mercoledì 15 febbraio 2017

Ungaretti: l'opera e la poetica


Ungaretti: l’opera e la poetica



Nato ad Alessandria d’Egitto (da emigranti d’origine lucchese) nel 1888, nel 1912 si reca a Parigi (studia alla Sorbona) dove frequenta gli ambienti dell’avanguardia (Picasso, De Chirico, Modigliani, Apollinaire). Nel 1914 viene in Italia per partecipare alla guerra (si arruola volontario in fanteria). Nascono le prime raccolte di poesie: Il porto sepolto (1916)[1] e Allegria di naufragi (1919)[2], che poi confluiranno ne L’allegria (1931). Del 1933 è Il sentimento del tempo. Dal 1936 insegna letteratura italiana presso l’università di San Paolo in Brasile, dal 1942 insegna all’università di Roma. Dall’esperienza della II guerra mondiale (nonché da quella di privati lutti famigliari: morte del fratello e del figlioletto) nascono Il dolore (1947), La terra promessa (1950-54), Il taccuino del vecchio (1961). Tutta la sua opera sarà poi pubblicata da Mondadori col titolo di Vita di un uomo.

Le poesie de L’allegria (che sono forse le più significative) nascono dal bisogno di riscoprire il senso della parola poetica in un periodo che sembra averne bruciato tutte le possibilità. Se solo pensiamo all’esperienza italiana, crepuscolari e futuristi, in modi diversi ma convergenti, hanno ugualmente contribuito ad una sistematica distruzione del valore della poesia (della sua possibilità di comunicare ideali, messaggi in positivo): gli uni giungendo, con il loro tono dimesso e rinunciatario, alla ‘vergogna’ della poesia (il passo successivo è il silenzio, come al crepuscolo segue la notte); gli altri servendosene come di uno strumento aggressivo e provocatorio nei confronti del vecchio, in nome di un futuro dai valori fortemente ambigui (tecnologia, velocità). Questa distruzione letteraria sembra essere portata a compimento dalla distruzione reale (di uomini e cose) operata dalla guerra.

Fra queste macerie, con un’opera faticosa di scavo, Ungaretti cerca di riportare alla luce la parola poetica, con la sua intensità significativa, sottratta al logoramento dell’uso quotidiano che la impoverisce, all’abuso retorico che le toglie credibilità. Nel deserto della distruzione, cosiccome nel silenzio della pagina bianca, la parola si accampa, isolata come uno scoglio, sillabata perché niente possa perdersene, pura e densa di significato come se fosse pronunciata ed ascoltata per la prima volta. Così si spiegano i “versicoli” ungarettiani, così si spiega la lettura lenta e faticosa che ne faceva il poeta.

Con Il sentimento del tempo (1933, ma include anche poesie scritte nel ’19) si ha un recupero delle strutture metriche tradizionali (endecasillabi, settenari, novenari: un recupero del “canto italiano”, dice lo stesso Ungaretti), oltre che delle strutture sintattiche, della punteggiatura, di un lessico più ricco e prezioso. In particolare, l’uso privilegiato e quasi virtuosistico delle analogie (che implicano associazioni intuitive, saltando i nessi logici, e quindi risultano spesso di non facile comprensione) fa della raccolta un modello per la poesia ermetica[3]





[1] Il titolo allude a un leggendario porto sommerso di Alessandria, precedente l’epoca tolemaica. Simbolicamente, indica il segreto della poesia, nascosto in una profondità in cui il poeta deve immergersi, per poi risalire con i suoi canti.
[2] E’ un titolo ossimorico, che vuole indicare contemporaneamente sia il senso della sconfitta come inevitabile condizione umana (in un mondo in cui tutto è “travolto, soffocato, consumato dal tempo”), sia l’esultanza della volontà, la vitalità, l’inesauribile determinazione di chi “subito riprende / il viaggio / come / dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare”.
[3] Il termine è usato da Flora nel 1936 e vuole indicare il carattere oscuro, criptico, di difficile comprensione di una scuola poetica attiva negli anni ’30 e che ha come esponenti più rappresentativi Salvatore Quasimodo, Alfonso Gatto,  Mario Luzi, Leonardo Sinisgalli. Etimologicamente la parola rimanda ad Ermete Trismegisto, presunto autore nel II-III sec. d.C. dei cosiddetti “libri ermetici” (testi filosofici di tipo “esoterico”, quindi particolarmente oscuri); tali libri furono poi associati nel Rinascimento alla sapienza alchemica, altrettanto occulta e sottratta alla comprensione comune (talchè l’espressione “chiusura ermetica” ha a che fare proprio con l’attività degli alchimisti che richiedeva chiusure di sicurezza per i loro crogiuoli, onde proteggersi dai pericolosi vapori di mercurio; e il mercurio non è solo l’elemento, ma anche la divinità che in greco ha nome Ermes e che, a sua volta, è il protettore degli alchimisti).

Montale: la vita, l'opera, la poetica


Montale: l’opera poetica

La vita

Di famiglia agiata (il padre era titolare di una ditta di prodotti chimici), nasce a Genova nel 1896. Da ragazzo passava le vacanze estive a Monterosso, nella Cinque Terre[1], dove il padre possedeva una villa.
La famiglia lo indirizza agli studi tecnici (si diploma in ragionieria), ma, come Svevo, coltiva da autodidatta (ma anche con l’aiuto della sorella, che si era iscritta alla facoltà di Lettere) la sua passione per la letteratura. Altra passione, che gli restò per tutta la vita e alla quale dedicò degli studi giovanili, fu quella per il canto.
Partecipa alla prima guerra mondiale. Nel dopo guerra entra in contatto con il gruppo degli ntellettuali torinesi che si riunivano intorno a Gobetti, nel 1925 firma il manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Croce.
Attraverso Bobi Bazlen conosce ed apprezza l’opera di Svevo (che, riconoscente, lo ospita a Trieste nel 1926).
Nel 1927 si trasferisce a Firenze dove viene assunto come redattore della casa editrice Bemporad. Nel 1929 è nominato direttore della biblioteca del Gabinetto letterario Viesseux (ma verrà licenziato nel 1938 perchè non iscritto al partito fascista). Dopo la seconda guerra mondiale aderisce al Partito d’Azione, da cui però si dimise dopo poco tempo.
Dal 1946 comincia la sua attività di redattore presso il Corriere della Sera.
Nel 1967 viene nominato senatore a vita.
Nel 1975 riceve il Nobel per la letteratura.
Muore nel 1981.

Ossi di seppia

Gli Ossi di seppia sono pubblicati nel 1925 e, dopo una poesia introduttiva (In limine), si suddividono in quattro sezioni (Movimenti, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi e ombre).
Il titolo rimanda, ambiguamente, sia al motivo del mare da cui l’osso di seppia proviene (e il mare è il luogo panico della felicità, il luogo della natura primigenia e indistinta[2]), sia al motivo della terra “desolata” ove si posa quel relitto, quanto mai inaridito, della vita organica (e la terra polverosa e seccata dal sole è il luogo della privazione e della negatività, ed è il paesaggio che fa da sfondo alle poesie degli Ossi, vero e proprio “correlativo oggettivo” dello stato d’animo del poeta[3]).
I precedenti sono senz’altro il D’Annunzio di Alcyone (della necessità di “attraversare D’Annunzio” per i poeti della sua generazione ha parlato lo stesso Montale), Pascoli e i crepuscolari (Gozzano in particolar modo, sulla cui lingua poetica Montale faceva un’osservazione che vale senz’altro anche per la propria: “fu il primo a far scoccare scintille accostando l’aulico al prosaico”). Di tali ascendenze dà conto una poesia come I limoni, dove la polemica nei confronti dei “poeti laureati” e delle “piante dai nomi poco usati” in nome di una vegetazione più comune (“erbosi fossi”, “ciuffi delle canne”, gli stessi limoni) richiama la predilezione pascoliana e poi crepuscolare per le “piccole cose” della quotidianità (e dunque per piante estranee alla tradizione poetica, quali il “trifoglio” di cui parla Pascoli o “il basilico, l’aglio e la cedrina” evocate da Gozzano). 
Il tema dominante è quello, già accennato, della opposizione mare-terra (che è anche opposizione campagna-città, infanzia-maturità). Il distacco dal mare è inevitabile, la vita è sulla terra, ma è una vita sentita come falsa, inautentica[4], in cui non sono individuabili un senso e una prospettiva; eppure anche sulla terra è possibile intravvedere, di tanto in tanto, quasi per miracolo, una via d’uscita, un “varco”, che ci salvi dalla falsità di ciò che appare, che ci metta in contatto, anche solo per un momento, con una dimensione più vera (è il miracolo consentito dai limoni, o dal girasole, o, ne La casa dei doganieri della raccolta successiva, dalla luce della petroliera che s’intravvede all’orizzonte).

La lingua e il “correlativo oggettivo”


Sul piano della lingua abbiamo una straordinaria mescolanza di lingua quotidiana (“pozzanghere”, “scalcinato muro”, “cocci aguzzi di bottiglia”) e parole inusuali, perché letterarie (in Gloria del disteso mezzogiorno: “occaso”, “compita”; in Cigola la carrucola nel pozzo atro fondo”)[5] o tecnicamente precise (“croco”, “veccia”) o recuperate etimologicamente (“divertite passioni”) o semplicemente rare (“cimase”, “pomario”). Ricorrente è anche l’uso di prefissi inconsueti, soprattutto per forme verbali (“incartocciarsi”, “disbrogliare”, “disvela”). Ne risulta, per fare riferimento, ma in senso rovesciato, alla poetica leopardiana, una poesia di “termini” (che indicano oggetti precisamente determinati) e non di “parole” (che comunicano sensazioni indefinite, secondo la definizione, e predilezione, di Leopardi); o anche, per usare una terminologia anceschiana, una  poetica delle cose”, ovvero una poesia colma di oggetti, nominati con precisione, che si contrappone alla “poetica delle parole” (più propria del simbolismo) che invece si serve di accostamenti analogici che evocano significati imprevisti, originali, non definiti né definibili.
Tali oggetti sono gli emblemi (o meglio, per usare l’espressione tratta da Eliot, il “correlativo oggettivo”) di un disagio esistenziale (di un male di vivere: “il rivo strozzato che gorgoglia”, “l’incartocciarsi della foglia riarsa”, “il cavallo stramazzato”; di una vita impedita: “una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia[6]) da cui vanamente si cerca una via d’uscita (“l’anello che non tiene”, “il filo da disbrogliare”).

La metrica


Per quanto riguarda la metrica, non abbiamo il verso assolutamente libero (com’era invece nel primo Ungaretti, che partiva dalla dissoluzione del verso tradizionale per attingere all’assoluto tramite la forza della parola pura), ma abbiamo, pur con numerosissime infrazioni e irregolarità, endecasillabi (e settenari), rime, strofe (si vedano le due quartine di Spesso il male di vivere, o le tre di Non chiederci la parola). L’uso della rima è quanto mai vario: c’è una predilezione per la rima ipermetra (amico-canicola in Non chiederci la parola; miracolo-ubriaco in Forse un mattino andando; fuggi-ruggine in In limine), ma ci sono anche rime al mezzo (laureati-usati, dolcezza-ricchezza, indaga-dilaga ne I limoni), consonanze (sempre ne I limoni: piante-acanti) e assonanze (passim). Notevole è anche la ricerca di suoni aspri (si veda il ricorrere insistito di parole con la doppia sibilante ne I limoni: o l’accavallarsi di consonanti dure in Meriggiare pallido e assorto): ciò ricorda le “rime aspre e chiocce” del Dante delle Petrose ed è senz’altro una sorta di “correlativo fonetico” di quella desolazione, sentimentale e conoscitiva, al centro della problematica montaliana.

Le occasioni

La raccolta Le occasioni è pubblicata nel 1939 (e come la raccolta precedente, anche questa è divisa in quattro sezioni, di cui solo la seconda ha un titolo: Mottetti). Il titolo della raccolta allude a una massima di Goethe (secondo cui le poesie sono sempre “d’occasione”), ma più precisamente le occasioni sono quegli eventi che sollecitano nel poeta il pensiero della possibilità di rompere la “campana di vetro” entro cui si sente racchiuso e di riconoscere, nel mondo circostante, nelle cose e negli accidenti, una prospettiva di senso. E’ una possibilità affidata alla memoria, che cerca, invano, di tenere saldo il filo che lega il presente al passato (così nella Casa dei doganieri, ma anche in Dora Markus o Non recidere, forbice, quel volto); ma ancor più è affidata alla figura femminile (qui più presente che negli Ossi, e più chiaramente l’interlocutrice diretta cui il poeta si rivolge con il “tu”), intermediaria fra le due dimensioni (fisica e metafisica), capace di resistere al male, novella Beatrice che guida alla salvezza.

Clizia

La raccolta è dedicata ad Irma Brandeis[7], nella quale è identificabile Clizia, la donna-angelo cui è attribuita questa funzione salvifica. Essa vive in una dialettica di presenza e assenza (e dunque di salvezza e dannazione, per chi l’ha conosciuta): ma anche assente (come è per lo più)[8], è presente nella memoria, garante della possibilità di una vita diversa[9]. E’ lei la protagonista di buona parte dei Mottetti ed è lei la donna di Nuove stanze, capace di opporre i suoi “occhi d’acciaio” allo “specchio ustorio che accieca le pedine”. Come Clizia, è nominata solo nella Primavera hitleriana (della raccolta successiva, La bufera e altro): il nome è desunto dal mito narrato da Ovidio, secondo cui la fanciulla, abbandonata dal Sole di cui era innamorata, si trasformò in eliotropio o girasole (e dunque al Sole resterà sempre fedele, essendo il fiore sempre rivolto verso di lui). L’allegoria è trasparente: Clizia è devota alla luce, dunque ad una verità sopra-sensibile cui conduce chi si affida a lei.

Plurilinguismo e allegoria

Il recupero di Dante e dello stilnovismo è evidente, anche se per il nostro la salvezza non ha nulla a che fare con una visione provvidenziale o comunque religiosa, ma piuttosto con una ragione laica e umanistica, capace di dare senso e valore alla vita. Peraltro l’influsso di Dante è riconoscibile anche in altri aspetti: tanto nel “plurilinguismo” (si pensi a quella mescolanza di parole inusuali e parole quotidiane, di cui si diceva a proposito degli Ossi), quanto nell’adozione dell’allegoria come figura (tecnica) in grado di mettere in relazione gli elementi della realtà fisica (e individuale) con una dimensione, ed una significazione, metafisica (e universale). Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, si può dire che è l’uso più vistoso e sistematico del “correlativo oggettivo” di ascendenza eliottiana che assume le valenze dell’allegoria.
Di allegoria più che di simbolismo si deve infatti parlare. Mentre il simbolismo si affida ad una intuizione istantanea che intravede una verità più profonda associando analogicamente immagini e sensazioni diverse, l’allegoria mette in campo oggetti e vicende, che appartengono al mondo fisico e quotidiano, di cui si narra con precisione e continuità, lasciando intravedere dietro il significato letterale un altro e più universale significato (si veda in Nuove stanze il significato allegorico del gioco degli scacchi, della finestra che si apre, della stessa Clizia).
Rispetto agli Ossi, il brullo paesaggio naturale tende a far posto ad interni (Nuove stanze, la seconda parte di Dora Markus) e a scenari cittadini (la stazione di Addii, fischi nel buio, i portici di La speranza di pure rivederti).
Per la lingua e la metrica valgono le osservazioni fatte per gli Ossi, anche se la lingua appare ora più elevata e meno presente è l’elemento prosastico e quotidiano.

La bufera e altro: da Clizia a Volpe

Nel 1956 è pubblicata La bufera ed altro (il titolo allude allo sconvolgimento della guerra, evento che peraltro, nella sua tragicità, non fa che confermare il pessimismo montaliano nei confronti della storia). Le sette sezioni[10] che la compongono sono disposte in ordine cronologico, ad eccezione della quarta (Flashes e dediche).
Ritorna la figura di Clizia, ma si rivela illusoria la speranza che possa sopravvivere (e farsi portatrice della “salvezza per tutti”[11]) in un mondo che, nella catastrofe della guerra e nelle feroci contrapposizioni del dopoguerra (le contrapposizioni fra le due chiese, DC e PCI)[12], si rivela sempre più sordo ai valori da lei rappresentati. A Clizia, come alle Grazie foscoliane, non resta che la fuga nell’”oltrecielo”. Il suo posto è preso da un’altra figura femminile, Volpe[13], l’anti-Beatrice, donna concreta e passionale, che può garantire solo una salvezza “privata” per il poeta, non per “tutti”, come invece era annunciato da Clizia.
A Volpe sono associate allegorie di animali (l’anguilla, il gallo cedrone) che indicano la strada della salvezza non nella cultura o nei valori cristiani (in questa raccolta, a differenza delle prime due, Clizia diventa anche Cristofora[14]), ma nel fango (e nella vitalità) dell’eros e degli istinti. L’anguilla in particolare (si veda l’omonima poesia) diventa l’emblema di questa celebrazione della pura forza biologica, “sorella” di Clizia, ma testimone di una speranza che si annida in basso, nel terreno, non in alto, nel cielo. L’anguilla, che risale dall’acqua e dalla melma alle vette degli Appennini, sembra così riunire i due termini, contrapposti negli Ossi, del mare e della terra, dell’istintualità vitale e della resistenza etica.
Ma una salvezza solo privata equivale a una sconfitta, ed ecco l’ultima sezione (Conclusioni provvisorie), composta di due sole poesie, in cui nella prima (Piccolo testamento) si preannuncia la catastrofe del mondo occidentale, cui resiste soltanto, flebile ma tenace, la fiammella della poesia; e nella seconda (Il sogno del prigioniero) si denuncia la condizione di prigionia in cui si vive (è una condizione esistenziale, a prescindere da riferimenti a lager nazisti o gulag staliniani) ed in cui si può solo sognare una vita diversa (“il mio sogno di te non è finito”).

La svolta di Satura

Satura è pubblicata nel 1971, e raccoglie poesie scritte dopo il 1964 (quindi dopo un lungo silenzio, coincidente con il periodo del boom economico e con l’affermarsi della moderna società di massa). Sono ancora quattro sezioni: Xenia I e Xenia II (il termine indicava in latino i doni che si fanno ad un ospite nel momento in cui abbandona la casa che lo ha accolto; le poesie sono infatti “donate”, come un’offerta votiva, alla moglie morta. Drusilla Tanzi, indicata col senhal di Mosca); Satura I e Satura II, in cui prevalgono temi polemici e parodici (il titolo, che è anche quello della raccolta, indica sia l’intento satirico dei componimenti, sia, nel suo significato etimologico di satura lanx[15], la varietà degli argomenti e dei motivi ispiratori).
La novità (una vera e propria svolta) consiste nell’abbassamento del tono, sia nelle scelte tematiche che lessicali; è una poesia che tende alla prosa, che sembra rinunciare ad ogni ricercatezza retorica e che, tematicamente, prende spunto da episodi della quotidianità, privati, o comunque di cronaca più che di storia. Si veda in Piove la chiara parodia de La pioggia nel pineto di dannunziana memoria o ne La poesia l’effetto dissacratorio ottenuto usando facili rime baciate (questione-ispirazione, produce-conduce, surgelante-importante); ma si veda anche la polemica Lettera a Malvolio, in cui Montale rivendica la propria coerenza intellettuale ed accusa l’interlocutore-antagonista (Pasolini) di opportunismo.
 Caratteristica è anche l’autocitazione parodica, con cui l’autore riprende, ironicamente, motivi e oggetti di sue poesie precedenti (c’è quasi una negazione del valore simbolico e cognitivo che quegli elementi possedevano originariamente; e comunque, certamente, un sorridere sulla presunzione della propria poesia, ma anche, ambiguamente, un voler riproporre, su un registro più basso, la dignità e la coerenza del proprio percorso intellettuale: si veda in Botta e risposta I la molteplicità di riferimenti a cose e persone degli Ossi e delle Occasioni).

Mosca

Quanto a Mosca, si tratta di una figura femminile ben diversa sia da Clizia (di cui non possiede la valenza divina e salvifica) che da Volpe (di cui non possiede la vitalità quasi animalesca): la sua capacità è quella di vedere (pur essendo le sue pupille “tanto offuscate”) dietro il velo della realtà che appare, di riconoscere e demistificare gli inganni delle ideologie, e dunque di guidare, col suo solido buon senso, il poeta stesso nel groviglio del mondo. Dunque si potrebbe dire che la figura di Clizia sta a quella di Mosca come la poesia delle raccolte precedenti (con il suo tono alto, i suoi rimandi metafisici, le sue allegorie) sta alla poesia di Satura (con il suo tono basso, che non vagheggia grandi valori, ma che tuttavia non rinuncia ad esistere e a pronunciare qualche parola di verità).

L’ultimo Montale: i Diari

La produzione dell’ultimo Montale (Diario del ’71 e del ’72, Quaderno di quattro anni, Altri versi, e poi, pubblicato dopo la morte, Diario postumo) si colloca sulla linea di Satura. Anzi, si ha una radicalizzazione di quell’abbassamento di tono, di quella tendenza prosastica e desublimante. Sul piano stilistico si tratta di componimenti quasi sempre privi di interne suddivisioni, a cominciare da quelle determinate dalla punteggiatura (spesso assente). Sul piano tematico tendono a scomparire sia la molteplicità degli oggetti, sia quei momenti di sentenziosità che ancora permanevano in Satura; è una poesia di pura aderenza alla quotidianità spicciola, ai limiti della cronaca più dimessa.
La carriera poetica di Montale sembra dunque concludersi con uno scacco.


[1] Il rilievo è significativo, perché è quel paesaggio sul mare che fa da sfondo alle poesie di Ossi di seppia.
[2] Si veda Potessi almeno costringere (della sezione Mediterraneo): “dato mi fosse accordare / alle tue voci il mio balbo parlare / io che sognava rapirti / le salmastre parole“.
[3] Si pensi al “polveroso prato” e allo “scalcinato muro” di Non chiederci la parola.
[4] Eʼ lui stesso che dice, in un’intervista immaginaria, "mi pareva di vivere sotto a una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. L’espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, la fine dell’inganno del mondo come rappresentazione."
[5] Ma anche nelle Occasioni (“belletta“, in Non recidere forbice quel volto)
[6]O di una vita priva di certezze, di punti di riferimento; vedi “la bussola” impazzita e “la banderuola affumicata” che gira senza pietà, nella Casa dei doganieri (Le occasioni).
[7] Un’ebrea americana, italianista, conosciuta da Montale a Firenze, che dovette tornare in America a seguito delle persecuzioni razziali.
[8] Ad esempio, vedi Il balcone.
[9] Tant’è che per alcuni più che di “donna angelo“ si deve parlare di visiting angel (l’espressione è stata usata dallo stesso Montale nella lettera a Glauco Cambon del gennaio del 1962), ovvero di un angelo della visitazione che agisce soltanto in assenza.
[10] Nell’ordine Finisterre (composte fra il 1940 e il 1942, avrebbero dovute figurare come appendice delle Occasioni), Dopo, Intermezzo, Flshese e dediche, Silvae, Madrigali privati, Conclusioni provvisorie.
[11] Così nella Primavera hitleriana.
[12] A questo proposito va ricordato che la pubblicazione della raccolta suscitò polemiche da parte della critica di sinistra, che rimproverava a Montale, ritenuto una bandiera dell’antifascismo, il mancato schieramento nel dopoguerra, il suo disimpegno ideologico. Montale rispose dichiarando che oggetto della sua poesia era la “totale disarmonia con la realtà” e che in lui “le ragioni di infelicità andavano al di là e al di fuori” del fascismo.
[13] La poetessa Maria Luisa Spaziani, amata dal poeta.
[14] Così è chiamata nella lettera allo studioso Glauco Cambon (del gennaio del 1962) in cui commentava la poesia Giorno e notte
[15] Piatto ricolmo (s’intende, di vari cibi, cosiccome la satura era una rappresentazione composta di varie performances).