TASSO (testi)

Il discorso di Satana ai diavoli
 
dalla Gerusalemme Liberata (canto IV, 9-17)
 
Nell'inferno, Satana si rivolge ai diavoli per esortarli ad intervenire contro l'esercito cristiano. Il passo è esemplare perché mette in luce il cosiddetto “bifrontismo spirituale” o doppio codice o conflittualità interna, presente nella Liberata. Qui Satana non è rappresentato come il male assoluto, ma come un combattente valoroso che ha osato ribellarsi, in nome della libertà, non al bene assoluto, ma a un potere autoritario che non tollera il pluralismo e che intende imporre un dominio universale, riducendo al silenzio ogni altra voce. Si capisce allora come dietro la metafora della guerra fra cristiani e musulmani sia rappresentato il conflitto fra due codici ideologici di comportamento: quello laico, pluralista, libertario (di cui sono campioni i pagani) e quello religioso, universalista (imperialista), autoritario (di cui sono campioni i cristiani); di qui la freddezza dei personaggi positivi (Goffredo, Pier l'eremita) e la simpatia per gli sconfitti (da Satana, appunto, che appare come un campione del libero pensiero, ai “compagni erranti”, tipo Rinaldo e Tancredi, che si lasciano sedurre dall'"avventura" invece di corrispondere al "servizio")(1). Insomma i cristiani sono il modello di comportamento della Controriforma, che combatte contro il modello di comportamento dell'età precedente, fatto di libertà, laicismo, ecc., ovvero contro il mondo del Furioso (sorprendentemente, qui, rappresentato dai pagani). Ed anche: la lotta del “capitano” contro i “compagni erranti”, per ricondurli al giusto comportamento, rappresenta la lotta che l’ortodossia cattolica deve combattere contro l’eresia. Anche le questioni strutturali vanno ricondotte a tale bifrontismo. L'esigenza aristotelica di unità è ancora l'esigenza di ordinare sotto un unico principio (come vogliono fare i cristiani sotto il segno della croce) ciò che invece vorrebbe essere dispersivo, centrifugo, diverso (tale è l'avventura cavalleresca, cosiccome la devianza eretica: ci si lascia sedurre da altro che non dall'unico bene). La contrapposizione fra cristiani e pagani è netta, dunque, laddove invece nell'Ariosto Rinaldo e Ferraù potevano sospendere il duello in nome dello stesso codice di comportamento (tale codice, invece, nella Liberata, appartiene solo ai pagani; ed  è per questo che l'autore - inconsciamente? - ed i lettori sono portati a simpatizzare con questi e con i cristiani devianti).
 
  
      9          - Tartarei numi, di seder più degni
               là sovra il sole, ond'è l'origin vostra,
               che meco già da i più felici regni
               spinse il gran caso in questa orribil chiostra,
               gli antichi altrui sospetti e i feri sdegni
               noti son troppo, e l'alta impresa nostra;
               or Colui regge a suo voler le stelle,
               e noi siam giudicate alme rubelle.
        10         Ed in vece del dì sereno e puro,
               de l'aureo sol, de gli stellati giri,
               n'ha qui rinchiusi in questo abisso oscuro,
               né vuol ch'al primo onor per noi s'aspiri;
               e poscia (ahi quanto a ricordarlo è duro!
               quest'è quel che più inaspra i miei martìri)
               ne' bei seggi celesti ha l'uom chiamato,
               l'uom vile e di vil fango in terra nato.
        11         Né ciò gli parve assai; ma in preda a morte,
               sol per farne più danno, il figlio diede.
               Ei venne e ruppe le tartaree porte,
               e porre osò ne' regni nostri il piede,
               e trarne l'alme a noi dovute in sorte,
               e riportarne al Ciel sì ricche prede,
               vincitor trionfando, e in nostro scherno
               l'insegne ivi spiegar del vinto Inferno.
        12         Ma che rinovo i miei dolor parlando?
               Chi non ha già l'ingiurie nostre intese?
               Ed in qual parte si trovò, né quando,
               ch'egli cessasse da l'usate imprese?
               Non più déssi a l'antiche andar pensando,
               pensar dobbiamo a le presenti offese.
               Deh! non vedete omai com'egli tenti
               tutte al suo culto richiamar le genti?
        13         Noi trarrem neghittosi i giorni e l'ore,
               né degna cura fia che 'l cor n'accenda?
               e soffrirem che forza ognor maggiore
               il suo popol fedele in Asia prenda?
               e che Giudea soggioghi? e che 'l suo onore,
               che 'l nome suo più si dilati e stenda?
               che suoni in altre lingue, e in altri carmi
               si scriva, e incida in novi bronzi e marmi?
        14         Che sian gl'idoli nostri a terra sparsi?
               ch'i nostri altari il mondo a lui converta?
               ch'a lui sospesi i voti, a lui sol arsi
               siano gl'incensi, ed auro e mirra offerta?
               ch'ove a noi tempio non solea serrarsi,
               or via non resti a l'arti nostre aperta?
               che di tant'alme il solito tributo
               ne manchi, e in vòto regno alberghi Pluto?
        15         Ah non fia ver, ché non sono anco estinti
               gli spirti in voi di quel valor primiero,
               quando di ferro e d'alte fiamme cinti
               pugnammo già contra il celeste impero.
               Fummo, io no 'l nego, in quel conflitto vinti,
               pur non mancò virtute al gran pensiero.
               Diede che che si fosse a lui vittoria:
               rimase a noi d'invitto ardir la gloria.
        16         Ma perché più v'indugio? Itene, o miei
               fidi consorti, o mia potenza e forze:
               ite veloci, ed opprimete i rei
               prima che 'l lor poter più si rinforze;
               pria che tutt'arda il regno de gli Ebrei,
               questa fiamma crescente omai s'ammorze;
               fra loro entrate, e in ultimo lor danno
               or la forza s'adopri ed or l'inganno.
        17         Sia destin ciò ch'io voglio: altri disperso
               se 'n vada errando, altri rimanga ucciso,
               altri in cure d'amor lascive immerso
               idol si faccia un dolce sguardo e un riso.
               Sia il ferro incontra 'l suo rettor converso
               da lo stuol ribellante e 'n sé diviso:
               pèra il campo e ruini, e resti in tutto
               ogni vestigio suo con lui distrutto. -
 
 

1) Diverso è quindi, rispetto al Furioso, il senso dell’essere cavalieri: in Ariosto l’avventura era intesa come libera espressione della realizzazione individuale, ed era fondata sui valori dell’onore e della virtù; in Tasso invece l’avventura è devianza (deviante è l’individualismo), il cavaliere deve compiere una missione religiosa (e collettiva), in nome della quale deve rinunciare alla libera autodeterminazione ed assoggettare la sua volontà a quella del capitano (che è poi la volontà di Dio).



Olindo e Sofronia
 
dalla Gerusalemme Liberata (canto II, 14-36)
 
Il re di Gerusalemme, Aladino, su consiglio del mago Ismeno, aveva fatto prelevare da una chiesa cristiana l’immagine della Vergine e l’aveva fatta trasportare in una moschea. Questo, secondo il mago, avrebbe reso inespugnabile Gerusalemme. Ma qualcuno aveva sottratto l’immagine dalla moschea e Aladino, infuriato, aveva dato ordine che tutti i cristiani di Gerusalemme fossero trucidati. Per evitare ciò, la cristiana Sofronia decide di autoaccusarsi del furto.   
      
    
        14         Vergine era fra lor di già matura
               verginità, d'alti pensieri e regi,
               d'alta beltà; ma sua beltà non cura,
               o tanto sol quant'onestà se 'n fregi.
               È il suo pregio maggior che tra le mura
               d'angusta casa asconde i suoi gran pregi,
               e de' vagheggiatori ella s'invola
               a le lodi, a gli sguardi, inculta e sola.
        15         Pur guardia esser non può ch'in tutto celi
               beltà degna ch'appaia e che s'ammiri;
               tu il consenti, Amor, ma la riveli
               d'un giovenetto a i cupidi desiri.
               Amor, ch'or cieco, or Argo, ora ne veli
               di benda gli occhi, ora ce gli apri e giri,
               tu per mille custodie entro a i più casti
               verginei alberghi il guardo altrui portasti.
        16         Colei Sofronia, Olindo egli s'appella,
               d'una cittate entrambi e d'una fede.
               Ei che modesto è sì com'essa è bella,
               brama assai, poco spera, e nulla chiede;
               sa scoprirsi, o non ardisce; ed ella
               o lo sprezza, o no 'l vede, o non s'avede.
               Così fin ora il misero ha servito
               o non visto, o mal noto, o mal gradito.
        17         S'ode l'annunzio intanto, e che s'appresta
               miserabile strage al popol loro.
               A lei, che generosa è quanto onesta
               viene in pensier come salvar costoro.
               Move fortezza il gran pensier, l'arresta
               poi la vergogna e 'l verginal decoro;
               vince fortezza, anzi s'accorda e face
               vergognosa e la vergogna audace.
        18         La vergine tra 'l vulgo uscì soletta,
               non coprì sue bellezze, e non l'espose,
               raccolse gli occhi, andò nel vel ristretta,
               con ischive maniere e generose.
               Non sai ben dir s'adorna o se negletta,
               se caso od arte il bel volto compose.
               Di natura, d'Amor, de' cieli amici
               le negligenze sue sono artifici.
        19         Mirata da ciascun passa, e non mira
               l'altera donna, e innanzi al re se 'n viene.
               , perché irato il veggia, il piè ritira,
               ma il fero aspetto intrepida sostiene.
               - Vengo, signor, - gli disse - e 'ntanto l'ira
               prego sospenda e 'l tuo popolo affrene:
               vengo a scoprirti, e vengo a darti preso
               quel reo che cerchi, onde sei tanto offeso. -
        20         A l'onesta baldanza, a l'improviso
               folgorar di bellezze altere e sante,
               quasi confuso il re, quasi conquiso,
               frenò lo sdegno, e placò il fer sembiante.
               S'egli era d'alma o se costei di viso
               severa manco, ei diveniane amante;
               ma ritrosa beltà ritroso core
               non prende, e sono i vezzi esca d'Amore.
        21         Fu stupor, fu vaghezza, e fu diletto,
               s'amor non fu, che mosse il cor villano.
               - Narra - ei le dice - il tutto; ecco, io commetto
               che non s'offenda il popol tuo cristiano. -
               Ed ella: - Il reo si trova al tuo cospetto:
               opra è il furto, signor, di questa mano;
               io l'imagine tolsi, io son colei
               che tu ricerchi, e me punir tu déi. -
        22         Così al publico fato il capo altero
               offerse, e 'l volse in sé sola raccòrre.
               Magnanima menzogna, or quand'è il vero
               bello che si possa a te preporre?
               Riman sospeso, e non sì tosto il fero
               tiranno a l'ira, come suol, trascorre.
               Poi la richiede: - I' vuo' che tu mi scopra
               chi diè consiglio, e chi fu insieme a l'opra. -
 
       
       23         - Non volsi far de la mia gloria altrui
               pur minima parte; - ella gli dice
               - sol di me stessa io consapevol fui,
               sol consigliera, e sola essecutrice. -
               - Dunque in te sola - ripigliò colui
               - caderà l'ira mia vendicatrice. -
               Diss'ella: - È giusto: esser a me conviene,
               se fui sola a l'onor, sola a le pene. -
        24         Qui comincia il tiranno a risdegnarsi;
               poi le dimanda: - Ov'hai l'imago ascosa?
               - Non la nascosi, - a lui risponde - io l'arsi,
               e l'arderla stimai laudabil cosa;
               così almen non potrà più violarsi
               per man di miscredenti ingiuriosa.
               Signore, o chiedi il furto, o 'l ladro chiedi:
               quel no 'l vedrai in eterno, e questo il vedi.
        25         Benché né furto è il mio, né ladra i' sono:
               giust'è ritòr ciò ch'a gran torto è tolto. -
               Or, quest'udendo, in minaccievol suono
               freme il tiranno, e 'l fren de l'ira è sciolto.
               Non speri più di ritrovar perdono
               cor pudico, alta mente e nobil volto;
               e 'ndarno Amor contr'a lo sdegno crudo
               di sua vaga bellezza a lei fa scudo.
        26         Presa è la bella donna, e 'ncrudelito
               il re la danna entr'un incendio a morte.
               Già 'l velo e 'l casto manto a lei rapito,
               stringon le molli braccia aspre ritorte.
               Ella si tace, e in lei non sbigottito,
               ma pur commosso alquanto è il petto forte;
               e smarrisce il bel volto in un colore
               che non è pallidezza, ma candore.
        27         Divulgossi il gran caso, e quivi tratto
               già 'l popol s'era: Olindo anco v'accorse.
               Dubbia era la persona e certo il fatto;
               venia, che fosse la sua donna in forse.
               Come la bella prigionera in atto
               non pur di rea, ma di dannata ei scorse,
               come i ministri al duro ufficio intenti
               vide, precipitoso urtò le genti.
        28         Al re gridò: - Non è, non è già rea
               costei del furto, e per follia se 'n vanta.
               Non pensò, non ardì, né far potea
               donna sola e inesperta opra cotanta.
               Come ingannò i custodi? e de la Dea
               con qual arti involò l'imagin santa?
               Se 'l fece, il narri. Io l'ho, signor, furata. -
               Ahi! tanto amò la non amante amata.
               (…………………………………..)
        33         Composto è lor d'intorno il rogo omai,
               e già le fiamme il mantice v'incita,
               quand'il fanciullo in dolorosi lai
               proruppe, e disse a lei ch'è seco unita:
               - Quest'è dunque quel laccio ond'io sperai
               teco accoppiarmi in compagnia di vita?
               questo è quel foco ch'io credea ch'i cori
               ne dovesse infiammar d'eguali ardori?
        34         Altre fiamme, altri nodi Amor promise,
               altri ce n'apparecchia iniqua sorte.
               Troppo, ahi! ben troppo, ella già noi divise,
               ma duramente or ne congiunge in morte.
               Piacemi almen, poich'in sì strane guise
               morir pur déi, del rogo esser consorte,
               se del letto non fui; duolmi il tuo fato,
               il mio non già, poich'io ti moro a lato.
        35         Ed oh mia sorte aventurosa a pieno!
               oh fortunati miei dolci martìri!
               s'impetrarò che, giunto seno a seno,
               l'anima mia ne la tua bocca io spiri;
               e venendo tu meco a un tempo meno,
               in me fuor mandi gli ultimi sospiri. -
               Così dice piangendo. Ella il ripiglia
               soavemente, e 'n tai detti il consiglia:
        36         - Amico, altri pensieri, altri lamenti,
               per più alta cagione il tempo chiede.
               Ché non pensi a tue colpe? e non rammenti
               qual Dio prometta a i buoni ampia mercede?
               Soffri in suo nome, e fian dolci i tormenti,
               e lieto aspira a la superna sede.
               Mira 'l ciel com'è bello, e mira il sole
               ch'a sé par che n'inviti e ne console



Tancredi e Clorinda
 
Canto I, 45-48
 
Dopo che, su ispirazione dell’arcangelo Gabriele, Goffredo ha riunito i principi cristiani per portare a termine la guerra, il poeta ci indica i più valorosi cavalieri dell’esercito cristiano: fra questi è Tancredi
      
        45         Vien poi Tancredi, e non è alcun fra tanti
               (tranne Rinaldo) o feritor maggiore,
               o più bel di maniere e di sembianti,
               o più eccelso ed intrepido di core.
               S'alcun'ombra di colpa i suoi gran vanti
               rende men chiari, è sol follia d'amore:
               nato fra l'arme, amor di breve vista,
               che si nutre d'affanni, e forza acquista.
        46         È fama che quel dì che glorioso
               fe' la rotta de' Persi il popol franco,
               poi che Tancredi al fin vittorioso
               i fuggitivi di seguir fu stanco,
               cercò di refrigerio e di riposo
               a l'arse labbia, al travagliato fianco,
               e trasse ove invitollo al rezzo estivo
               cinto di verdi seggi un fonte vivo.
        47         Quivi a lui d'improviso una donzella
               tutta, fuor che la fronte, armata apparse:
               era pagana, e là venuta anch'ella
               per l'istessa cagion di ristorarse.
               Egli mirolla, ed ammirò la bella
               sembianza, e d'essa si compiacque, e n'arse.
               Oh meraviglia! Amor, ch'a pena è nato,
               già grande vola, e già trionfa armato.
        48         Ella d'elmo coprissi, e se non era
               ch'altri quivi arrivàr, ben l'assaliva.
               Partì dal vinto suo la donna altera,
               ch'è per necessità sol fuggitiva;
               ma l'imagine sua bella e guerriera
               tale ei serbò nel cor, qual essa è viva;
               e sempre ha nel pensiero e l'atto e 'l loco
               in che la vide, esca continua al foco.
 
Canto II, 37-40
 
Olindo e Sofronia sono stati messi al rogo, quando giunge Clorinda che si commuove e convince Aladino a liberare i due
      
        37         Qui il vulgo de' pagani il pianto estolle:
               piange il fedel, ma in voci assai più basse.
               Un non so che d'inusitato e molle
               par che nel duro petto al re trapasse.
               Ei presentillo, e si sdegnò; né volle
               piegarsi, e gli occhi torse, e si ritrasse.
               Tu sola il duol comun non accompagni,
               Sofronia; e pianta da ciascun, non piagni.
        38         Mentre sono in tal rischio, ecco un guerriero
               (ché tal parea) d'alta sembianza e degna;
               e mostra, d'arme e d'abito straniero,
               che di lontan peregrinando vegna.
               La tigre, che su l'elmo ha per cimiero,
               tutti gli occhi a sé trae, famosa insegna,
               insegna usata da Clorinda in guerra;
               onde la credon lei, né 'l creder erra.
        39         Costei gl'ingegni feminili e gli usi
               tutti sprezzò sin da l'età più acerba:
               a i lavori d'Aracne, a l'ago, a i fusi
               inchinar non degnò la man superba.
               Fuggì gli abiti molli e i lochi chiusi,
               ché ne' campi onestate anco si serba;
               armò d'orgoglio il volto, e si compiacque
               rigido farlo, e pur rigido piacque.
        40         Tenera ancor con pargoletta destra
               strinse e lentò d'un corridore il morso;
               trattò l'asta e la spada, ed in palestra
               indurò i membri ed allenogli al corso.
               Poscia o per via montana o per silvestra
               l'orme seguì di fer leone e d'orso;
               seguì le guerre, e 'n esse e fra le selve
               fèra a gli uomini parve, uomo a le belve.
 
Canto III, 21-31
 
Clorinda e Tancredi si scontrano sotto le mura di Gersualemme
 
      21           Clorinda intanto ad incontrar l’assalto
               va di Tancredi, e pon la lancia in resta.
               Ferìrsi a le visiere, e i tronchi in alto
               volaro e parte nuda ella ne resta;
               ché, rotti i lacci a l'elmo suo, d'un salto
               (mirabil colpo!) ei le balzò di testa;
               e le chiome dorate al vento sparse,
               giovane donna in mezzo 'l campo apparse.
        22         Lampeggiàr gli occhi, e folgoràr gli sguardi,
               dolci ne l'ira; or che sarian nel riso?
               Tancredi, a che pur pensi? a che pur guardi?
               non riconosci tu l'altero viso?
               Quest'è pur quel bel volto onde tutt'ardi;
               tuo core il dica, ov'è il suo essempio inciso.
               Questa è colei che rinfrescar la fronte
               vedesti già nel solitario fonte.
        23         Ei ch'al cimiero ed al dipinto scudo
               non badò prima, or lei veggendo impètra;
               ella quanto può meglio il capo ignudo
               si ricopre, e l'assale; ed ei s'arretra.
               Va contra gli altri, e rota il ferro crudo;
               ma però da lei pace non impetra,
               che minacciosa il segue, e: - Volgi - grida;
               e di due morti in un punto lo sfida.
        24         Percosso, il cavalier non ripercote,
               né sì dal ferro a riguardarsi attende,
               come a guardar i begli occhi e le gote
               ond'Amor l'arco inevitabil tende.
               Fra sé dicea: «Van le percosse vote
               talor, che la sua destra armata stende;
               ma colpo mai del bello ignudo volto
               non cade in fallo, e sempre il cor m'è colto.»
        25         Risolve al fin, benché pietà non spere,
               di non morir tacendo occulto amante.
               Vuol ch'ella sappia ch'un prigion suo fère
               già inerme, e supplichevole e tremante;
               onde le dice: - O tu, che mostri avere
               per nemico me sol fra turbe tante,
               usciam di questa mischia, ed in disparte
               i' potrò teco, e tu meco provarte.
        26         Così me' si vedrà s'al tuo s'agguaglia
               il mio valore. - Ella accettò l'invito:
               e come esser senz'elmo a lei non caglia,
               gìa baldanzosa, ed ei seguia smarrito.
               Recata s'era in atto di battaglia
               già la guerriera, e già l'avea ferito,
               quand'egli: - Or ferma, - disse - e siano fatti
               anzi la pugna de la pugna i patti. -
        27         Fermossi, e lui di pauroso audace
               rendé in quel punto il disperato amore.
               - I patti sian, - dicea - poi che tu pace
               meco non vuoi, che tu mi tragga il core.
               Il mio cor, non più mio, s'a te dispiace
               ch'egli più viva, volontario more:
               è tuo gran tempo, e tempo è ben che trarlo
               omai tu debbia, e non debb'io vietarlo.
        28         Ecco io chino le braccia, e t'appresento
               senza difesa il petto: or ché no 'l fiedi?
               vuoi ch'agevoli l'opra? i' son contento
               trarmi l'usbergo or or, se nudo il chiedi. -
               Distinguea forse in più duro lamento
               i suoi dolori il misero Tancredi,
               ma calca l'impedisce intempestiva
               de' pagani e de' suoi che soprarriva.
        29         Cedean cacciati da lo stuol cristiano
               i Palestini, o sia temenza od arte.
               Un de' persecutori, uomo inumano,
               videle sventolar le chiome sparte,
               e da tergo in passando alzò la mano
               per ferir lei ne la sua ignuda parte;
               ma Tancredi gridò, che se n'accorse,
               e con la spada a quel gran colpo occorse.
        30         Pur non tutto in vano, e ne' confini
               del bianco collo il bel capo ferille.
               Fu levissima piaga, e i biondi crini
               rosseggiaron così d'alquante stille,
               come rosseggia l'or che di rubini
               per man d'illustre artefice sfaville.
               Ma il prence infuriato allor si strinse
               adosso a quel villano, e 'l ferro spinse.
        31         Quel si dilegua, e questi acceso d'ira
               il segue, e van come per l'aria strale.
               Ella riman sospesa, ed ambo mira
               lontani molto, né seguir le cale,
               ma co' suoi fuggitivi si ritira:
               talor mostra la fronte e i Franchi assale;
               or si volge or rivolge, or fugge or fuga,
               né si può dir la sua caccia né fuga.
       
Canto XII, 50-71
 
Clorinda e Argante, usciti da Gerusalemme, hanno incendiato la torre di legno con cui i cristiani intendono assaltare la città. Dopo l’impresa Argante riesce a riparare dentro le mura, Clorinda invece, trattenuta in uno scontro con un guerriero cristiano, trova chiuse le porte.
 
     Ma poi che intepidí la mente irata
nel sangue del nemico e in sé rivenne,
vide chiuse le porte e intorniata
sé da’ nemici, e morta allor si tenne.
Pur veggendo ch’alcuno in lei non guata,
nov’arte di salvarsi le sovenne.
Di lor gente s’infinge, e fra gli ignoti
cheta s’avolge; e non è chi la noti.
     Poi, come lupo tacito s’imbosca
dopo occulto misfatto, e si desvia,
da la confusion, da l’aura fosca
favorita e nascosa, ella se ’n gía.
Solo Tancredi avien che lei conosca;
egli quivi è sorgiunto alquanto pria;
vi giunse allor ch’essa Arimon uccise:
vide e segnolla, e dietro a lei si mise.
     Vuol ne l’armi provarla: un uom la stima
degno a cui sua virtú si paragone.
Va girando colei l’alpestre cima
verso altra porta, ove d’entrar dispone.
Segue egli impetuoso, onde assai prima
che giunga, in guisa avien che d’armi suone,
ch’ella si volge e grida: "O tu, che porte,
che corri ?" Risponde: "E guerra e morte."
     "Guerra e morte avrai;" disse "io non rifiuto
darlati, se la cerchi", e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,
ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende;
e vansi a ritrovar non altrimenti
che duo tori gelosi e d’ira ardenti.
     Degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno
teatro, opre sarian memorande.
Notte, che nel profondo oscuro seno
chiudesti e ne l’oblio fatto grande,
piacciati ch’io ne ’l tragga e ’n bel sereno
a le future età lo spieghi e mande.
Viva la fama loro; e tra lor gloria
splenda del fosco tuo l’alta memoria.
     Non schivar, non parar, non ritirarsi
voglion costor, né qui destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
toglie l’ombra e ’l furor l’uso de l’arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
a mezzo il ferro, il piè d’orma non parte;
sempre è il piè fermo e la man sempre ’n moto,
né scende taglio in van, né punta a vòto.
     L’onta irrita lo sdegno a la vendetta,
e la vendetta poi l’onta rinova;
onde sempre al ferir, sempre a la fretta
stimol novo s’aggiunge e cagion nova.
D’or in or piú si mesce e piú ristretta
si fa la pugna, e spada oprar non giova:
dansi co’ pomi, e infelloniti e crudi
cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.
     Tre volte il cavalier la donna stringe
con le robuste braccia, ed altrettante
da que’ nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fer nemico e non d’amante.
Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge
con molte piaghe; e stanco ed anelante
e questi e quegli al fin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.
     L’un l’altro guarda, e del suo corpo essangue
su ’l pomo de la spada appoggia il peso.
Già de l’ultima stella il raggio langue
al primo albor ch’è in oriente acceso.
Vede Tancredi in maggior copia il sangue
del suo nemico, e sé non tanto offeso.
Ne gode e superbisce. Oh nostra folle
mente ch’ogn’aura di fortuna estolle!
     Misero, di che godi? oh quanto mesti
fiano i trionfi ed infelice il vanto!
Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti)
di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.
Cosí tacendo e rimirando, questi
sanguinosi guerrier cessaro alquanto.
Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse,
perché il suo nome a lui l’altro scoprisse:
     "Nostra sventura è ben che qui s’impieghi
tanto valor, dove silenzio il copra.
Ma poi che sorte rea vien che ci neghi
e lode e testimon degno de l’opra,
pregoti (se fra l’arme han loco i preghi)
che ’l tuo nome e ’l tuo stato a me tu scopra,
acciò ch’io sappia, o vinto o vincitore,
chi la mia morte o la vittoria onore."
     Risponde la feroce: "Indarno chiedi
quel c’ho per uso di non far palese.
Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi
un di quei due che la gran torre accese."
Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,
e: "In mal punto il dicesti"; indi riprese
"il tuo dir e ’l tacer di par m’alletta,
barbaro discortese, a la vendetta."
     Torna l’ira ne’ cori, e li trasporta,
benché debili in guerra. Oh fera pugna,
u’ l’arte in bando, u’ già la forza è morta,
ove, in vece, d’entrambi il furor pugna!
Oh che sanguigna e spaziosa porta
fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna,
ne l’arme e ne le carni! e se la vita
non esce, sdegno tienla al petto unita.
     Qual l’alto Egeo, perché Aquilone o Noto
cessi, che tutto prima il volse e scosse,
non s’accheta ei però, ma ’l suono e ’l moto
ritien de l’onde anco agitate e grosse,
tal, se ben manca in lor co ’l sangue vòto
quel vigor che le braccia a i colpi mosse,
serbano ancor l’impeto primo, e vanno
da quel sospinti a giunger danno a danno.
     Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
che ’l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s’immerge e ’l sangue avido beve;
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e ’l piè le manca egro e languente.
     Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine minacciando incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
movendo, disse le parole estreme;
parole ch’a lei novo un spirto ditta,
spirto di , di carità, di speme:
virtú ch’or Dio le infonde, e se rubella
in vita fu, la vuole in morte ancella.
     "Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona
tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
a l’alma ; deh! per lei prega, e dona
battesmo a me ch’ogni mia colpa lave."
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave
ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.
     Poco quindi lontan nel sen del monte
scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentí la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide, la conobbe, e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!
     Non morí già, ché sue virtuti accolse
tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l’acqua a chi co ’l ferro uccise.
Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutossi, e rise;
e in atto di morir lieto e vivace,
dir parea: "S’apre il cielo; io vado in pace."
     D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a’ gigli sarian miste viole,
e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
sembra per la pietate il cielo e ’l sole;
e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma.
     Come l’alma gentile uscita ei vede,
rallenta quel vigor ch’avea raccolto;
e l’imperio di sé libero cede
al duol già fatto impetuoso e stolto,
ch’al cor si stringe e, chiusa in breve sede
la vita, empie di morte i sensi e ’l volto.
Già simile a l’estinto il vivo langue
al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue.
     E ben la vita sua sdegnosa e schiva,
spezzando a forza il suo ritegno frale,
la bella anima sciolta al fin seguiva,
che poco inanzi a lei spiegava l’ale;
ma quivi stuol de’ Franchi a caso arriva,
cui trae bisogno d’acqua o d’altro tale,
e con la donna il cavalier ne porta,
in sé mal vivo e morto in lei ch’è morta.



Argante e Solimano all’ultimo duello
 
Canto XIX, 7-10
 
I crociati sono entrati in Gerusalemme. Il pagano Argante resiste impavido, Tancredi lo riconosce e lo sfida a duello.
      
         7         Grande è il zelo d'onor, grande il desire
               che Tancredi del sangue ha del pagano,
               la sete ammorzar crede de l'ire
               se n'esce stilla fuor per l'altrui mano
               e con lo scudo il copre, e: - Non ferire
               grida a quanti rincontra anco lontano;
               che salvo il nimico infra gli amici
               tragge da l'arme irate e vincitrici.
         8         Escon de la cittade e dan le spalle
               a i padiglion de le accampate genti,
               e se ne van dove un girevol calle
               li porta per secreti avolgimenti;
               e ritrovano ombrosa angusta valle
               tra più colli giacer, non altrimenti
               che se fosse un teatro o fosse ad uso
               di battaglie e di caccie intorno chiuso.
         9         Qui si fermano entrambi, e pur sospeso
               volgeasi Argante a la cittade afflitta.
               Vede Tancredi che 'l pagan difeso
               non è di scudo, e 'l suo lontano ei gitta.
               Poscia lui dice: - Or qual pensier t'ha preso?
               pensi ch'è giunta l'ora a te prescritta?
               S'antivedendo ciò timido stai,
               è 'l tuo timore intempestivo omai. -
        10         - Penso - risponde - a la città del regno
               di Giudea antichissima regina,
               che vinta or cade, e indarno esser sostegno
               io procurai de la fatal ruina,
               e ch'è poca vendetta al mio disdegno
               il capo tuo che 'l Cielo or mi destina. -
               Tacque, e incontra si van con gran risguardo,
               ché ben conosce l'un l'altro gagliardo.
 
Canto XX, 73-75, 104-108
 
Dalla torre di Davide, dove Aladino a Solimano si sono ritirati per un’ultima resistenza, Solimano osserva la battaglia che si svolge per le strade, quindi decide di gettarsi nella mischia e di affrontare il suo destino. Uccide molti nemici, finché incontra Rinaldo che ha appena abbattuto, con un colpo tremendo, il pagano Adrasto.
      
        73         Or mentre in guisa tal fera tenzone
               è tra 'l fedel essercito e 'l pagano,
               salse in cima a la torre ad un balcone
               e mirò, benché lunge, il fer Soldano;
               mirò, quasi in teatro od in agone,
               l'aspra tragedia de lo stato umano:
               i vari assalti e 'l fero orror di morte
               e i gran giochi del caso e de la sorte.
        74         Stette attonito alquanto e stupefatto
               a quelle prime viste; e poi s'accese,
               e desiò trovarsi anch'egli in atto
               nel periglioso campo a l'alte imprese.
               Né pose indugio al suo desir, ma ratto
               d'elmo s'armò, ch'aveva ogn'altro arnese:
               - Su su, - gridò - non più, non più dimora:
               convien ch'oggi si vinca o che si mora. -
        75         O che sia forse il proveder divino
               che spira in lui la furiosa mente,
               perché quel giorno sian del palestino
               imperio le reliquie in tutto spente;
               o che sia ch'a la morte omai vicino
               d'andarle incontra stimolar si sente,
               impetuoso e rapido disserra
               la porta, e porta inaspettata guerra.
              (…………………………………….)
       104         Lo stupor, di spavento e d'orror misto,
               il sangue e i cori a i circostanti agghiaccia,
               e Soliman, ch'estranio colpo ha visto,
               nel cor si turba e impallidisce in faccia,
               e chiaramente il suo morir previsto,
               non si risolve e non sa quel che faccia;
               cosa insolita in lui, ma che non regge
               de gli affari qua giù l'eterna legge?
       105         Come vede talor torbidi sogni
               ne' brevi sonni suoi l'egro o l'insano,
               pargli ch'al corso avidamente agogni
               stender le membra, e che s'affanni invano,
               ché ne' maggiori sforzi a' suoi bisogni
               non corrisponde il piè stanco e la mano,
               scioglier talor la lingua e parlar vòle,
               ma non seguon la voce o le parole;
       106         così allora il Soldan vorria rapire
               pur se stesso a l'assalto e se ne sforza,
               ma non conosce in sé le solite ire,
                sé conosce a la scemata forza.
               Quante scintille in lui sorgon d'ardire,
               tante un secreto suo terror n'ammorza:
               volgonsi nel suo cor diversi sensi,
               non che fuggir, non che ritrarsi pensi.
       107         Giunge all'irresoluto il vincitore,
               e in arrivando (o che gli pare) avanza
               e di velocitade e di furore
               e di grandezza ogni mortal sembianza.
               Poco ripugna quel; pur mentre more,
               già non oblia la generosa usanza:
               non fugge i colpi e gemito non spande,
               atto fa se non se altero e grande.
       108         Poi che 'l Soldan, che spesso in lunga guerra
               quasi novello Anteo cadde e risorse
               più fero ognora, al fin calcò la terra
               per giacer sempre, intorno il suon ne corse;
               e Fortuna, che varia e instabil erra,
               più non osò por la vittoria in forse,
               ma fermò i giri, e sotto i duci stessi
               s'unì co' Franchi e militò con essi.
 
 

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