PROMESSI SPOSI (lezioni)

Sui Promessi sposi
 
 
1)      Va introdotto il problema della laboriosa scelta del romanzo (dopo gli Inni sacri, dopo il dramma storico e dopo la lirica delle odi civili), come genere letterario che soddisfaceva l’esigenza di una letteratura popolare, e più precisamente del romanzo storico, in quanto rispondeva all’esigenza di rispettare il “santo” Vero;
2)      Segue il faticoso processo di elaborazione, attraverso le tre stesure: dal Fermo e Lucia (21-23), alla ventisettana, alla quarantana;
3)      Il Fermo e Lucia (era in quattro tomi) viene modificato dalla ventisettana nei seguenti aspetti:
a)      si cambiano alcuni nomi (da Fermo a Renzo, da Conte del Sagrato a Innominato, da Geltrude a Gertrude),
b)      si tagliano le digressioni troppo ampie (quella sulla monaca di Monza diventava un romanzo nel romanzo, con spiccati caratteri gotici; troppo lunga era anche quella che presentava il Conte del Sagrato; l’episodio della morte di don Rodrigo era dipinto a tinte fosche; vengono anche eliminate varie digressioni di carattere ragionativo e morale),
c)      si fa qualche aggiunta (Renzo all’alba sulle rive dell’Adda, la descrizione della vigna di Renzo, la grande pioggia purificatrice),
d)     si riorganizza la struttura narrativa, alternando le vicende di Renzo e Lucia dopo il cap. XI, che prima venivano narrate separatamente (alla macrostruttura è applicato lo stesso procedimento messo in atto nella sequenza della “notte degli imbrogli”, dove si intrecciano la vicenda del matrimonio a sorpresa con il tentato sequestro di Lucia da parte dei bravi).
e)      Viene anche corretta la lingua, che era una mescolanza di toscanismi, dialettismi milanesi, francesismi, latinismi. Manzoni è convinto che si debba far riferimento al toscano, ma che sia il toscano dei parlanti, non la lingua letteraria. Lavora consultando il Vocabolario della Crusca, il Vocabolario milanese-italiano di Cherubini, leggendo i classici della tradizione popolareggiante (i comico-realisti, i novellieri, i cronisti);
4)      Ma questa correzione compiuta tramite i libri non lo soddisfa, dunque ecco la “risciacquatura dei panni in Arno”, ovvero il soggiorno a Firenze e il lavoro di revisione linguistica che porterà alla quarantana. Il modello scelto è il toscano parlato dalle persone colte, ed è la scelta che garantisce il carattere nazionale e popolare della lingua. Toscano deve essere, perché Firenze è la capitale linguistica d’Italia (come lo è Parigi per la Francia, scriveva a Fauriel); il fatto che sia non quello letterario ma quello parlato ne garantisce la popolarità; il fatto che sia parlato dalle persone colte ne garantisce il carattere nazionale (il parlato dalle persone incolte, con caratteri marcatamente dialettali, rimarrebbe una lingua di diffusione regionale)
5)      L’opera è così realizzata, ed è un’opera straordinariamente innovativa sia per il genere letterario, sia per la soluzione linguistica, sia perché gli “umili” (“gente meccanica, di piccolo affare”) sono per la prima volta i protagonisti di un’opera non comica.
6)      Comincia una vicenda critica che alterna
a)      giudizi di grande apprezzamento (De Sanctis: l’ideale è calato nel reale, i protagonisti sono uomini veri, non più gli eroi alfieriani – o foscoliani – che si risolvono nel rifiuto della storia e della realtà)
b)      a forti stroncature, particolarmente da parte della corrente laico-democratica del Risorgimento (Settembrini: “è un libro che loda preti e frati, consiglia pazienza e sommissione”; altrettanto pensava Carducci, che peraltro disprezzava anche la debolezza di una lingua che rinunciava alla energia e alla vitalità della tradizione classica)
7)      Nel Novecento la contrapposizione si mantiene:
a)      famoso il giudizio di Gramsci che, opponendo a Manzoni l’autentica popolarità di Tolstoi, denuncia l’atteggiamento paternalistico del primo, il quale non è in grado di immedesimarsi nel popolo, ma ha quello stesso atteggiamento di superiorità e di irrisione (di distacco ironico e compatimento scherzoso) che la letteratura ha sempre avuto nei confronti degli “umili”.
b)      Moravia lo riprende, con il famoso paragone fra Manzoni e il marchese erede di don Rodrigo (che di umiltà “ne aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari”).
c)      Baldi parla di un populismo nei confronti del popolo della campagna (laborioso, onesto, altruista, umile), laddove  il negativo è visto sia nelle classi superiori (corrotte, violente, superbe), sia nel popolo della città (sovversivo, avido, violento): insomma il popolo, in quanto ignorante e irrazionale, è incapace di agire politicamente, perciò ha bisogno di una guida paterna e illuminata.
8)      Dopo le valorizzazioni di
a)      Momigliano (la religiosità è un momento intrinseco dell’ispirazione poetica)
b)      e Russo (il romanzo è il poema della imperscrutabile giustizia divina, cui si contrappone la dolorosa iniquità del mondo),
c)      è stato Caretti a ribadire la portata rivoluzionaria dell’opera: portando a compimento progetti illuministi e poi romantici, Manzoni crea dal nulla il romanzo moderno, liquida, da solo, una tradizione letteraria secolare, aprendo alla letteratura vie nuove, il più possibile corrispondenti alla mutata situazione storica e morale (ingiusto quindi il paragone con Tolstoi, che scrive mezzo secolo dopo, avendo alle spalle una consolidata tradizione di romanzo)
9)      Io sottolineo la straordinaria capacità di Manzoni di creare personaggi vivi e memorabili, sapientemente caratterizzati nella loro psicologia, semplice o complessa che sia (don Abbondio su tutti, ma poi Perpetua, Renzo, Gertrude, l’Innominato, ecc).
10)  Ma non sfuggo al problema del “messaggio” del romanzo e faccio notare la significatività straordinaria di quell’aggiunta in appendice che è la Storia della colonna infame, in cui si attribuisce non all’ignoranza dei tempi la colpa di quelle aberranti condanne (come aveva fatto Pietro Verri) ma alla viltà di quei giudici che, contro fatti che erano evidenti anche per loro, vollero trovare un capro espiatorio condannando degli innocenti. E dunque quell’appendice getta una luce su tutto il romanzo che appare allora (con tutti i limiti di capacità di comprensione del popolo che un aristocratico dell’Ottocento, quale Manzoni, poteva avere) come una denuncia implacabile della responsabilità degli uomini di potere nel male del mondo; è una denuncia della collusione mafiosa, per cui i potentati si appoggiano a vicenda a danno dei semplici cittadini. Si rilegga
a)      l’episodio di fra Cristoforo al palazzo di don Rodrigo e si noti come alla stessa tavola siedano esponenti del potere economico (Rodrigo e Attilio), del potere politico (il Podestà), del potere giudiziario (Azzeccagarbugli).
b)      E si rilegga l’episodio dell’incontro e del dialogo fra il conte Zio e il padre provinciale: episodio straordinario non solo per l’acutezza psicologica con cui i due personaggi sono delineati, ma anche per la capacità di comprensione dei meccanismi che regolano il rapporto tra potenti.
11)  Se è così, va ripensato il senso della conclusione del romanzo in cui Renzo, con la famosa serie degli “ho imparato”, teorizza l’astensione dalla politica (la non partecipazione) e Lucia lo corregge suggerendo la necessità di affidarsi a Dio: come può l’autore della Storia della colonna infame insegnare l’inerzia della rassegnazione? La risposta giusta l’ha data Raimondi, in Romanzo senza idillio: è certo che non può trionfare, con gli “ho imparato” di Renzo,  la morale opportunistica e complice di don Abbondio (la morale che insegna a farsi i fatti propri; e don Abbondio, a ben guardare, è il vero personaggio negativo del romanzo, non il comico che poi esorcizziamo), ma nemmeno si può credere che chi ha dato una simile rappresentazione della realtà della storia possa “farla così semplice” (come la fa don Abbondio, quando parla della Provvidenza come una scopa, e come la fa Lucia, quando invita alla “fiducia in Dio”). Quel finale è in verità aperto e problematico (la ricerca continua, dice Raimondi, nella coscienza del lettore), non c’è niente di consolatorio in quel finale, e ciò è confermato dal tono così poco lieto che pervade le pagine conclusive.
12)  La convinzione profonda del cristiano Manzoni è che la condizione dell’uomo nel mondo sia segnata per sempre dalla caduta, e quindi dalla presenza ineliminabile del male e del dolore: certo, come dice Lucia, la “fiducia in Dio” lo “raddolcisce” e lo “rende utile per una vita migliore”, ma non nel senso che si debba confidare in una Provvidenza che giunge puntualmente a castigare i colpevoli e a premiare gli innocenti (almeno, non in questa vita), bensì nel senso che, attraverso la “sventura” (che allora è “provvida”), si acquisisce una consapevolezza superiore della propria condizione in questa vita, e del proprio dovere verso gli altri.
13)  Che ci sia un dovere da compiere verso gli altri (che non ci si possa chiudere né in un opportunismo complice, né in una rassegnazione fideistica) è evidente dal fatto che – va ripetuto -  tutto il romanzo è una denuncia dura e inflessibile della responsabilità degli uomini (soprattutto di quelli che governano) nel commettere il male. Il male è certo ineliminabile, ma questo non ci esime dal dovere di agire per contrastarlo, esiste un margine che ci consente di intervenire per attenuarlo (non si spiegherebbe altrimenti la positività di figure eroiche quali quelle di fra Cristoforo, del Cardinale, dell’Innominato convertito).
14)  Dunque, io suggerisco di tornare indietro di qualche pagina e riconoscere che il vero “sugo” della storia sta nelle parole dell’Anonimo, secondo cui “bisognerebbe più pensare a far bene che a star bene, e così si finirebbe anche per star meglio”. 
15)   E se è così, è anche superato l’intransigente pessimismo (il “giansenismo”) enunciato nelle parole di Adelchi morente (“Loco a gentile, / ad innocente  opra non v’è; non resta / che far torto o patirlo”): non tanto perché il lieto fine dimostri la possibilità che il bene trionfi nella storia (visto che un vero lieto fine non c’è), quanto perché le suddette parole dell’anonimo rivendicano uno spazio (un “loco”, per quanto piccolo) per un’azione “gentile” ed “innocente”, sostengono il dovere (per quanto frustrato) di operare per il bene.


La pagina finale nelle tre stesure dei Promessi sposi
 
 
Nel Fermo e Lucia rispetto alle stesure successive
 
1)     non c’è la lista dettagliata degli “ho imparato”, ma ci sono delle espressioni generiche (all’autore sarà sembrato che Fermo non potesse esprimersi in quella maniera);
2)    Lucia dà del “tu” a Fermo (il “voi” successivo sembra una scelta meno dialettale, anche moralmente più consona al decoro dei due personaggi);
3)    scappate” (troppo popolare), invece di “guai”;
4)    costrutto morale” (troppo sostenuto), invece di “sugo”;
 
Nella quarantana rispetto alla ventisettana
 
1)    ci sono varianti lessicali intese ad una normalizzazione della lingua sul modello del toscano parlato (tumulti per garbugli, attaccarmi per affibbiarmi, pensarci per meditarci)
2)    sempre al modello del toscano parlato è riconducibile l’uso sistematico di elisione ed apocope (cent’altre, n’era, son, abbiam), l’uso dell’espressione impersonale si è (si è dato cagione, s’è fatto apposta), l’eliminazione di ella come soggetto (altrove sostituito con lei), la scelta di intorno per attorno, annoiarvi per noiarvi, impicciato per impacciato, conclusero per conchiusero;
3)    espressioni meno auliche (non basta a tenerli lontani per assicura da quelli);
4)    varianti stilistiche intese a meglio caratterizzare le parlate dei due personaggi: più popolare quella di Renzo (non alzar troppo il gomito invece di bere più del solito; quando c’è lì d’intorno gente invece di quando c’è d’attorno gente, introducendo con il un elemento deittico gestuale), più controllata, come le si addice, quella di Lucia (son venuti a cercar me invece di sono venuti a cercarmi me).


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