martedì 28 novembre 2023

I promessi sposi, un romanzo controverso (III parte)

 


La famiglia Manzoni (dall'alto in basso, da sinistra a destra: Giulia Beccaria, Manzoni ed Enrichetta; Giulia, Pietro e Cristina; Sofia, Enrico, Clara e Vittoria.

Il successo di pubblico e la critica nell’Ottocento

1)    Il romanzo ha un grande successo di pubblico, tant’è che in tempi in cui non c’era il diritto d’autore, viene stampata una gran quantità di copie pirata. E comincia anche la vicenda critica che vede una prevalenza del cosiddetto “antimanzonismo, che si appunta sia sulla scelta linguistica sia, soprattutto, sulla ideologia del romanzo, cioè sui valori che esso comunica.

2)    Nell’Ottocento un giudizio di apprezzamento è quello di De Sanctis che vedeva nel romanzo – rispetto ad esempio alle tragedie – “l’ideale” calato nel “reale”, per cui i protagonisti sono uomini veri, non più gli eroi alfieriani – o foscoliani – che si risolvono nel rifiuto della storia e della realtà. Quanto alla religiosità che pervade il romanzo, De Sanctis riconosceva in essa una componente democratica e di impegno civile, che quindi allineava l’ideologia manzoniana alla tradizione dell’illuminismo lombardo.

L’antimanzonismo: Scalvini, Settembrini, Carducci

3)    Ma già nell’Ottocento prevale l’antimanzonismo. Per restare alle posizioni critiche più note, comincerò da Giovita Scalvini che già nel 1830, quindi ben prima dell’edizione definitiva, così si esprimeva:

(nel romanzo si avverte) un non so che di austero, quasi dico di uniforme, di insistenza senza alcuna tregua mai verso un unico obietto: non ti senti spaziare libero entro la gran varietà del mondo morale; t’accorgi spesso di non essere sotto la gran volta del firmamento che copre tutte le multiformi esistenze, bensì d’essere sotto quelle del tempio che copre i fedeli e l’altare.

 

4)    Forti stroncature sono proprie della corrente laica e democratica del Risorgimento, a cui apparteneva Luigi Settembrini, il quale definiva i Promessi sposiil libro della reazione” e aggiungeva: è un libro che loda preti e frati, consiglia pazienza e sommissione”. Altrettanto pensava l’anticlericale ed antiromantico Carducci, che peraltro disprezzava anche la debolezza di una lingua che rinunciava alla energia e alla vitalità della tradizione classica.

La critica nel Novecento: Croce, Momigliano, Russo

5)    Nel Novecento Benedetto Croce dell’opera di Manzoni apprezzava l’Adelchi, ma non i Promessi sposi, in cui vedeva non poesia ma oratoria, non la libera espressione del sentimento ma l’intenzione pedagogica di ammaestrare, di comunicare principi morali, ideali religiosi: finalità, secondo la sua concezione dell’arte, estranee alla natura della poesia.

6)    Momigliano vedeva invece nella religiosità del romanzo un momento non estraneo, ma costitutivo dell’ispirazione poetica; Russo parlava di una epopea della Provvidenza e riconosceva a Manzoni una grande acutezza nella rappresentazione della psicologia dei personaggi.

7)    Peraltro sia Momigliano che Russo sono autori di famosi commenti scolastici del romanzo. Va infatti ricordato che già nell’Italia dopo l’unità e poi per tutto il Novecento fu imposta la lettura obbligatoria nella scuola superiore del romanzo, ritenuto non solo un modello linguistico, ma anche di educazione morale e civile.

La stroncatura di Gramsci: i popolani sono “macchiette”

8)    Ma vediamo ora due celebri esempi novecenteschi di critica durissima del romanzo, quello di Gramsci e quello di Moravia. Ambedue sono accomunati dalla convinzione che l’atteggiamento di Manzoni sia non di vicinanza, ma di distacco aristocratico rispetto ai popolani di cui si narrano le vicende.

9)    Gramsci critica in partenza l’uso dell’espressione “gli umili”:

Questa espressione, ‘gli umili’, è caratteristica per comprendere l’atteggiamento tradizionale degli intellettuali italiani verso il popolo. (…) Nell’intellettuale italiano l’espressione ‘umili’ indica un rapporto di protezione paterna e padreternale, il sentimento ‘sufficiente’ di una propria indiscussa superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta superiore e l’altra inferiore, il rapporto come tra adulto e bambino nella vecchia pedagogia o, peggio ancora, un rapporto da ‘società protettrice degli animali’, o da esercito della salute anglosassone verso i cannibali della Papuasia. (...) Il carattere ‘aristocratico’ del cattolicismo manzoniano appare dal ‘compatimento’ scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoj): come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia, ecc. (...) I popolani, per Manzoni, non hanno ‘vita interiore’, non hanno personalità morale profonda; essi sono ‘animali’, e il Manzoni è ‘benevolo’ verso di loro, proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali. (...) L’atteggiamento del Manzoni verso i suoi popolani è l’atteggiamento della Chiesa cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di medesimezza umana. (...) Tra il Manzoni e gli ‘umili’ c’è distacco sentimentale: gli umili sono per il Manzoni un ‘problema di storiografia’, un problema teorico che egli crede di poter risolvere col ‘romanzo storico’, col ‘verosimile’ del romanzo storico. Perciò gli umili sono spesso presentati come macchiette popolari, con bonarietà ironica, ma ironica. E il Manzoni è troppo cattolico per pensare che la voce del popolo sia la voce di Dio: tra il popolo e Dio c’è la Chiesa e Dio non s’incarna nel popolo ma nella Chiesa. Che Dio si incarni nel popolo può crederlo Tolstoi, non Manzoni. (…) Nei Promessi sposi non c’è popolano che non sia ‘preso in giro’ e canzonato: da don Abbondio a fra Galdino, al sarto, a Gervasio, ad Agnese, a Perpetua, a Renzo, alla stessa Lucia: essi sono rappresentati come gente meschina, angusta, senza vita interiore. Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il Borromeo, l’Innominato, lo stesso don Rodrigo. (A. Gramsci, dai Quaderni dal carcere ).

 

E’ una critica spietata, Gramsci non concede niente, nessun valore al romanzo di Manzoni.

La critica di Moravia: è un’opera di propaganda cattolica

10)                      Anche Moravia non va troppo per il sottile. Ritiene i Promessi sposi un’opera di propaganda cattolica. La presenza del religioso nel romanzo, come personaggi, situazioni, linguaggio, è senz’altro ipertrofica (il 95%, contro un 5% in Stendhal, Tolstoi, Balzac, Flaubert) a dimostrazione dell’intenzione propagandistica. Il realismo cattolico in Manzoni sembra avere gli stessi intendimenti propagandistici del realismo socialista: vuole dimostrare il trionfo della propria visione del mondo. La stessa scelta del Seicento è funzionale a tale operazione: è il secolo della Controriforma, e cioè del cattolicesimo trionfante; una vicenda ambientata nel presente non avrebbe funzionato altrettanto bene.

Sempre Moravia: atteggiamento paternalistico di Manzoni

11)                      Resta la simpatia per Renzo e Lucia, per gli umili che sono puri in quanto fuori della storia: siccome la storia è corruzione, sono negativi (corrotti) i personaggi che vivono nella storia, o che comunque appartengono alle classi che fanno la storia (Gertrude, il conte Zio, ecc.); la vita ideale è quella rustica, semplice, povera, vicina alla parrocchia e lontana dalla politica.

12)                      Ma, al fondo, Manzoni è e resta un aristocratico conservatore, e il suo atteggiamento nei confronti dei popolani protagonisti della sua opera è un atteggiamento paternalistico, a differenza di quello di Tolstoi (anche Moravia, come Gramsci, suggerisce questo confronto), autenticamente popolare e profondamente evangelico. Come esempio dell’atteggiamento di Manzoni verso gli umili, si guardi – insiste Moravia – la magra figura che il sarto fa davanti al Cardinale. Costui, di condizione sociale modesta, accoglie nella sua casa Lucia, che è stata liberata dall’Innominato convertito. Il cardinale gli fa visita per ringraziarlo e il sarto, che si picca di avere una certa cultura, ha preparato un bel discorso da rivolgere all’illustre ospite, ma poi, “in presenza del Borromeo, si impappina e non riesce a pronunciare che un insulso ‘si figuri’” (cosa di cui si rammaricherà per tutta la vita).  In altre parole – scrive Moravia – l’aneddoto sottolinea la soggezione del sarto di fronte al cardinale, attribuendogli, oltre all’inferiorità sociale, anche quella morale e intellettuale”. Laddove Boccaccio, con la novella di Cisti fornaio (il quale, in una situazione analoga, fa vergognare un potente con un bel detto)[1], aveva dato dimostrazione di un sentimento più profondo ed autentico dell’uguaglianza umana.

Sempre Moravia: Manzoni come l’erede di don Rodrigo

13)                      Così conclude Moravia:

In realtà l’ideale del Manzoni ha limiti angusti dettati dal conservatorismo. E’ l’ideale del buon padrone che guarda con benevolenza, con affetto, con umanità ai semplici che lavorano per lui, ma non dimentica un sol momento che è il padrone. L’ideale, per dirla col Manzoni stesso, del marchese erede di don Rodrigo.

 

14)                      Chiariamo di che si tratta. Dopo la morte di peste di don Rodrigo, arriva al suo posto un nuovo feudatario. Costui, a differenza di don Rodrigo, è un uomo buono, in buoni rapporti col cardinale Borromeo e intende fare del bene a Renzo e Lucia. Poiché questi, in procinto di trasferirsi nel bergamasco, vogliono vendere ciò che possiedono nel paese (una vigna e le loro modestissime case), il marchese acquista il tutto pagando un prezzo molto superiore al valore di quei beni. Quindi invita a pranzo nel suo palazzo i due sposi, Agnese, la mercantessa (una brava donna che Lucia aveva conosciuto al lazzaretto) e don Abbondio. Ed ecco la conclusione:

Il marchese fece loro una gran festa, li condusse in un bel tinello, mise a tavola gli sposi, con Agnese e con la mercantessa; e prima di ritirarsi a pranzare altrove con don Abbondio, volle star lì un poco a far compagnia agl’invitati, e aiutò anzi a servirli. A nessuno verrà, spero, in testa di dire che sarebbe stata cosa più semplice fare addirittura una tavola sola. Ve l’ho dato per un brav’uomo, ma non per un originale, come si direbbe ora; v’ho detto ch’era umile, non già che fosse un portento d’umiltà. N’aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari.



[1] Geri Spina, politico fiorentino, ospitava gli ambasciatori del papa. Passeggiando con questi per strada, ed essendo tutti assetati, accetta dell’ottimo e fresco vino bianco che Cisti offre loro su un tavolo davanti alla sua bottega (e questo si ripete per più giorni). Quando gli ambasciatori devono partire, Geri organizza un banchetto e invita anche Cisti, ma questi si rifiuta perché si sente estraneo a quella compagnia. Geri manda allora un servo con un fiasco per chiedere a Cisti un po’ del suo buon vino. Ma il servo va con una damigianina e non con un fiasco. Alla sua richiesta, ripetuta più volte, Cisti risponde “Geri non ti manda da me”. “E da chi?” chiede infine il servo. “Ad Arno”, risponde Cisti. Il servo riferisce la risposta e Geri capisce, vede la damigianina e gli impone di andare con un fiasco. Adesso Cisti è soddisfatto e consegna al servo non un fiasco ma una botticella del suo vino.

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