La famiglia Manzoni (dall'alto in basso, da sinistra a destra: Giulia Beccaria, Manzoni ed Enrichetta; Giulia, Pietro e Cristina; Sofia, Enrico, Clara e Vittoria.
Il
successo di pubblico e la critica nell’Ottocento
1)
Il romanzo ha un grande successo di pubblico, tant’è che in tempi in cui non
c’era il diritto d’autore, viene stampata una
gran quantità di copie pirata. E comincia anche la vicenda critica che vede
una prevalenza del cosiddetto “antimanzonismo”,
che si appunta sia sulla scelta linguistica sia, soprattutto, sulla
ideologia del romanzo, cioè sui valori che esso comunica.
2)
Nell’Ottocento un giudizio di
apprezzamento è quello di De Sanctis
che vedeva nel romanzo – rispetto ad esempio alle tragedie – “l’ideale” calato nel “reale”,
per cui i protagonisti sono uomini veri, non più gli eroi alfieriani – o
foscoliani – che si risolvono nel rifiuto della storia e della realtà. Quanto
alla religiosità che pervade il romanzo, De Sanctis riconosceva in essa una componente democratica e di impegno civile,
che quindi allineava l’ideologia manzoniana alla tradizione dell’illuminismo
lombardo.
L’antimanzonismo:
Scalvini, Settembrini, Carducci
3)
Ma già nell’Ottocento prevale
l’antimanzonismo. Per restare alle posizioni critiche più note, comincerò da Giovita Scalvini che già nel
1830, quindi ben prima dell’edizione definitiva, così si esprimeva:
(nel romanzo si
avverte) un non so che di austero, quasi dico di uniforme, di insistenza senza
alcuna tregua mai verso un unico obietto: non
ti senti spaziare libero entro la gran varietà del mondo morale; t’accorgi
spesso di non essere sotto la gran volta del firmamento che copre tutte le
multiformi esistenze, bensì d’essere sotto quelle del tempio che copre i fedeli
e l’altare.
4)
Forti stroncature sono proprie
della corrente laica e democratica del Risorgimento, a cui apparteneva Luigi Settembrini, il quale
definiva i Promessi sposi “il
libro della reazione” e aggiungeva: “è un libro che loda preti e
frati, consiglia pazienza e sommissione”. Altrettanto
pensava l’anticlericale ed antiromantico
Carducci, che peraltro disprezzava
anche la debolezza di una lingua che rinunciava alla energia e alla vitalità
della tradizione classica.
La
critica nel Novecento: Croce, Momigliano, Russo
5)
Nel Novecento Benedetto Croce dell’opera di Manzoni apprezzava l’Adelchi, ma non i Promessi sposi, in cui vedeva non
poesia ma oratoria, non la libera espressione del sentimento ma
l’intenzione pedagogica di ammaestrare, di comunicare principi morali, ideali
religiosi: finalità, secondo la sua concezione dell’arte, estranee alla
natura della poesia.
6)
Momigliano
vedeva invece nella religiosità del romanzo un momento non estraneo, ma
costitutivo dell’ispirazione poetica; Russo
parlava di una epopea della
Provvidenza e riconosceva a Manzoni una grande acutezza nella
rappresentazione della psicologia dei personaggi.
7)
Peraltro sia Momigliano che Russo sono autori
di famosi commenti scolastici del romanzo. Va infatti ricordato che già
nell’Italia dopo l’unità e poi per tutto il Novecento fu imposta la lettura
obbligatoria nella scuola superiore del romanzo, ritenuto non solo un modello linguistico, ma
anche di educazione morale e civile.
La
stroncatura di Gramsci: i popolani sono “macchiette”
8)
Ma vediamo ora due celebri esempi
novecenteschi di critica durissima del romanzo, quello di Gramsci e quello di Moravia. Ambedue sono accomunati
dalla convinzione che l’atteggiamento di
Manzoni sia non di vicinanza, ma di distacco aristocratico rispetto ai popolani
di cui si narrano le vicende.
9)
Gramsci critica in partenza l’uso dell’espressione
“gli umili”:
Questa
espressione, ‘gli umili’, è caratteristica per comprendere l’atteggiamento
tradizionale degli intellettuali italiani verso il popolo. (…) Nell’intellettuale italiano l’espressione ‘umili’ indica un rapporto di protezione paterna e
padreternale, il sentimento ‘sufficiente’ di una propria indiscussa
superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta superiore e l’altra
inferiore, il rapporto come tra adulto e bambino nella vecchia pedagogia o,
peggio ancora, un rapporto da ‘società protettrice degli animali’, o da
esercito della salute anglosassone verso i cannibali della Papuasia. (...) Il
carattere ‘aristocratico’ del cattolicismo manzoniano appare dal ‘compatimento’ scherzoso verso le figure di
uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoj): come fra Galdino (in
confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa
Lucia, ecc. (...) I popolani, per
Manzoni, non hanno ‘vita interiore’, non hanno personalità morale profonda;
essi sono ‘animali’, e il Manzoni è ‘benevolo’ verso di loro, proprio della
benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali. (...)
L’atteggiamento del Manzoni verso i suoi popolani è l’atteggiamento della
Chiesa cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di
medesimezza umana. (...) Tra il Manzoni
e gli ‘umili’ c’è distacco sentimentale: gli umili sono per il Manzoni un
‘problema di storiografia’, un problema teorico che egli crede di poter
risolvere col ‘romanzo storico’, col ‘verosimile’ del romanzo storico. Perciò gli umili sono spesso presentati come
macchiette popolari, con bonarietà ironica, ma ironica. E il Manzoni è
troppo cattolico per pensare che la voce del popolo sia la voce di Dio: tra il
popolo e Dio c’è la Chiesa e Dio non s’incarna nel popolo ma nella Chiesa. Che
Dio si incarni nel popolo può crederlo Tolstoi, non Manzoni. (…) Nei Promessi
sposi non c’è popolano che non sia ‘preso in giro’ e canzonato: da don
Abbondio a fra Galdino, al sarto, a Gervasio, ad Agnese, a Perpetua, a Renzo,
alla stessa Lucia: essi sono rappresentati come gente meschina, angusta, senza
vita interiore. Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il
Borromeo, l’Innominato, lo stesso don Rodrigo. (A. Gramsci, dai Quaderni dal carcere ).
E’
una critica spietata, Gramsci non concede niente, nessun valore al romanzo di
Manzoni.
La
critica di Moravia: è un’opera di propaganda cattolica
10)
Anche Moravia non va troppo per il sottile. Ritiene i Promessi sposi un’opera di propaganda cattolica. La presenza del religioso nel romanzo, come personaggi,
situazioni, linguaggio, è senz’altro ipertrofica
(il 95%, contro un 5% in Stendhal, Tolstoi, Balzac, Flaubert) a dimostrazione dell’intenzione propagandistica.
Il
realismo cattolico in Manzoni sembra
avere gli stessi intendimenti
propagandistici del realismo socialista: vuole dimostrare il trionfo della
propria visione del mondo. La
stessa scelta del Seicento è funzionale a tale operazione: è il secolo della
Controriforma, e cioè del cattolicesimo trionfante;
una vicenda ambientata nel presente non avrebbe funzionato altrettanto bene.
Sempre
Moravia: atteggiamento paternalistico di Manzoni
11)
Resta la simpatia per Renzo e Lucia, per
gli umili che sono puri in quanto fuori
della storia: siccome la storia è corruzione, sono negativi (corrotti) i
personaggi che vivono nella storia, o che comunque appartengono alle classi che
fanno la storia (Gertrude, il conte Zio, ecc.); la vita ideale è quella rustica, semplice, povera, vicina alla
parrocchia e lontana dalla politica.
12)
Ma, al fondo, Manzoni è e resta un aristocratico conservatore, e il suo
atteggiamento nei confronti dei popolani protagonisti della sua opera è un atteggiamento paternalistico, a
differenza di quello di Tolstoi
(anche Moravia, come Gramsci, suggerisce questo confronto), autenticamente popolare e profondamente
evangelico. Come esempio dell’atteggiamento di Manzoni verso gli umili, si
guardi – insiste Moravia – la magra
figura che il sarto fa davanti al Cardinale. Costui, di condizione
sociale modesta, accoglie nella sua casa Lucia, che è stata liberata
dall’Innominato convertito. Il cardinale gli fa visita per ringraziarlo e il
sarto, che si picca di avere una certa cultura, ha preparato un bel discorso da
rivolgere all’illustre ospite, ma poi, “in
presenza del Borromeo, si impappina e non riesce a pronunciare che un insulso ‘si figuri’” (cosa di
cui si rammaricherà per tutta la vita). “In altre parole – scrive Moravia – l’aneddoto sottolinea la soggezione del
sarto di fronte al cardinale, attribuendogli, oltre all’inferiorità sociale,
anche quella morale e intellettuale”. Laddove Boccaccio, con la novella di Cisti fornaio (il quale, in una
situazione analoga, fa vergognare un potente con un bel detto)[1],
aveva dato dimostrazione di un sentimento più profondo ed autentico
dell’uguaglianza umana.
Sempre
Moravia: Manzoni come l’erede di don Rodrigo
13)
Così conclude Moravia:
In realtà
l’ideale del Manzoni ha limiti angusti dettati dal conservatorismo. E’ l’ideale
del buon padrone che guarda con benevolenza, con affetto, con umanità ai
semplici che lavorano per lui, ma non dimentica un sol momento che è il
padrone. L’ideale, per dirla col Manzoni
stesso, del marchese erede di don Rodrigo.
14)
Chiariamo di che si tratta. Dopo la
morte di peste di don Rodrigo, arriva al suo posto un nuovo feudatario. Costui,
a differenza di don Rodrigo, è un uomo buono, in buoni rapporti col cardinale
Borromeo e intende fare del bene a Renzo e Lucia. Poiché questi, in procinto di
trasferirsi nel bergamasco, vogliono vendere ciò che possiedono nel paese (una
vigna e le loro modestissime case), il marchese acquista il tutto pagando un
prezzo molto superiore al valore di quei beni. Quindi invita a pranzo nel suo
palazzo i due sposi, Agnese, la mercantessa (una brava donna che Lucia aveva
conosciuto al lazzaretto) e don Abbondio. Ed ecco la conclusione:
Il marchese fece
loro una gran festa, li condusse in un bel tinello, mise a tavola gli sposi,
con Agnese e con la mercantessa; e prima di ritirarsi a pranzare altrove con
don Abbondio, volle star lì un poco a far compagnia agl’invitati, e aiutò anzi
a servirli. A nessuno verrà, spero, in testa di dire che sarebbe stata cosa più
semplice fare addirittura una tavola sola. Ve l’ho dato per un brav’uomo, ma
non per un originale, come si direbbe ora; v’ho detto ch’era umile, non già che
fosse un portento d’umiltà. N’aveva
quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per
istar loro in pari.
[1] Geri Spina, politico fiorentino,
ospitava gli ambasciatori del papa. Passeggiando con questi per strada, ed
essendo tutti assetati, accetta dell’ottimo e fresco vino bianco che Cisti
offre loro su un tavolo davanti alla sua bottega (e questo si ripete per più
giorni). Quando gli ambasciatori devono partire, Geri organizza un banchetto e
invita anche Cisti, ma questi si rifiuta perché si sente estraneo a quella
compagnia. Geri manda allora un servo con un fiasco per chiedere a Cisti un po’
del suo buon vino. Ma il servo va con una damigianina e non con un fiasco. Alla
sua richiesta, ripetuta più volte, Cisti risponde “Geri non ti manda da me”. “E
da chi?” chiede infine il servo. “Ad Arno”, risponde Cisti. Il servo riferisce
la risposta e Geri capisce, vede la damigianina e gli impone di andare con un
fiasco. Adesso Cisti è soddisfatto e consegna al servo non un fiasco ma una
botticella del suo vino.
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