DECADENTISMO (schede)

 


Tra romanticismo e decadentismo

 
E. GIOANOLA, Il decadentismo,
ed. N. U. Studium 1983, pp. 29-35.


Il romanticismo aveva scoperto ciò che non è riducibile alla ragione, e l'aveva chiamato "sentimento", "spirito", "non-razionalità"; l'aveva riconosciuto non solo nell'Io, ma anche nella Natura, e quindi l'individuo (il poeta) si sentiva parte dell'universo, aspirava a raggiungere l'armonia con la Natura (a identificarsi in essa) superando con lo slancio del sentimento gli ostacoli frapposti dalla ragione (superando il reale in nome dell'ideale). Ci sono quindi delle connotazioni ottimistiche, e l'eroe-poeta combatte per dei valori positivi (patria, amore, libertà, religione), relativamente ai quali si rende inevitabile una interazione con la società.


Col decadentismo questa "non-razionalità" è più precisamente "inconscio" e suscita inquietudine. Dentro pulsa qualcosa, ma non è niente di nobile come il sentimento o l'Idea (sublimabili in valori umani e civili); sono mostri paurosi, istinto che sfugge ad ogni controllo morale e intellettuale: e ciò non si sublima (il titano romantico voleva pur sempre adeguare il reale all'ideale); si trasforma immediatamente in poesia, oppure lo si usa per una sistematica distruzione dei valori tradizionali (e di se stesso: vedi il protagonista delle Memorie del sottosuolo).


Solo era anche l'eroe romantico: ma lottava in positivo, e in caso di sconfitta scopriva comunque il valore del dolore e della sofferenza. L'eroe decadente è solo e senza valori: a lui non restano che un narcisismo-esibizionismo estetizzanti, volontà di potenza, sado-masochismo.


Puppo sintetizza: dalla ragione al sentimento (il romanticismo), e dal sentimento all'istinto (il decadentismo).



Definizione e limiti del decadentismo

E. GIOANOLA, Il decadentismo ,
N. U. Studium 1983, pp. 7-29

Esiste un problema di periodizzazione: dalla "crisi di fine secolo" a noi o un periodo più limitato (precisamente, quello fra l' '80 e il '90, in Francia, con al centro Verlaine e i maudits che assumono a titolo di una loro rivista - Le Décadent - un termine loro appioppato in senso spregiativo dalla critica accademica)? (1)   

E poi: “decadenza” rispetto a che? Ovviamente rispetto ai valori morali e civili espressi dalla grande letteratura del Romanticismo. (2)

C'è quindi una connotazione negativa sin dalle origini, avallata, per quanto riguarda l'Italia, da Croce che poneva in Carducci il termine della grande letteratura (poi seguivano "i tre malati di nervi": Pascoli, D'Annunzio e Fogazzaro); avallata anche dalla critica marxista che qualificava il tutto come "letteratura della crisi" (ovviamente, della borghesia), mentre valorizzava le correnti realistiche (realismo socialista, neorealismo).

La questione viene inquadrata correttamente nel '36 da Binni che in La poetica del decadentismo si proponeva di esaminare concretamente le poetiche (come del resto nello stesso anno faceva Anceschi con Autonomia ed eteronomia dell'arte), separandole dal concetto astratto (e moralistico) di decadenza e indicando nella scoperta dello jenseits der Dinge (al di là dell'oggetto, "sforamento" della superficie naturalistica della realtà; scoperta dell'inconscio) il principio fondamentale del decadentismo (3). Questa interpretazione va condivisa, superando sia l'ipotesi idealistica della "malattia" che quella marxista della "crisi".

Quanto alla periodizzazione, no alle riduzioni ad un solo aspetto (ad esempio, all'estetismo di Huysmans, D'Annunzio, Wilde, Von Hofmannstahl) e no alla tesi di una indiscriminata continuità con il Romanticismo (M. Praz: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica; A. Beguin: L'anima romantica e il sogno): la nuova sensibilità comincia con Baudelaire (I fiori del male, 1857) e Dostoevskij (Memorie dal sottosuolo, 1864) e continua fino a noi.

 
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(1) E’ un problema che si pone specificamente in Italia, perché in Francia con il termine “decadentismo” si indica appunto la breve esperienza realizzatasi attorno alla rivista Le décadent (altri motivi, per noi tipicamente decadenti, vengono ricondotti più propriamente al “simbolismo” e, nel Novecento, al “surrealismo”); in Inghilterra con “decadentismo” si indica invece il diffondersi di quel gusto estetizzante che va dai pre-raffaelliti ad Oscar Wilde.
(2) Di fatto proprio Verlaine in un sonetto del 1883 (Langueur) aveva usato quel termine,  paragonando la propria condizione, di stanchezza ed estenuazione spirituale, a quella dell’impero romano “alla fine della decadenza”
(3) Questo motivo è strettamente connesso con quello della sfiducia nelle capacità conoscitive della scienza (con la polemica anti-positivista). Così D’Annunzio: “La scienza è incapace di ripopolare il disertato cielo, di rendere la felicità alle anime in cui ella ha distrutto l’ingenua pace. Non vogliamo più la verità. Dateci il sogno. Riposo non avremo se non nelle ombre dell’ignoto”. E così Pascoli: “Tu sei fallita, o scienza: ed è bene; ma sii maledetta che hai rischiato di far fallire l’altra. La felicità tu non l’hai data e non la potevi dare: ebbene, se non hai distrutta, hai attenuata oscurata amareggiata quella che ci dava la fede”.


 
 
Il simbolismo
 
Dal movimento dei décadents si stacca un gruppo che si autodefinisce simbolista. Il poeta Jean Moréas pubblica nel 1885 il Manifesto del simbolismo e nel 1886 nasce la rivista “Le Symboliste”. Ma con il termine “simbolismo”, più che indicare specificamente il suddetto gruppo, ci si riferisce ad una nuova sensibilità, ad un nuovo modo di concepire e praticare la poesia, che ha certamente come modelli Baudelaire, Rimbaud e Mallarmé, ma che caratterizza, seppure in modi diversi, tanti poeti di fine Ottocento e inizio Novecento.
L’idea di fondo è che, sotto la superficie fenomenica delle cose, ci sia una realtà più profonda e più vera: compito dell’artista è riconoscerla e svelarla. Ciò implica che la realtà che si vede è pura apparenza: e tale apparenza, non la verità profonda, conoscerà la scienza con le sue procedure e rappresenteranno le poetiche naturalistiche, a dispetto della loro presunzione di conoscere e rappresentare l’oggettività delle cose. E’ il poeta invece, che, con la sua capacità “visionaria” (di “voyant”, come diceva Rimbaud), è capace di vedere sotto la superficie delle cose, di riconoscere, attraverso uno “sregolamento di tutti i sensi”, relazioni, somiglianze, dissomiglianze (1) che gli altri non vedono e non riconoscono. Egli vede tra le cose rapporti invisibili per coloro che guardano la realtà con i parametri spazio-temporali della logica e della consequenzialità; egli vede secondo analogie imprevedibili e incomprensibili per chi non ha la sua capacità visionaria.
Vista così, la realtà non è che “una foresta di simboli” (Baudelaire, in Corrispondenze), perché le cose non valgono per come appaiono, ma significano altro, alludono ad altro, sono simbolo d’altro. E la parola poetica è l’unica capace di comunicare questa “alterità”, questa verità più profonda, che sta tanto sotto la superficie delle cose quanto sotto la superficie della coscienza. Così Le bateau ivre di Rimbaud è questa stessa parola poetica che affronta il mare aperto nella libertà più assoluta, è il poeta stesso che cerca di dare voce ai fantasmi del proprio inconscio e che alla fine desiste, rifugiandosi nella più nota “acqua d’Europa”, rinunciando al mare tempestoso per “la pozzanghera nera e fredda”. Ancora più esasperato in Mallarmé il tentativo di esprimere l’inesprimibile: è affidata alle parole, che accostano analogicamente realtà lontanissime ed incommensurabili, l’aspirazione ad una conoscenza assoluta.
Di tutt’altra natura era l’allegoria nei poeti medievali. L’allegoria era un modo di rappresentare un concetto attraverso un’immagine concreta, che esprime quel concetto in maniera circoscritta e completa (il concetto di avidità insaziabile è compiutamente rappresentato dalla lupa magra e “d’ogni brama carca”). Col simbolismo invece l’immagine concreta non esprime completamente l’idea; allude all’idea, ce la fa intravedere, la evoca, ma l’idea resta sempre non delimitabile, inaccessibile e inesprimibile nella sua totalità (così l’aratro in Lavandare di Pascoli allude alla solitudine, e l’assiuolo, nell’omonima poesia, evoca la morte).
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(1) “corrispondenze” le chiama Baudelaire, nell’omonimo componimento. E Montale, ne I limoni: “la mente indaga, accorda ,disunisce”
 

I “maestri del sospetto”
 
 
E’ Paul Ricoeur che in uno studio del 1965 (Dell’interpretazione. Saggio su Freud) definisce “maestri del sospetto” Marx, Freud e Nietzsche.
I tre autori, per tanti aspetti diversi, sono accomunati dal fatto che demoliscono la certezza cartesiana sulla coscienza come fondamento della verità (Cartesio, di fronte al dubbio  sulla possibilità di conoscere la realtà, aveva affermato, con il cogito ergo sum, l’esistenza di una sostanza pensante di cui non posso dubitare, attribuendo dunque al soggetto umano la responsabilità e la capacità di fondare la conoscenza).
Per Marx esiste una “falsa coscienza”, cioè una coscienza che, lungi dall’autodeterminarsi, è determinata dalla struttura economica (“non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza"). L’unica struttura reale sono i rapporti economici di potere e la coscienza (così come la morale) non è che una sovrastruttura condizionata da tali rapporti.
Nel caso di Freud si tratta della scoperta che al di sotto della coscienza (espressione dell’Io) esiste il sub-conscio, ovvero un livello oscuro in cui agiscono istinti inconfessabili (pulsioni sessuali e pulsioni distruttive, espressione dell’Es) e imperativi morali (espressione del Super-Io, a sua volta determinato dall’introiezione della figura paterna) e che determina i comportamenti più di quanto la coscienza non voglia e non creda.
Quanto a Nietzsche, la sua attenzione si appunta sulla natura della morale. Questa, presentata come un sistema di valori universale, è in realtà uno strumento di dominio. La morale tradizionale, identificata con la morale cristiana, è una morale degli “schiavi”, una conseguenza del “risentimento” dei deboli.
Questi, umiliati dall’esperienza dei forti (i “signori”, la cui morale invece privilegia i valori dell’individualismo e afferma la volontà di potenza) e non potendo ribaltare la realtà, si costruiscono una morale rovesciata e chiamano “male” ciò che è bene (forza, piacere) e “bene” ciò che è male (umiltà, rinuncia). Ne consegue un indebolimento (o de-naturamento) dell’uomo, che diventa così un più docile oggetto, sotto il controllo delle forze ideologico-sociali che hanno costruito tale sistema etico.  Ma la natura si vendica perché gli istinti naturali, repressi dalla morale, non potendo trovare libero sfogo all’esterno, si riversano nell’interiorità, si rivolgono contro l’uomo stesso, determinandone “la più grave e oscura malattia” (in questo, anticipava Freud).
Tutto ciò mette radicalmente in crisi l’idea fondamentale del positivismo, secondo cui esistono categorie universali del pensiero a garanzia della conoscibilità del reale. Si scopre invece che il pensiero del soggetto pensante è condizionato (e quindi falsificato) dai rapporti di potere (Marx), dalla repressione degli istinti (Freud), dall’imposizione-accettazione dell’etica della rinuncia (Nietzsche).

 
 G. D'ANNUNZIO                        Il piacere
 (1863-1938)                                  Mondadori 1965
 
 
 
 
Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta, ultimo rampollo di una famiglia nobile, all’inizio della narrazione si prepara a ricevere, nella sua casa di Trinità dei Monti, a Roma (1), Elena Muti, che era stata sua amante e che poi l’aveva improvvisamente lasciato (per sposare un ricchissimo lord inglese).
Elena gli chiarisce che tutto è finito, e ad Andrea non resta che seguire il filo dei ricordi: l’innamoramento, i convegni in ambienti di sofisticata raffinatezza, le visite ai musei, le passeggiate nella campagna romana (e qui l’autore ha modo di sbizzarrirsi, nel descrivere quadri, ville, paesaggi); quindi Elena se ne era andata, ed Andrea, nel tentativo di dimenticarla, si era dato ad una vita di dissipazione erotica, finchè era stato gravemente ferito in duello da un rivale; ritiratosi nella villa di Schifanoja, ospite della cugina, si era dedicato ai piaceri dell’arte (poesia e incisioni; e anche qui l’autore ha modo di esprimere la sua poetica decadente-estetizzante) (2); qui si era innamorato di Maria Ferres (un’amica della cugina), affascinato dalla sua bellezza spirituale (ama l’arte come lui); e Maria, dopo aver lottato disperatamente con se stessa (è sposata), l’aveva contraccambiato; con l’autunno entrambi erano tornati a Roma, ed Andrea aveva ricominciato ad essere ossessionato dal pensiero di Elena (e qui siamo tornati all’incipit del romanzo).
Quando, nella prima notte d’amore, Andrea, nell’impeto della passione, si lascia sfuggire l’invocazione ad Elena, tutto crolla: Maria inorridita fugge. Il romanzo termina con Andrea che, solo e sconfitto, visita le stanze ormai vuote di casa Ferres (Maria è partita).
 
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(1) Nel cap. II si parla della predilezione del protagonista per questa città; ma si sottolinea che la Roma che ama non era quella dei Cesari, ma quella dei Papi; non quella classica degli archi, delle terme, dei fori, ma quella barocca delle ville, delle fontane, delle chiese. L’esteta decadente non apprezza la semplice linearità del classico, ma ricerca l’elaborata artificiosità del barocco.
(2) Con una sovrabbondanza di aggettivi, si sostiene che, nella imitazione della natura, nessuno strumento è più adatto del verso, capace di “rendere i minimi moti del sentimento, i minimi moti della sensazione ”, plastico oltremodo. Un verso perfetto, che “tiene in sé le parole con la coerenza di un diamante ” sembra esistere preformato nell’oscura profondità della lingua: il poeta lo scopre e si sente invadere da un divino torrente di gioia. Il là lo dà una cadenza di antichi verseggiatori toscani (stilnovisti o Petrarca), e poi partono associazioni musicali, i pensieri nascono rimati, le rime sollecitano immagini e pensieri. Insomma, non c’è un pensiero che preesiste e che chiede di essere messo in versi; c’è un godimento sensuale della parola, un accarezzarne la musicalità, il colore e il calore, che preesiste e determina i pensieri. Si dice ancora di Andrea: “Il suo spirito era essenzialmente formale. Più che il pensiero, amava l’espressione”.

 
 
O. WILDE (1854-1900)   Il ritratto di Dorian Gray (1890)
 C.d.E. 1963

 
 
Tutto il romanzo è impostato sul culto della bellezza: la bellezza è la cosa più importante, e Dorian Gray ne è il simbolo.
 Ma il vero esteta, colui che della bellezza sa godere, che è dotato di sensibilità e gusto superiori (alla Des Esseintes o alla Andrea Sperelli) è sir Henry Wotton, tanto sofisticato quanto cinico (è lui che “corrompe” Dorian, inducendolo ad una vita viziosa e dissoluta). Wotton è il "superuomo", odia la volgarità (e la mediocrità) del secolo, vuole dominare. E Wilde sembra compiacersi di seguirlo nei suoi paradossali ragionamenti (oltre che di descrivere ambienti e piaceri raffinati): vedi l'antisemitismo (pp. 51-53), l'edonismo (p. 24, 39, 51, 60, 80, 107, 108), il superomismo (p. 60, 77, 81), l'antifemminismo (p. 105, 108), l'esasperato estetismo (cap. XI).
l senso del romanzo sta nel rovesciamento del tradizionale rapporto arte-vita: qui è la vita che diventa opera d'arte (al di là del bene e del male e al di là della consunzione del tempo: Dorian non invecchia, malgrado la vita viziosa e malgrado il passare degli anni); mentre l'arte (il quadro) subisce ciò che normalmente subisce la vita: i segni del vizio e del peccato, il logoramento del tempo.
La storia vorrebbe essere tragica (c'è un assassinio: Dorian uccide l’autore del ritratto, suo amico, quando questi gli rimprovera la sua vergognosa condotta), ma non ci riesce perché c'è sempre il compiacimento estetico-edonistico (1). Ciò attesta la superficialità dell'impegno morale, che pure vorrebbe essere presente nel dramma del protagonista che vuole abbandonare la strada del peccato (sopraffatto dall’angoscia, Dorian colpisce il ritratto con un pugnale e cade morto, come se avesse colpito se stesso; i servi accorsi vedono il ritratto del loro padrone, bellissimo e giovane, e sul pavimento un morto “appassito, rugoso, disgustevole in volto”).
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(1) Nel mezzo dell'assassinio Wilde trova il tempo per descrivere una lampada intarsiata. Per tutto ciò, v. M. Praz, La carne, la morte e il diavolo, ecc., Sansoni (pp. 331-333).

 
 
J. HUYSMANS (1848-1907)                   A Rebours
Garzanti 1975              

 
Un burocrate (Huysmans era impiegato al Ministero degli interni) è autore  di questo romanzo (A Rebours, ovvero A ritroso, o A rovescio, o, ancor meglio, Controcorrente) considerato la "bibbia" del decadentismo estetizzante.
Des Esseintes, dotato di una sensibilità straordinaria, non sopportando più la volgarità della vita reale, si ritira in campagna, in una villa dove ogni minimo particolare denuncia l’odio per la banalità e il più raffinato estetismo. Contro la bellezza naturale (che all'esteta risulta monotona) viene celebrata la bellezza artificiale, l'unica in grado di soddisfare una sensibilità raffinata, quale quella del protagonista: famosa la descrizione di due locomotive come se fossero due belle donne, una bionda e una bruna (pp. 38-39). Ed è una bellezza che viene goduta attraverso l'esaltazione delle capacità sensitive: la vista (Des Esseintes gode dell'intonazione dei colori dell'arredamento), l'olfatto (ha in bagno una serie di essenze, che odora per godere di un'orgia di profumi: pp. 117-24), il gusto (dispone di un "organo a bocca" costituito da una serie di liquori di diverso tipo: p. 59), il tatto (come bibliofilo - e in questo per altro c'è soprattutto raffinatezza intellettuale - gode del semplice toccare e sfogliare i libri).
Tale raffinatezza si esprime anche nelle preferenze artistico-letterarie: ama la letteratura latina della decadenza (Petronio sopra tutti: acute le pagine 44-45, in cui parla del Satyricon) e il cattolicesimo visionario (e impregnato di sadismo).

Rispetto al cinismo superficiale di Lord Henry o Dorian Gray, qui il "disprezzo per i tempi" si concreta in malattia mortale (Des Esseintes è colpito da una forte nevrosi, da cui il suo medico lo libera fatica), oltre che in analisi approfondita della "decadenza" (invenzione linguistica, capacità di mostrare aspetti segreti dell'animo). Tale invenzione e tale capacità psico-analitica (che ne fa anche un modello di romanzo psicologico) sono le caratteristiche fondamentali di A Rebours.

Altro elemento caratteristico del decadentismo europeo, presente in Huysmans, è il disprezzo per la volgarità borghese, di fronte a cui unico rimedio è la solitudine (vedi la disperazione delle ultime pagine).

 











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