appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza, tra il comico e l'umoristico.

2) Esemplari personaggi umoristici – dice sempre Pirandello – sono Don Chisciotte e don Abbondio: entrambi, seppure in modi diversi, appaiono comici in un primo momento, quando avvertiamo nel loro comportamento il contrario di quel che dovrebbe essere;  Don Chisciotte non si comporta come un uomo consapevole della realtà in cui è immerso e don Abbondio non si comporta come dovrebbe comportarsi un prete (e cioè come si comportano fra Cristoforo o il cardinale Borromeo); ma poi subentra la riflessione, che può essere implicita (come nel caso dell’opera di Cervantes) o esplicitata dallo stesso narratore (come fa Manzoni nei Promessi sposi) e allora il riso si spegne e il sentimento che proviamo è quello di commiserazione: per Don Chisciotte, che si scontra dolorosamente con la realtà, ma è animato da ideali nobilissimi; per don Abbondio, che viene meno al suo dovere di prete, ma – ce l’ha detto lo stesso Manzoni – è vittima di umanissime paure, sa di essere una vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro. Pertanto l’umorista non ride, ma ride e compatisce contemporaneamente.

3) La riflessione è dunque un elemento fondamentale dell’opera d’arte; funge da specchio del sentimento, ma è uno specchio – dice Pirandello – “d’acqua diaccia, in cui la fiamma del sentimento non si rimira soltanto, ma si tuffa e si smorza; il frigger dell’acqua è il riso che suscita l’umorista”. E ancora, grazie alla riflessione, l’arte umoristica appare come “un’erma bifronte che ride per una faccia del pianto della faccia opposta”. Piccola parentesi: Benedetto Croce, che per buona parte del Novecento è stato l’indiscusso maestro della critica letteraria in Italia, non amava Pirandello proprio per questa sovrabbondanza di riflessione che caratterizzava la sua opera; lo accusava di cerebralismo, di eccesso di ragionamento, oltre che di superficialità filosofica.

Forma e vita

4) Ma c’è un ulteriore passaggio nella riflessione teorica di Pirandello, un passaggio che consiste nel riconoscimento di una opposizione irriducibile fra la “forma” e la “vita. La vita è un continuo fluire, un fiume magmatico che scorre, ma noi non riusciamo ad aderire a questo flusso, a immergerci in questo fiume, siamo costretti entro forme rigide, che sono le convenzioni sociali, le maschere che indossiamo e che nascondono il nostro vero volto, un volto sconosciuto anche a noi stessi. Ma allora qual è la mia vera identità, qual è il mio vero volto al di là delle diverse maschere che mi identificano, al di là delle diverse forme che hanno irrigidito la mia vita? Ecco quindi che il personaggio pirandelliano sente come falsa la vita che sta vivendo e vuole una vita autentica, vuole immergersi nel fiume della vita e scorrere con esso, indifferente agli obblighi e alle convenzioni sociali che glielo impediscono. Così si esprime Pirandello:

La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi (…) Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci. Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima, e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo, componendoci una coscienza, costruendoci una personalità. In certi momenti tempestosi, investite dal flusso, tutte quelle nostre forme fittizie crollano miseramente; e anche quello che non scorre sotto gli argini e oltre i limiti, ma che si scopre a noi distinto e che noi abbiamo con cura incanalato nei nostri affetti, nei doveri che ci siamo imposti, nelle abitudini che ci siamo tracciate, in certi momenti di piena straripa e sconvolge tutto. Vi sono anime irrequiete, quasi in uno stato di fusione continua, che sdegnano di rapprendersi, d’irrigidirsi in questa o in quella forma di personalità. Ma anche per quelle più quiete, che si sono adagiate in una o in un’altra forma, la fusione è sempre possibile: il flusso della vita è in tutti.

5) Anche le anime “più quiete” – dice possono assumere, per un momento, grazie a un caso qualunque, a un evento fortuito, la consapevolezza della falsità della loro vita e concepire il desiderio di sbarazzarsi di tutte le forme e di tutte le maschere e di fondersi con il flusso della vita. Non c’è una causa specifica che produce questo effetto, ma è una pura casualità che sconvolge la routine della vita quotidiana, le abitudini, l’identità sociale del personaggio, le sue relazioni affettive.

6) Allora il personaggio, nel suo tentativo di aderire al flusso della vita, di vivere una vita autentica, appare comico perché il suo comportamento contraddice (è il contrario di) quello che ci aspetteremmo da lui, per la forma, la maschera in cui ci è apparso fino ad allora. E’ l’avvertimento del contrario che ci fa ridere, ma se all’avvertimento aggiungiamo la riflessione, allora non si ride più: si ride e si piange allo stesso tempo. Ho in mente un paio di novelle, esemplari in questo senso: Il treno ha fischiato e La carriola.

Il treno ha fischiato

7) Il treno ha fischiato (pubblicata nel 1914) ha per protagonista  un modesto impiegato, un computista, cioè un ragioniere, certo Belluca, sempre puntuale, ligio al suo dovere, obbediente alle richieste del capufficio. Senonchè un giorno, inaspettatamente il suo comportamento cambia, si ribella in modo tanto sorprendente che prima suscita l’ilarità dei colleghi, quindi viene legato e trasportato di forza al manicomio: 

Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s'era fieramente ribellato al suo capo-ufficio, e che poi, all'aspra riprensione di questo, per poco non gli s'era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d'una vera e propria alienazione mentale.

Perché uomo piú mansueto e sottomesso, piú metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare.

(…)

Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d'una improvvisa alienazione mentale.

Tanto piú che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capoufficio. Già s'era presentato, la mattina, con un'aria insolita, nuova; e – cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d'una montagna – era venuto con piú di mezz'ora di ritardo.

Pareva che il viso, tutt'a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt'a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d'improvviso all'intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt'a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai.

Cosí ilare, d'una ilarità vaga e piena di stordimento, s'era presentato all'ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.

La sera, il capo-ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte:

— E come mai? Che hai combinato tutt'oggi?

Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un'aria d'impudenza, aprendo le mani.

— Che significa? — aveva allora esclamato il capoufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. — Ohé, Belluca!

— Niente, — aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d'impudenza e d'imbecillità su le labbra. — Il treno, signor Cavaliere.

— Il treno? Che treno?

— Ha fischiato.

— Ma che diavolo dici?

— Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L'ho sentito fischiare…

— Il treno?

— Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo… Si fa in un attimo, signor Cavaliere!

Gli altri impiegati, alle grida del capo-ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare cosí Belluca, giú risate da pazzi.

Allora il capo-ufficio – che quella sera doveva essere di malumore – urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli.

Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s'era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non piú, ora ch'egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva piú, non voleva piú esser trattato a quel modo. Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all'ospizio dei matti.



8) Colui che sta narrando l’episodio è il vicino di casa di Belluca ed è lui che ci propone quella riflessione che consente il passaggio dal comico all’umoristico. E’ lui che quando i colleghi che vanno a trovare Belluca in ospedale gli dicono che continua a straparlare e che dunque è proprio impazzito, risponde:

Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev'essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest'uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l'avrò veduto e avrò parlato con lui.



Cammin facendo verso l'ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio:

«A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita "impossibile", la cosa piú ovvia, l'incidente piú comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d'un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell'uomo è "impossibile"(...)»



9) Il narratore conosce la vita “impossibile” di Belluca e ce la spiega: viveva con tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera; in più, aveva accolto in casa le due figlie vedove, una con quattro e l’altra con tre figli; dodici in tutto, che dormivano in tre letti matrimoniali; manteneva tutti col suo lavoro, a cui aggiungeva degli straordinari in casa la sera; lavorava fino a tarda notte in mezzo alla confusione dei bambini e delle tre cieche che strillavano per una ragione o per l’altra; quindi, quando non ce la faceva più, si addormentava su un vecchio divano per risvegliarsi intontito la mattina seguente e ricominciare la giornata daccapo. Finchè, una notte, come lo stesso Belluca racconta al vicino di casa:

(…) Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l'eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d'addormentarsi subito. E, d'improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno.

Gli era parso che gli orecchi, dopo tant'anni, chi sa come, d'improvviso gli si fossero sturati.

Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d'un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s'era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt'intorno.

S'era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s'allontanava nella notte.

C'era, ah! c'era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c'era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s'avviava… Firenze, Bologna, Torino, Venezia… tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sí, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr'egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato piú! Il mondo s'era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell'arida, ispida angustia della sua computisteria… Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L'attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l'immaginazione d'improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari… Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C'erano, mentr'egli qua viveva questa vita «impossibile», tanti e tanti milioni d'uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch'egli qua soffriva, c'erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti… Sí, sí, le vedeva, le vedeva, le vedeva cosí… c'erano gli oceani… le foreste…

E, dunque, lui – ora che il mondo gli era rientrato nello spirito – poteva in qualche modo consolarsi! Sí, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l'immaginazione una boccata d'aria nel mondo.

Gli bastava!

Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S'era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d'un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva.

Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo-ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo-ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l'altra da registrare, egli facesse una capatina, sí, in Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo:

— Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato…



10) La presa di coscienza di Belluca, il suo avvertire lo scorrere della vita al di fuori della sua vita, non comporta, come invece per altri personaggi (Mattia Pascal o, meglio ancora, Vitangelo Moscarda di Uno nessuno centomila), un rifiuto totale della “forma” entro cui si sentono imprigionati. Infatti, come è detto, Belluca riprenderà il suo lavoro di ragioniere, riprenderà la sua vita “impossibile” e potrà sopportarla perché si concederà di tanto in tanto una evasione da quella vita con la fantasia.

La carriola

11) Qualcosa di simile succede al protagonista dell’altra novella, La carriola (pubblicata nel 1917): la presa di coscienza della falsità della propria vita che si traduce non in una ribellione totale, ma in uno sfogo tutto privato che lascia intatta, esternamente, la sua figura sociale, non modifica, per chi la veda dall’esterno, l’andamento della sua vita. Qui il protagonista non è un piccolo borghese come Belluca, ma un alto borghese, di cui non è fatto il nome ma si dice che è avvocato e professore universitario di diritto, marito e padre inappuntabile. E’ lui stesso che dice di sé:

Sono affidati a me la vita, l'onore, la libertà, gli averi di gente innumerevole che m'assedia dalla mattina alla sera per avere la mia opera, il mio consiglio, la mia assistenza; d'altri doveri altissimi sono gravato, pubblici e privati: ho moglie e figli, che spesso non sanno essere come dovrebbero, e che perciò hanno bisogno d'esser tenuti a freno di continuo dalla mia autorità severa, dall'esempio costante della mia obbedienza inflessibile e inappuntabile a tutti i miei obblighi, uno piú serio dell'altro, di marito, di padre, di cittadino, di professore di diritto, d'avvocato.

12) Ma anche per lui sorge inaspettatamente il pensiero della falsità della propria vita e di una vita autentica che scorre altrove. Stavo ritornando in treno da Perugia, dice (il narratore è lui stesso), dove ero andato per affari della mia professione, e immerso nei miei pensieri guardavo fuori dal finestrino il paesaggio umbro. A poco a poco i pensieri svaniscono e la sua mente avverte, seppur confusamente, in quella “infinita lontananza” “il brulichio di una vita diversa”:

Non pensavo a ciò che vedevo e non pensai piú a nulla: restai, per un tempo incalcolabile, come in una sospensione vaga e strana, ma pur chiara e placida. Ariosa. Lo spirito mi s'era quasi alienato dai sensi, in una lontananza infinita, ove avvertiva appena, chi sa come, con una delizia che non gli pareva sua, il brulichio d'una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto esser sua, non qua, non ora, ma là, in quell'infinita lontananza; d'una vita remota, che forse era stata sua, non sapeva come né quando; di cui gli alitava il ricordo indistinto non d'atti, non d'aspetti, ma quasi di desiderii prima svaniti che sorti.

13) Si assopisce e quando si risveglia alla stazione d’arrivo, si sente diverso, sente altra da sé la propria figura sociale al punto che, quando si trova davanti alla porta di casa, sente come estranea la persona – lui stesso – il cui nome è inciso sulla targhetta d’ottone:

Io vidi a un tratto, innanzi a quella porta scura, color di bronzo, con la targa ovale, d'ottone, su cui è inciso il mio nome, preceduto dai miei titoli e seguito da' miei attributi scientifici e professionali, vidi a un tratto, come da fuori, me stesso e la mia vita, ma per non riconoscermi e per non riconoscerla come mia.

Spaventosamente d'un tratto mi s'impose la certezza, che l'uomo che stava davanti a quella porta, con la busta di cuojo sotto il braccio, l'uomo che abitava là in quella casa, non ero io, non ero stato mai io. Conobbi d'un tratto d'essere stato sempre come assente da quella casa, dalla vita di quell'uomo, non solo, ma veramente e propriamente da ogni vita. Io non avevo mai vissuto; non ero mai stato nella vita; in una vita, intendo, che potessi riconoscer mia, da me voluta e sentita come mia. Anche il mio stesso corpo, la mia figura, quale adesso improvvisamente m'appariva, così vestita, così messa su, mi parve estranea a me; come se altri me l'avesse imposta e combinata, quella figura, per farmi muovere in una vita non mia, per farmi compiere in quella vita, da cui ero stato sempre assente, atti di presenza, nei quali ora, improvvisamente, il mio spirito s'accorgeva di non essersi mai trovato, mai, mai!



14) Anche la moglie e i figli non gli sembrano suoi, ma di un altro uomo, di un’altra vita:

Mia moglie? i miei figli? Ma se non ero stato mai io, veramente, se veramente non ero io (e lo sentivo con spaventosa certezza) quell'uomo insoffribile che stava davanti alla porta; di chi era moglie quella donna, di chi erano figli quei quattro ragazzi? Miei, no! Di quell'uomo, di quell'uomo che il mio spirito, in quel momento, se avesse avuto un corpo, il suo vero corpo, la sua vera figura, avrebbe preso a calci o afferrato, dilacerato, distrutto, insieme con tutte quelle brighe, con tutti quei doveri e gli onori e il rispetto e la ricchezza, e anche la moglie, sì, fors'anche la moglie...

Ma i ragazzi?

Mi portai le mani alle tempie e me le strinsi forte.

No. Non li sentii miei. Ma attraverso un sentimento strano, penoso, angoscioso, di loro, quali essi erano fuori di me, quali me li vedevo ogni giorno davanti, che avevano bisogno di me, delle mie cure, del mio consiglio, del mio lavoro; attraverso questo sentimento e col senso d'atroce afa col quale m'ero destato in treno, mi sentii rientrare in quell'uomo insoffribile che stava davanti alla porta.

Trassi di tasca il chiavino; aprii quella porta e rientrai anche in quella casa e nella vita di prima.



15) Dunque l’avvocato professore non può che rassegnarsi a quella forma che ormai si porta addosso; come l’impiegato Belluca, accetta di rientrare in quella vita che non sente più come sua; da quella vita non può più liberarsi:

E come puoi piú liberarti? Come potrei io nella prigione di questa forma non mia, ma che rappresenta me quale sono per tutti, quali tutti mi conoscono e mi vogliono e mi rispettano, accogliere e muovere una vita diversa, una mia vera vita? una vita in una forma: che sento morta, ma che deve sussistere per gli altri, per tutti quelli che l'hanno messa su e la vogliono così e non altrimenti? Dev'essere questa, per forza. Serve così, a mia moglie, ai miei figli, alla società, cioè ai signori studenti universitari della facoltà di legge, ai signori clienti che m'hanno affidato la vita, l'onore, la libertà, gli averi. Serve così, e non posso mutarla, non posso prenderla a calci e levarmela dai piedi; ribellarmi, vendicarmi, se non per un attimo solo, ogni giorno, con l'atto che compio nel massimo segreto, cogliendo con trepidazione e circospezione infinita il momento opportuno, che nessuno mi veda.

16) Ed ecco la conclusione: come Belluca si sarebbe concesso momenti d’evasione con la fantasia, così l’avvocato professore trova un suo sfogo privato, un atto di apparente follia, così come appariva follia il comportamento di Belluca:

Ecco. Ho una vecchia cagna lupetta, da undici anni per casa, bianca e nera, grassa, bassa e pelosa, con gli occhi già appannati dalla vecchiaja.

Tra me e lei non c'erano mai stati buoni rapporti. Forse, prima, essa non approvava la mia professione, che non permetteva si facessero rumori per casa; s'era messa però ad approvarla a poco a poco, con la vecchiaja; tanto che, per sfuggire alla tirannia capricciosa dei ragazzi, che vorrebbero ancora ruzzare con lei giú nel giardino, aveva preso da un pezzo il partito di rifugiarsi qua nel mio studio da mane a sera, a dormire sul tappeto col musetto aguzzo tra le zampe. Tra tante carte e tanti libri, qua, si sentiva protetta e sicura. Di tratto in tratto schiudeva un occhio a guardarmi, come per dire:

«Bravo, sì, caro: lavora; non ti muovere di lì, perché è sicuro che, finché stai lì a lavorare, nessuno entrerà qui a disturbare il mio sonno.»

Così pensava certamente la povera bestia. La tentazione di compiere su lei la mia vendetta mi sorse, quindici giorni or sono, all'improvviso, nel vedermi guardato così.

Non le faccio male; non le faccio nulla. Appena posso, appena qualche cliente mi lascia libero un momento, mi alzo cauto, pian piano, dal mio seggiolone, perché nessuno s'accorga che la mia sapienza temuta e ambita, la mia sapienza formidabile di professore di diritto e d'avvocato, la mia austera dignità di marito, di padre, si siano per poco staccate dal trono di questo seggiolone; e in punta di piedi mi reco all'uscio a spiare nel corridojo, se qualcuno non sopravvenga; chiudo l'uscio a chiave, per un momento solo; gli occhi mi sfavillano di gioja, le mani mi ballano dalla voluttà che sto per concedermi, d'esser pazzo, d'esser pazzo per un attimo solo, d'uscire per un attimo solo dalla prigione di questa forma morta, di distruggere, d'annientare per un attimo solo, beffardamente, questa sapienza, questa dignità che mi soffoca e mi schiaccia; corro a lei, alla cagnetta che dorme sul tappeto; piano, con garbo, le prendo le due zampine di dietro e le faccio fare la carriola: le faccio muovere cioè otto o dieci passi, non piú, con le sole zampette davanti, reggendola per quelle di dietro.

Questo è tutto. Non faccio altro. Corro subito a riaprire l'uscio adagio adagio, senza il minimo cricchio, e mi rimetto in trono, sul seggiolone, pronto a ricevere un nuovo cliente, con l'austera dignità di prima, carico come un cannone di tutta la mia sapienza formidabile.

Ma, ecco, la bestia, da quindici giorni, rimane come basita a mirarmi, con quegli occhi appannati, sbarrati dal terrore. Vorrei farle intendere - ripeto - che non è nulla; che stia tranquilla, che non mi guardi così.

Comprende, la bestia, la terribilità dell'atto che compio.

Non sarebbe nulla, se per scherzo glielo facesse uno dei miei ragazzi. Ma sa ch'io non posso scherzare; non le è possibile ammettere che io scherzi, per un momento solo; e seguita maledettamente a guardarmi, atterrita.

17) Anche per il protagonista del romanzo più famoso di Pirandello, Il fu Mattia Pascal, c’è la necessità di rientrare in quella vita falsa da cui aveva cercato di fuggire; ma per lui, come vedremo, questo sarà impossibile e gli toccherà vivere da emarginato, da morto vivente, tant’è che lui stesso, a conclusione della sua vicenda, dice di sé: “Io sono il fu Mattia Pascal”.

Il fu Mattia Pascal

18) Il fu Mattia Pascal, pubblicato nel 1904, è un romanzo fortemente innovativo per tanti aspetti, per quanto riguarda sia la tecnica narrativa sia la originalità degli spunti tematici. Ed è un romanzo in cui si esplica pienamente la cosiddetta poetica dell’umorismo, tant’è che il saggio Sull’umorismo che Pirandello pubblicherà quattro anni dopo recherà la seguente dedica: “Alla buon anima di Mattia Pascal, bibliotecario”.

19) Quanto alle novità della tecnica narrativa, mi limito a dire che la narrazione è in prima persona (contro la terza delle due precedenti prove: L’esclusa e Il turno); l’io narrante non è un semplice testimone che riferisce vicende altrui (così in Il treno ha fischiato), ma è il protagonista stesso che, a vicenda conclusa, dichiara di volere scrivere la propria storia; l’effetto è quello di uno sdoppiamento fra l’io narrante e l’io protagonista, con una sorta di ricorrente dialogo fra i due (del tipo: “agii così, perché pensavo così; adesso capisco che avrei dovuto pensarla diversamente”) e con una disarticolazione del “normale” ordine cronologico: la consequenzialità del “prima” e del “poi” è interrotta dalla interferenza del presente del narratore sul passato della vicenda: una interferenza che, preminente nelle due premesse e ripresa nell’ultimo capitolo, riaffiora anche lungo il romanzo; ad esempio, quando Mattia sta per cominciare a raccontare del suo matrimonio, si interrompe e si rivolge al suo amico bibliotecario che già conosce la storia:

Il mio matrimonio, invece...

— Bisognerà pure che ne parli, eh, don Eligio, del mio matrimonio?

Arrampicato là, su la sua scala da lampionajo, don Eligio Pellegrinotto mi risponde:

— E come no? Sicuro. Pulitamente...

— Ma che pulitamente! Voi sapete bene che...

Don Eligio ride, e tutta la chiesetta sconsacrata con lui. Poi mi consiglia:

— S'io fossi in voi, signor Pascal, vorrei prima leggermi qualche novella del Boccaccio o del Bandello. Per il tono, per il tono...

Ce l'ha col tono, don Eligio. Auff! Io butto giù come vien viene.

Coraggio, dunque; avanti!



Inoltre la narratività tradizionale si dilata fino ad accogliere ampi inserti di esposizione teorica (il cap. sulla “lanternino-sofia”) o un dialogato di tipo teatrale (capp. IX e XVII); c’è un uso grafico-visivo della parola (stampatelli, maiuscoli, grassetti, corsivi; la necrologia di Lodoletta, listata a lutto, al cap. VII; la riproduzione dell’epigrafe tombale nell’ultima pagina; ecc.).

20) Ma veniamo alla vicenda, che cercherò di riassumere brevemente. Ci sono due premesse, in cui Mattia presenta se stesso e dice di vivere nella biblioteca del paese, dove, su insistenza dell’attuale bibliotecario, don Eligio Pellegrinotto, si è deciso a scrivere – seppure controvoglia – la propria incredibile storia. Quindi comincia, appunto, la storia vera e propria, che si può suddividere in più parti.

21) Una prima parte (dal cap. III al cap. V) in cui si raccontano le vicende di Mattia a Miragno (paese immaginario, inventato dall’autore e collocato in Liguria) dall’infanzia, all’inferno coniugale, alla fuga da quell’inferno. Le ricchezze dell’agiata famiglia vengono a poco a poco dilapidate dal disonesto amministratore Batta Malagna; il giovane Mattia, inesperto ed inetto, mette incinta Romilda (nipote del Malagna) e quindi si vede costretto a sposarla, anche se di malavoglia perché ha scoperto – ahimè, troppo tardi! – che sia Romilda che la di lei madre – la terribile vedova Pescatore – sono soltanto della calcolatrici che gli faranno vivere una vita infernale; infatti così è, inizia una convivenza impossibile fra Mattia, la propria madre – peraltro dolce e buona – la moglie e la suocera; inoltre, data la miseria economica in cui è precipitato, Mattia si deve adattare al lavoro mortificante e poco redditizio di bibliotecario.

22) Si ripropone dunque la condizione tipica di tanti personaggi pirandelliani, la condizione di sentirsi prigioniero di una trappola sociale, costretto, come Belluca, ad una vita impossibile, fra una famiglia oppressiva ed un lavoro frustrante. Ma alcuni eventi del tutto casuali danno a Mattia la possibilità di fuoriuscire da quella “forma” e lasciarsi andare nel fiume della “vita”. Ed è questa una seconda parte del romanzo (dal cap. VI al cap. IX).

23) Muoiono le due gemelle nate da Romilda, muore anche la madre, maltrattata dalle due megere; per il funerale della madre il fratello Berto manda a Mattia 500 lire, cui però ha già provveduto la zia Scolastica; con questi soldi Mattia progetta di imbarcarsi a Marsiglia e andarsene in America, ma giunto a Nizza cambia idea, va a Montecarlo e al casinò vince 82.000 lire. E’ questo il primo evento fortuito, 82.000 lire sono una cifra notevole e non c’è niente di più casuale che vincere al casinò. Mattia tornerebbe da trionfatore a Miragno, se non fosse che in treno legge su un giornale la notizia del ritrovamento di un cadavere mezzo putrefatto nella gora di un mulino, e tuttavia riconosciuto come suo da moglie e suocera; è questo il secondo evento fortuito che consente a Mattia di cogliere l’occasione per vivere una nuova vita, viaggiando per l’Europa e attribuendosi una nuova identità: Adriano Meis.

24) Segue una terza parte (dal cap. X al cap. XVI) in cui si raccontano le vicende di Adriano Meis a Roma fino al suo finto suicidio. Mattia-Adriano è stanco di viaggiare, senza relazioni umane se non superficiali, senza affetti, senza una casa, si sente un “forestiere della vita”:

M'ero spassato abbastanza, correndo di qua e di là: Adriano Meis aveva avuto in quell'anno la sua giovinezza spensierata; ora bisognava che diventasse uomo, si raccogliesse in sé, si formasse un abito di vita quieto e modesto. Oh, gli sarebbe stato facile, libero com'era e senz'obblighi di sorta! Così mi pareva; e mi misi a pensare in quale città mi sarebbe convenuto di fissar dimora, giacché come un uccello senza nido non potevo più oltre rimanere, se proprio dovevo compormi una regolare esistenza. Ma dove? in una grande città o in una piccola? Non sapevo risolvermi. Chiudevo gli occhi e col pensiero volavo a quelle città che avevo già visitate; dall'una all'altra, indugiandomi in ciascuna fino a rivedere con precisione quella tal via, quella tal piazza, quel tal luogo, insomma, di cui serbavo più viva memoria; e dicevo: «Ecco, io vi sono stato! Ora, quanta vita mi sfugge, che séguita ad agitarsi qua e là variamente. Eppure, in quanti luoghi ho detto: — Qua vorrei aver casa! Come ci vivrei volentieri! —. E ho invidiato gli abitanti che, quietamente, con le loro abitudini e le loro consuete occupazioni, potevano dimorarvi, senza conoscere quel senso penoso di precarietà che tien sospeso l'animo di chi viaggia.» Questo senso penoso di precarietà mi teneva ancora e non mi faceva amare il letto su cui mi ponevo a dormire, i varii oggetti che mi stavano intorno.(…) Ma una casa, una casa mia, tutta mia, avrei potuto più averla? (...) una casettina modesta, di poche stanze? Piano: bisognava vedere, considerar bene prima, tante cose. Certo, libero, liberissimo, io potevo essere soltanto così, con la valigia in mano: oggi qua, domani là. Fermo in un luogo, proprietario d'una casa, eh, allora: registri e tasse subito! E non mi avrebbero iscritto all'anagrafe? Ma sicuramente! E come? con un nome falso? E allora, chi sa?, forse indagini segrete intorno a me da parte della polizia... Insomma, impicci, imbrogli!... No, via: prevedevo di non poter più avere una casa mia, oggetti miei. Ma mi sarei allogato a pensione in qualche famiglia, in una camera mobiliata. (…) La mia fortuna – dovevo convincermene – la mia fortuna consisteva appunto in questo: nell'essermi liberato della moglie, della suocera, dei debiti, delle afflizioni umilianti della mia prima vita. Ora, ero libero del tutto. Non mi bastava? Eh via, avevo ancora tutta una vita innanzi a me. Per il momento... chi sa quanti erano soli com'ero io! «Sì, ma questi tali,» m'induceva a riflettere il cattivo tempo, quella nebbia maledetta, «o son forestieri e hanno altrove una casa, a cui un giorno o l'altro potranno far ritorno, o se non hanno casa come te, potranno averla domani, e intanto avran quella ospitale di qualche amico. Tu invece, a volerla dire, sarai sempre e dovunque un forestiere: ecco la differenza. Forestiere della vita, Adriano Meis

25) Quindi Mattia-Adriano si stabilisce a Roma, presso la pensione di certo Anselmo Paleari (un vecchio pensionato, appassionato di spiritismo), della cui figlia, Adriana, s’innamora, e dove soggiornano anche una maestra di pianoforte fallita, dedita anche all’attività di medium – la signorina Caporale – e un  losco individuo, che ha delle mire su Adriana, della cui sorella è vedovo – Terenzio Papiano; Mattia-Adriano, privo di una vera identità anagrafica, non può sposare Adriana, né, derubato da Papiano, può denunciare il furto, e nemmeno, avendo litigato con un pittore (Bernaldez), può sfidarlo a duello; decide quindi di inscenare un finto suicidio, lasciando bastone e cappello su un ponte del Tevere.

26) La parte finale (cap. XVII e XVIII) tratta del ritorno di Mattia a Miragno. Nel suo tentativo di vivere libero, di seguire senza costrizioni il flusso della vita, Mattia è uno sconfitto; è disposto a riprendere la sua vita impossibile, pur di avere consistenza sociale. E’ felice di poter tornare ad essere Mattia Pascal; certo, rafforzato dalla esperienza che ha fatto, è sicuro di poter mettere al loro posto sia lo moglie che la suocera. Ma lo attende una sorpresa: Romilda  si è risposata con Pomino, il vecchio amico di Mattia, da cui ha avuto una figlia; Mattia rinuncia a far valere i suoi diritti (con la sua ricomparsa il nuovo matrimonio sarebbe nullo) e decide di vivere come “fu Mattia Pascal”; non può reinserirsi nella vita normale, non gli rimane altra possibilità che guardare da lontano gli altri; vive con la vecchia zia Scolastica e passa le giornate nella vecchia biblioteca del paese, da dove esce di tanto in tanto per portare fiori sulla tomba che reca il suo nome. E a chi gli chiede:

“Ma voi, insomma, si può sapere chi siete?”

Mi stringo sulle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo:

“Eh, caro mio… Io sono il fu Mattia Pascal



27) Possiamo comprendere la natura “umoristica”, nel senso pirandelliano, della vicenda e del personaggio. Essere il “fu Mattia Pascal” è una contraddizione in termini, è quel “contrario” che appare comico nel primo “avvertimento”; ma tutto il romanzo non è altro che la riflessione che induce al “sentimento del contrario”, e dunque, mostrandoci l’aspetto doloroso della vicenda, ci fa ridere e piangere allo stesso tempo.

28) Ma riflettiamo ancora. Mattia si trova, sì, alla fine, in quella condizione paradossale, ma torna a Miragno perché si rende conto che non può vivere senza una “forma”, senza un’identità socialmente riconosciuta. Con qualche variante, è la stessa conclusione cui erano arrivati Belluca de Il treno ha fischiato e il professore-avvocato de La carriola. Ma c’è un personaggio che invece percorre fino in fondo la strada che conduce dal rifiuto della forma in cui si è imprigionati all’immersione totale nel fiume della vita, senza più alcuna identità. Si tratta di Vitangelo Moscarda (detto Gengè dalla moglie), il protagonista di Uno nessuno centomila.

Uno nessuno centomila

29) A questo romanzo Pirandello ha lavorato a lungo; l’ha pubblicato nel 1925, ma era in gestazione dal 1909. In più occasioni Pirandello l’ha indicato come il romanzo in cui si compiva il suo pensiero, ne parlava come del romanzopiù amaro di tutti, profondamente umoristico”: “E’ il romanzo – disse in un’intervista – della scomposizione della personalità. Esso giunge alle conclusioni più estreme, alle conseguenze più lontane. Spero che apparirà in esso più chiaro di quel che non sia apparso finora, il lato positivo del mio pensiero.”

30) Come Il fu Mattia Pascal, Uno nessuno centomila  è  scritto in prima persona e analogamente il protagonista narra la sua storia a vicenda conclusa. Per Moscarda l’occasione di partenza per il grande viaggio verso la disintegrazione della propria identità è un evento quanto mai banale, un rilievo della moglie: hai il naso storto, ti pende da una parte, gli dice, destando la sua grande meraviglia perché di quel difetto lui non s’era mai accorto. Ecco la scoperta che gli altri ci vedono in maniera diversa da come noi pensiamo di essere, e se questo è vero per l’aspetto fisico ancor di più lo sarà per l’aspetto morale, per il ruolo sociale che ricopriamo. E infatti la scoperta successiva di Moscarda è che su di lui grava l’immagine di usuraio che ha ereditato dal padre. Il padre era effettivamente un usuraio, che gli ha lasciato in eredità una banca – di cui per altro lui si disinteressa, avendola affidata ad un amministratore e contentandosi di vivere di rendita. Ma allora, si chiede Moscarda, se gli altri mi vedono in maniera diversa, anzi in tante maniere diverse, da quello che io penso di essere, qual è il mio vero io? Ecco allora la volontà di affermare il se stesso autentico, di vivere senza lasciarsi condizionare dagli obblighi sociali, senza le maschere che la società gli ha messo addosso, prima di tutte quella di usuraio. Per fare ciò comincia a compiere una serie di atti stravaganti, vere e proprie pazzie. Prima sfratta un poveraccio, un certo Marco di Dio, cui il padre aveva concesso di vivere in una catapecchia; poi gli regala un appartamento; quindi esige di occuparsi direttamente della banca e dei beni paterni; se ne occupa proponendo di liquidare la banca, tanto che la moglie, il suocero e gli amministratori della banca si adoperano per farlo interdire; ma, con l’aiuto, interessato, del vescovo, Moscarda riesce a realizzare il suo proposito, devolve il tutto per la fondazione di un ospizio di carità e in tale ospizio lui stesso prende dimora, vivendo e vestendosi come gli altri ricoverati.

31) Non vuole più essere Vitangelo Moscarda, non vuole più avere un nome, perché un nome è già una forma che separa dal fluire della vita. Vuole identificarsi totalmente con la natura, senza pensieri e senza identità, senza passato e senza futuro, morendo e rinascendo in ogni attimo. Così nell’ultima pagina:

Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli piú. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.

L’ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora voglio serbare lo spirito cosí, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono, che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli. (...) E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere piú nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Cosí soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.

La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non piú dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioja nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridío delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e cosí alte sui campanili aerei. Pensare alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho piú questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non piú in me, ma in ogni cosa fuori.

32) Moscarda è dunque il personaggio pirandelliano che va fino in fondo, che non accetta compromessi con le convenzioni sociali come Belluca de Il treno ha fischiato o il professore-avvocato de La carriola, e neppure come Mattia Pascal, che si è, sì, estraniato dalla società, ma perchè costretto, dopo aver cercato invano di vivere con una nuova identità e poi di recuperare la vecchia. Moscarda invece fa il salto nel vuoto, nega ogni identità ed è felice della sua condizione, si sente albero, nuvola, vento. “La città è lontana”, dice, e la città è il luogo del vivere sociale, mentre lui ora si sente in sintonia con la natura, vive nel suo ritmo, finalmente è immerso nel fiume della vita.

33) Per questa conclusione del romanzo, per questa esaltazione della vitalità della natura in cui si annulla l’io individuale, si è parlato di una sorta di misticismo laico. Ma se facciamo un passo indietro e torniamo a Il fu Mattia Pascal troviamo in un paio di episodi quella che può essere una vera e propria spiegazione di questa idea di Pirandello.

Lo “strappo nel cielo di carta”…

34) Anselmo Paleari, il proprietario della pensione in cui a Roma alloggia Mattia, alias Adriano Meis, è un appassionato di spiritismo e teosofia. La teosofia è una dottrina filosofico-religiosa di derivazione indiana che, fra le altre cose, contempla anche la metempsicosi, ovvero la continuazione della vita in esistenze successive dopo la morte; una dottrina che, come del resto lo spiritismo, ebbe un certo successo fra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento. Anche Pirandello, sappiamo, aveva le stesse passioni e dunque non c’è dubbio che si serva del suddetto personaggio per esprimere le proprie idee.

35) All’inizio del cap. XII, Anselmo Paleari dice che delle marionette automatiche rappresenteranno la tragedia di Oreste (l’Elettra  di Sofocle); e però, se nel bel mezzo della rappresentazione si strappasse il cielo di carta, Oreste rimarrebbe sconcertato e si trasformerebbe in Amleto: qui sta la differenza fra la tragedia antica e quella moderna:

— La tragedia d'Oreste in un teatrino di marionette! — venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. — Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis. — La tragedia d'Oreste? — Già! D'après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l'Elettra. Ora senta un po', che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei. — Non saprei, — risposi, stringendomi ne le spalle. — Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo. — E perché? — Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl'impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.



36) Il parallelo fra le due tragedie non è casuale: in ambedue il protagonista vendica l’uccisione del padre (Agamennone/re di Danimarca) uccidendo la madre (Clitemnestra/Gertrude) e il di lei amante (Egisto/Claudio). Ma Oreste vive in un mondo di certezze, aderisce pienamente alla vita, la sua identità e il suo mondo sono certi, i suoi sentimenti sono elementari e determinati; se “il cielo si strappa” (e il teatro è evidentemente metafora della vita), Oreste perde i propri punti di riferimento, non è più sicuro dell’universo in cui vive, si rende conto che la realtà che ha sempre creduto vera non è la vera realtà, c’è una realtà più vera, estranea alla sua visione; e allora non può non porsi domande su se stesso, sul senso del suo rapporto con gli altri e con il mondo; è irrimediabilmente sdoppiato, non vive ma si vede vivere, non agisce ma medita sull’azione (diventa, appunto, Amleto). Questa, per Pirandello, è proprio la condizione dell’uomo moderno, che non ha più le grandi certezze e i grandi ideali del passato, su cui tutti convenivano; quell’uomo, come Oreste, non era corroso da dubbi e perplessità, andava diritto allo scopo – cosa che non riesce più a fare l’uomo moderno,  paralizzato da quei dubbi ed insicuro della realtà che vede e della verità in cui crede.

37) Questo episodio mi fa sempre venire in mente quel grande film di qualche anno fa, il Truman show, un film straordinariamente significativo. Truman vive sin da neonato in un reality, vive in una realtà finta, con relazioni umane finte, un mare finto, un cielo finto; ma per lui quella è l’unica realtà, è la sola realtà che ha sempre percepito, finchè anche per lui, idealmente, si strappa “il cielo di carta” e finalmente capisce che era imprigionato in quella visione limitata e soggettiva, che il mondo vero è un altro e sta al di fuori della sua visione.

… e la “lanterninosofia”

38) Questo discorso ha la sua continuazione ideale in un altro capitolo del romanzo, nel cap. XIII, intitolato Il lanternino. Sempre Anselmo Paleari, espone una sua teoria (la “lanterninosofia”, ovvero la filosofia del lanternino) ad Adriano, quando questi deve stare per un certo periodo al buio a seguito dell’operazione a un occhio (fatta per “raddrizzare” lo strabismo e nello stesso tempo cambiare i connotati di Mattia):

E il signor Anselmo… mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l'albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l'aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch'esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna. E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; (…) un lanternino che projetta tutt'intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l'ombra nera, l'ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch'esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell'Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione?



39) Insomma, a differenza degli altri elementi naturali (alberi, animali), noi ci sentiamo vivere, ci sentiamo cioè distinti dalla realtà che ci circonda; tale realtà è per noi come un grande buio, rispetto al quale noi siamo come un lanternino che illumina una piccola sfera circostante. Il Paleari continua spiegando che la luce del lanternino altro non è che la nostra visione della realtà, determinata dalle idee dominanti nelle diverse epoche: più forti sono le certezze, più grande è la luce; in altri tempi ci sono stati dei “lanternoni”, oggi ci sono luci piccole e allo sbando (mancano fedi, ideali, certezze):



Ma domando io ora, signor Meis: E se tutto questo bujo, quest'enorme mistero, nel quale indarno i filosofi dapprima specularono, e che ora, pur rinunziando all'indagine di esso, la scienza non esclude, non fosse in fondo che un inganno come un altro, un inganno della nostra mente (…)? Se noi finalmente ci persuadessimo che tutto questo mistero non esiste fuori di noi, ma soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento che noi abbiamo della vita, del lanternino cioè, di cui le ho finora parlato? Se la morte, insomma, che ci fa tanta paura, non esistesse e fosse soltanto, non l'estinzione della vita, ma il soffio che spegne in noi questo lanternino, lo sciagurato sentimento che noi abbiamo di essa, penoso, pauroso, perché limitato, definito da questo cerchio d'ombra fittizia, oltre il breve àmbito dello scarso lume, che noi, povere lucciole sperdute, ci projettiamo attorno, e in cui la vita nostra rimane come imprigionata, come esclusa per alcun tempo dalla vita universale, eterna, nella quale ci sembra che dovremo un giorno rientrare, mentre già ci siamo e sempre vi rimarremo, ma senza più questo sentimento d'esilio che ci angoscia? Il limite è illusorio, è relativo al poco lume nostro, della nostra individualità: nella realtà della natura non esiste. Noi, – non so se questo possa farle piacere – noi abbiamo sempre vissuto e sempre vivremo con l'universo; anche ora, in questa forma nostra, partecipiamo a tutte le manifestazioni dell'universo, ma non lo sappiamo, non lo vediamo, perché purtroppo questo maledetto lumicino piagnucoloso ci fa vedere soltanto quel poco a cui esso arriva; e ce lo facesse vedere almeno com'esso è in realtà!



40) Ecco dunque la conclusione: se questo buio non fosse che un’illusione, privilegio e maledizione dell’uomo, che ha il lanternino? Se questo buio (della realtà fuori di noi e dopo di noi) non fosse che una creazione, per contrasto, della luce? Fuor di metafora, se questo buio non fosse che una proiezione ingannevole della nostra percezione soggettiva, del nostro sentirci individui a sé stanti, “io” separato dal mondo, individui separati dalla totalità dell’essere? Allora la morte non sarebbe un precipitare nel buio, ma solo uno spegnersi del lanternino, finalmente, che ci consentirebbe di appartenere (come siamo sempre appartenuti, del resto, ma non più con il sentimento della propria individualità separata, e con la relativa paura) alla vita universale, all’Essere, alla Verità.

41) E dunque, se è così, Vitangelo Moscarda non è altro che l’uomo che ha spento il lanternino ed ora appartiene alla vita universale, all’Essere, alla Verità. Per il Paleari il lanternino si spegne con la morte, che non è un annullamento della vita, ma la possibilità di entrare nella verità della vita. Moscarda ci entra da vivo, spogliandosi della sua identità (appunto, spegnendo il lanternino) e dunque sentendosi tutt’uno con la natura, con la vita universale, non più separato da essa.

Di sera, un geranio

42) Ma Pirandello ha pensato anche alla morte in maniera originale e coerente con questi presupposti. C’è una breve novella esemplare in questo senso, una novella che mi piacerebbe leggere: Di sera, un geranio (pubblicata nel 1934). Si descrive il passaggio dalla vita alla morte, un’anima, uno spirito che si stacca da un corpo, mantiene per un po’ la sua individualità, ma poi a poco a poco perde consistenza, si diffonde nella realtà esterna, tende a svanire:

S'è liberato nel sonno, non sa come; forse come quando s'affonda nell'acqua, che si ha la sensazione che poi il corpo riverrà sú da sé, e sú invece riviene solamente la sensazione, ombra galleggiante del corpo rimasto giú.

Dormiva, e non è piú nel suo corpo; non può dire che si sia svegliato; e in che cosa ora sia veramente, non sa; è come sospeso a galla nell'aria della sua camera chiusa.

Alienato dai sensi, ne serba piú che gli avvertimenti il ricordo, com'erano; non ancora lontani ma già staccati: là l'udito, dov’è un rumore anche minimo nella notte; qua la vista, dov'è appena un barlume; e le pareti, il soffitto (come di qua pare polveroso) e giú il pavimento col tappeto, e quell'uscio, e lo smemorato spavento di quel letto col piumino verde e le coperte giallognole, sotto le quali s'indovina un corpo che giace inerte; la testa calva, affondata sui guanciali scomposti; gli occhi chiusi e la bocca aperta tra i peli rossicci dei baffi e della barba, grossi peli, quasi metallici; un foro secco, nero; e un pelo delle sopracciglia cosí lungo, che se non lo tiene a posto, gli scende sull'occhio.

Lui, quello! Uno che non è piú. Uno a cui quel corpo pesava già tanto. E che fatica anche il respiro! Tutta la vita, ristretta in questa camera; e sentirsi a mano a mano mancar tutto, e tenersi in vita fissando un oggetto, questo o quello, con la paura d'addormentarsi. Difatti poi, nel sonno…



Come gli suonano strane, in quella camera, le ultime parole della vita:

— Ma lei è di parere che, nello stato in cui sono ridotto, sia da tentare un'operazione cosí rischiosa?

— Al punto in cui siamo, il rischio veramente…

— Non è il rischio. Dico se c'è qualche speranza.

— Ah, poca.

— E allora…

La lampada rosea, sospesa in mezzo alla camera, è rimasta accesa invano.



Ma dopo tutto, ora s'è liberato, e prova per quel suo corpo là, piú che antipatia, rancore.

Veramente non vide mai la ragione che gli altri dovessero riconoscere quell'immagine come la cosa piú sua.

Non era vero. Non è vero.

Lui non era quel suo corpo; c'era anzi cosí poco; era nella vita lui, nelle cose che pensava, che gli s'agitavano dentro, in tutto ciò che vedeva fuori senza piú vedere se stesso. Case strade cielo. Tutto il mondo.

Già, ma ora, senza piú il corpo, è questa pena ora, è questo sgomento del suo disgregarsi e diffondersi in ogni cosa, a cui, per tenersi, torna a aderire ma, aderendovi, la paura di nuovo, non d'addormentarsi, ma del suo svanire nella cosa che resta là per sé, senza piú lui: oggetto: orologio sul comodino, quadretto alla parete, lampada rosea sospesa in mezzo alla camera.

Lui è ora quelle cose; non piú com'erano, quando avevano ancora un senso per lui; quelle cose che per se stesse non hanno alcun senso e che ora dunque non sono piú niente per lui.

E questo è morire.

Il muro della villa. Ma come, n'è già fuori? La luna vi batte sopra; e giú è il giardino.

La vasca, grezza, è attaccata al muro di cinta. Il muro è tutto vestito di verde dalle roselline rampicanti.

L'acqua, nella vasca, piomba a stille. Ora è uno sbruffo di bolle. Ora è un filo di vetro, limpido, esile, immobile.

(…)

A galla, tante foglioline bianche e verdi, appena ingiallite. E a fior d'acqua, la bocca del tubo di ferro dello scarico, che si berrebbe in silenzio il soverchio dell'acqua, se non fosse per queste foglioline che, attratte, vi fan ressa attorno. Il risucchio della bocca che s'ingorga è come un rimbrotto rauco a queste sciocche frettolose frettolose a cui par che tardi di sparire ingojate, come se non fosse bello nuotar lievi e cosí bianche sul cupo verde vitreo dell'acqua. Ma se sono cadute! se sono cosí lievi! E se ci sei tu, bocca di morte, che fai la misura!

Sparire.

Sorpresa che si fa di mano in mano piú grande, infinita: l'illusione dei sensi, già sparsi, che a poco a poco si svuota di cose che pareva ci fossero e che invece non c'erano; suoni, colori, non c'erano; tutto freddo, tutto muto; era niente; e la morte, questo niente della vita com'era. Quel verde… Ah come, all'alba, lungo una proda, volle esser erba lui, una volta, guardando i cespugli e respirando la fragranza di tutto quel verde cosí fresco e nuovo! Groviglio di bianche radici vive abbarbicate a succhiar l'umore della terra nera. Ah come la vita è di terra, e non vuol cielo, se non per dare respiro alla terra! Ma ora lui è come la fragranza di un'erba che si va sciogliendo in questo respiro, vapore ancora sensibile che si dirada e vanisce (…) Una cosa, consistere ancora in una cosa, che sia pur quasi niente, una pietra. O anche un fiore che duri poco: ecco, questo geranio…



— Oh guarda giú, nel giardino, quel geranio rosso. Come s'accende! Perché?



Di sera, qualche volta, nei giardini s'accende cosí, improvvisamente, qualche fiore; e nessuno sa spiegarsene la ragione.
























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