ORAZIO (lezioni)


Orazio

 

Nacque a Venosa (colonia al confine fra Puglia e Basilicata) (1) nel 65 a.C. da un padre liberto, che poi si trasferì a Roma per esercitare il mestiere di esattore delle aste pubbliche (coactor). Il padre, a prezzo di sacrifici, volle dargli la migliore istruzione: lo fece studiare presso il grammatico Orbilio (plagosus), quindi ad Atene (come si usava per completare la propria formazione, con studi, diremmo, universitari). Ma ad Atene si erano rifugiati i cesaricidi (siamo dopo il 44 a.C.) e Orazio, come altri giovani romani, fu sedotto dai loro discorsi sulle libertà repubblicane e sulla necessità di difenderle con le armi. Si arruolò nell’esercito che Bruto stava organizzando e, come tribunus militum, combattè – ignominiosamente (2) – a Filippi (42 a.C.). Tornato a Roma a seguito di un’amnistia,  solo e in miseria, si adattò al mestiere di scriba questorius (segretario del questore). Nel 38 Virgilio e Varo, che avevano avuto modo di apprezzarne le qualità poetiche, lo presentarono a Mecenate, con il quale, dopo breve tempo, nacque una profonda amicizia (3). Mecenate, a sua volta, lo presentò ad Augusto, il quale lo apprezzò al punto di chiedergli di diventare suo segretario: incarico che Orazio rifiutò, adducendo motivi di salute, in verità, è da supporre, per conservare la propria indipendenza. Tuttavia aderì sinceramente al programma augusteo di pacificazione e restaurazione delle antiche virtù: ne sono testimonianza le cosiddette “odi romane” e, soprattutto, il Carmen saeculare (composto su sollecitazione del princeps, nel 17, in occasione dei grandiosi ludi saeculares, istituiti per celebrare la grandezza imperitura di Roma). Morì nell’ 8 a.C., due mesi dopo la scomparsa dell’amico Mecenate.

Fra il 41 e il 30 furono composti, parallelamente, gli Epòdi (4) (o Iambi) e le Satire (o Sermones).

Per gli Epòdi (17 componimenti) Orazio si richiama esplicitamente ad Archiloco (VII sec. a.C.) (5), autore di una poesia giambica fortemente aggressiva. Ma nell’opera di Orazio c’è una varietà di contenuti: ci sono, sì, componimenti caratterizzati dall’invettiva (IV, contro il comandante di una legione, tronfio del suo denaro; VI, contro un maldicente; X, contro un poetastro, detrattore di Virgilio; ecc.), ma ci sono anche un filone di poesia civile (VII, contro ogni guerra civile; XVI, in previsione della rovina di Roma a causa delle guerre civili, si invitano i concittadini a rifugiarsi nelle isole Fortunate) e un filone erotico (XIV, l’amore distoglie dal comporre versi; XV, rinfaccia l’infedeltà a una donna che lo ha tradito).  

Le Satire (o Sermones) sono raccolte in due libri, rispettivamente di 10 e di 8 componimenti. Si tratta di un genere tipicamente romano (6) e Orazio (I, 4, 1-11) fa esplicito riferimento a Lucilio come iniziatore (da lui deriva l’uso dell’esametro, che diviene il metro distintivo della satira), anche se rivendica per il genere una derivazione dalla commedia antica greca (la archàia, di Eupoli, Cratìno e Aristofane), di cui riconosce la caratteristica (passata in Lucilio) di attaccare direttamente gli avversari per nome (in greco: onomastì komodèin, deridere chiamando per nome; in latino, nominatim laedere); su Lucilio aggiunge per altro riserve per la scarsa cura formale (componeva duecento versi all’ora e il suo stile “scorreva fangoso”) (7). E’ affermata dunque, anche per la satira, la necessità del labor limae, del resto in coerenza con i principi della poesia alessandrina: brevitas e raffinatezza formale. Sono sermones, in quanto non hanno il tono elevato dei generi alti (la tragedia, l’epica, la lirica): il linguaggio, per quanto accurato, si avvicina a quello della conversazione (alcune satire hanno un carattere dialogico, con un interlocutore reale – il seccatore in I, 9 –  o immaginario – l’avaro in I, 1) e i temi trattati appartengono alla quotidianità. Ciononostante Orazio dichiara, con una certa civetteria, che la sua produzione non ha diffusione popolare, è per pochi intimi, per un pubblico scelto. Dalla satira di Lucilio è ripreso anche il carattere soggettivo, autobiografico (lo spunto per la riflessione morale è tratto da vicende personali, semplici eventi della quotidianità), ma, a differenza di quella di Lucilio, la satira di Orazio rifugge dall’attacco personale (in particolare, nei confronti dei potenti), predilige la riflessione morale sui vizi e sulle debolezze degli uomini, partendo dagli esempi concreti forniti dai comportamenti di persone reali (gente comune, non i potenti: vedi in I, 9 la satira nei confronti del seccatore arrivista) (8). I fondamentali principi ispiratori sono riconducibili agli ideali della metriòtes (o mesòtes, o medietas: senso della misura, del giusto mezzo) e della autàrkeia (autosufficienza). Il principio della metriòtes vuole che si rifugga dagli estremi delle passioni, dagli eccessi nei comportamenti (vedi in I, 1: non bisogna essere né avari né scialacquatori, est modus in rebus), l’autàrkeia implica una limitazione dei desideri, la libertà dai condizionamenti esteriori, il riconoscimento che basta la soddisfazione dei bisogni primari (vedi in II, 6 la descrizione della propria vita, sobria e serena, in campagna, contrapposta alle turbolenze della vita cittadina; ma anche in I, 1: gli uomini sono incontentabili, ognuno invidia la vita degli altri).

Le Odi (o Carmina), in quattro libri, sono composte fra il 30 e il 23 per i primi tre libri, e fra il 23 e il 13 per il quarto (9). Si tratta della produzione detta “lirica”, con la quale Orazio si colloca esplicitamente all’interno di una tradizione letteraria di ascendenza greca (10): i modelli sono infatti i poeti greci della lirica arcaica (Alceo, Saffo, Anacreonte, Stesicoro: VII-VI sec. a.C.; ma anche Pindaro, Bacchilide, Simonide: VI-V sec. a.C.), seppure rivisitati con la raffinata sapienza acquisita dagli alessandrini. E’ l’opera grazie alla quale Orazio – lui da umili origini pervenuto alla gloria presente, lui che per primo ha portato in Roma la lirica eolica) (11) presume di ottenere l’immortalità, come afferma orgogliosamente nell’ode che chiude il III libro. (12) 

Alceo e Saffo sono decisamente i modelli più importanti, se non altro considerando il fatto che gli schemi metrici più ricorrenti sono quelli delle strofe saffica e alcaica. Non si tratta però di una pedissequa imitazione o di un semplice montaggio di materiali preesistenti, giacchè Orazio rielabora e combina in maniera personale quelle tematiche – ad esempio, l’incipit di I, 37 (13), in cui si celebra la vittoria di Ottaviano su Cleopatra, ricorda un frammento di Alceo in cui il poeta esulta per la morte del tiranno Mirsilo: ma mentre in Alceo c’è solo una gioia selvaggia, in Orazio c’è pietà per la regina sconfitta; oppure, il carme I, 3 combina il motivo del propemptikòn con quello della riflessione filosofica, proprio della lirica gnomica, poiché inizia come augurio di buon viaggio a Virgilio e si conclude denunciando l’audacia presuntuosa degli uomini; ancora, il carme I, 9 prende spunto da un frammento di Alceo, ma poi svolge la caratteristica tematica oraziana del carpe diem e, con i riferimenti al Soratte innevato e al campo Marzio,  evoca un contesto tipicamente romano – .

Si possono distinguere diversi filoni tematici: quello erotico (non ci si riferisce ad un’unica vicenda d’amore, come in Catullo o in Tibullo e Properzio; né, di quelli, ci  sono gli impeti passionali o i sentimenti struggenti; ci sono singoli momenti, con riferimento a donne diverse – Cloe, Tindàride, Pirra, Lidia – e l’amore è trattato con leggerezza, con un velo d’ironia, come un gioco scherzoso); quello conviviale – o simposiaco – associato a quello gnomico (il “bere insieme” agli amici, discutendo di argomenti più o meno leggeri, dimenticando le avversità della vita, è un motivo ricorrente; il vino non implica ubriachezza, ma la leggerezza dell’oblio, perché la vita è breve e la morte incombe; dunque valga l’insegnamento epicureo di vivere “cogliendo l’attimo”, non cercando un piacere smodato, ma nella consapevolezza che il vero piacere consiste nell’accontentarsi di poco, nel senso della misura, nell’aurea mediocritas (14) e nell’autàrkeia; buoni valori sono l’amicizia sincera e l’amore vissuto senza eccessivi coinvolgimenti emotivi); quello civile (si trova ovunque, ma particolare risalto hanno le prime sei Odi del III libro, le cosiddette “odi romane”: si va dalla esecrazione delle guerre civili (15) alla celebrazione di Roma e del principe che ha saputo riportare la pace e restaurare le antiche virtù; per questo filone si può pensare alle sollecitazioni di Mecenate e dello stesso Augusto, ma è anche indubbio che quelle sollecitazioni trovino una consonanza nella sensibilità del poeta).

Quanto allo stile, si parla di una molteplicità di registri stilistici, pur trattandosi sempre di un tono più elevato rispetto al sermo cotidianus delle Satire. Si va da una maggiore leggerezza quando si tratta del motivo amoroso ad un registro sostenuto nei componimenti gnomici, ad un tono decisamente elevato quando si affrontano temi civili. La sintassi è generalmente semplice e misurata, ciò che maggiormente contraddistingue lo stile oraziano è la sapiente disposizione delle parole, ovvero quelle ingegnose associazioni (le callidae iuncturae), al limite dell’ossimoro, che valorizzano il significato dei vocaboli, sottraendoli alla fruizione usuale (16).   

Le Epistole – due libri: il primo, con venti componimenti, pubblicato nel 20; il secondo, con tre componimenti (17), nel 13 – costituiscono l’ultima produzione. Ritorna il metro (l’esametro), ed anche il tono, delle Satire (tant’è che Orazio chiama anche queste Sermones): si direbbe che la differenza consista semplicemente nel fatto che le Epistole hanno sempre un destinatario preciso. Quelle del primo libro ripropongono la riflessione morale a partire da eventi occasionali (nella IV invita Tibullo a venire in città a godersi la vita, nella VII si scusa con Mecenate per essere rimasto in campagna, malgrado le sollecitazioni dell’amico a rientrare in città, la IX e la XII sono biglietti di raccomandazione per amici; nella XVII e XVIII insegna a degli amici come comportarsi con i potenti; ecc.). I principi ispiratori sono ancora quelli delle Satire (metriòtes e autàrkeia), ma in più ci sono gli ideali epicurei del “vivi nascosto”, del disimpegno e del carpe diem (18) (sebbene si ritrovino anche spunti stoici; del resto è lo stesso Orazio a dichiarare di non volere “giurare sulle parole di alcun maestro”) (19). Le tre del secondo libro trattano invece tematiche letterarie: nella prima, indirizzata ad Augusto, sostiene – secondo i dettami dell’estetica callimachea – la superiorità dei poeti moderni (più raffinati) rispetto agli antichi (più rozzi); quindi, respingendo la richiesta del princeps che sollecitava la rinascita del teatro romano, si dichiara favorevole (e predisposto) ad una poesia destinata alla lettura; nella seconda, indirizzata a Floro, si scusa con l’amico per la scarsa fecondità della sua vena poetica, adducendo, oltre alla pigrizia, un preponderante interesse per la filosofia; la terza è un trattato in versi sull’arte della poesia (20) (si ritrovano qui quei principi dell’estetica classica che ricorreranno nei secoli: la grande poesia è frutto, sì, dell’ingenium, ovvero della fantasia creativa, ma deve realizzarsi con l’ars, ovvero con un sapiente labor limae; il poeta deve miscère utile dulci, ovvero dilettare ammaestrando; è pregevole la callida iunctura, ovvero quella “accorta associazione” che rende “nuova una parola usuale”) (21).

 

 

 

 






1) Lucanus an apulus anceps (Serm. II, 1, 34)

2) Riprendendo un topos risalente ad Archiloco, Alceo, Anacreonte, dice di avere abbandonato lo scudo (Odi, II, 7)

3) Il che, fra l’altro, gli consentì di risolvere tutti i suoi problemi economici: ottenne una casa a Roma e più di una villa in campagna (in Sabina, a Tivoli).

4) Epòdo è chiamato in un distico il secondo verso, più corto del primo. Tale sistema metrico è ricorrente in questi componimenti, in cui al trimetro giambico segue il dimetro giambico. Orazio li chiama Iambi perché il giambo era il metro tipico di questo genere di poesia (aggressiva, polemica)

5) In Epist. I, 19, 23-25 dice “Parios ego primus iambos / ostendi Latio, numeros animosque secutus / Archilochi” (Archiloco era di Paro).

6) “Satura tota nostra est”, dirà Quintiliano.

7) “In hora saepe ducentos versus dictitabat… Cum flueret lutulentus, erat quod tollere velles

8) Nel tono e nei contenuti si riconosce anche un’influenza della diàtriba cinico-stoica (del resto Orazio chiama Bionei sermones le sue satire, e Bione di Boristene, cinico del IV-III sec., era appunto autore di diàtribe). Le diàtribe erano una sorta di prediche popolari, rivolte ad un pubblico umile, caratterizzate dal cosiddetto spudoghèloion (serio-comico), ossia dalla mescolanza di battute e argomenti seri, e da esemplificazioni attraverso favole e aneddoti.

9) Sono in tutto 104 componimenti, compreso il Carmen Saeculare.

10) Dunque la “lirica” non deve essere intesa in senso moderno come poesia in cui il poeta esprime liberamente la propria soggettività, ma come poesia “melica” (cioè, cantata e accompagnata da strumenti musicali) in cui si riprendono tematiche (topoi) ormai consolidate dalla tradizione.

11) E’ la lirica scritta nel dialetto eolico, che era quello che si usava nell’isola di Lesbo (quindi è la lirica di Alceo e Saffo).

12) Exegi monumentum aere perennius” (III, 30).

13) “Nunc est bibendum, nunc pede libero / pulsanda tellus…”

14) “Auream quisquis mediocritatem / diligit, tutus caret obsoleti / sordibus tecti, caret invidenda / sobrius aula.” (II, 10).

15) In I, 14, attraverso l’allegoria della nave sbattuta dai flutti (allegoria ripresa da Alceo) si fa riferimento alla condizione della repubblica romana tormentata dalle guerre civili.

16) Come lo stesso Orazio chiarisce nell’Ars poetica (vedi sotto), l’effetto, poeticamente efficace, della callida iunctura è quello di “rendere nuova una parola usuale”. Ad esempio,  l’espressione “carpe diem” in I, 11, associa una parola usuale (dies) ad un verbo che appartiene ad un altro campo semantico (carpere). Lo stesso si può dire dell’espressione “silvae laborantes”, in I, 9.

17) Tre, se si considera anche la Epistola ad Pisones (o Ars poetica, come fu chiamata da Quintiliano), che però una parte della tradizione tramanda come a sé stante.

18) In I,4,16 definisce scherzosamente se stesso “Epicuri de grege porcum”.

19) In I,1,14-15: “nullius addictus iurare in verba magistri, / quo me cumque rapit tempestas, deferor hospes.”

20) Sua fonte è probabilmente Neottòlemo di Pario, un aristotelico vissuto nel III sec.

21) Ars poet., 47-48: “dixeris egregie, notum si callida verbum / reddiderit iunctura novum”.

 

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