Aspetti
controversi della Divina Commedia
L’incipit
della Commedia: lo smarrimento nella “selva oscura”
1)
Tutti conosciamo l’incipit della Commedia, conosciamo la prima terzina. Ma
forse non ci chiediamo perché “la diritta
via era smarrita”, di quali peccati si sentiva colpevole Dante, peccati per
i quali dice di trovarsi in “una selva
oscura”, “una selva selvaggia e aspra
e forte” che al solo pensarci “rinova
la paura”.
Lo
smarrimento come traviamento spirituale (la “donna gentile”)
2)
Non c’è dubbio che qui ci sia un riferimento autobiografico al
traviamento spirituale seguito alla morte di Beatrice. Secondo una
interpretazione, il traviamento di Dante sarebbe riconducibile alla sua passione per la filosofia, identificata
allegoricamente con la cosiddetta “donna gentile”. Chi è questa “donna gentile”? E’ colei di cui
nella Vita nova Dante dice che era “giovane e bella molto”, aveva avuto compassione per la sua
sofferenza e lo aveva consolato con
il suo amore dopo la morte di Beatrice. Dunque si tratterebbe, da parte
di Dante, di un vero e proprio innamoramento
che poi viene in qualche modo nobilitato
con l’identificazione donna gentile-filosofia.
3)
Qui
si rende necessario un inciso. Sono diverse le donne
che compaiono nell’opera letteraria di Dante, oltre alla “donna gentile”, le due donne
“dello schermo” nella Vita nova, e altre donne cui si fa
riferimento nelle Rime (una “donna petra” e una
“pargoletta”). Sono donne reali, come reale è Beatrice, donne realmente amate da Dante, il
quale poi nella rielaborazione dei
ricordi ha attribuito loro dei significati allegorici. Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante dice
che il suo amore per Beatrice fu “onestissimo”
“né mai apparve alcun libidinoso appetito”.
Tuttavia, parlando del carattere di Dante, aggiunge, scusandosi di macchiare
la sua fama citando una suo difetto:
Tra cotanta virtù, cotanta scienzia, quanto dimostrato è (di sopra) essere stata in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la lussuria, e non solamente ne’ giovani anni, ma ancora ne’ maturi.
4)
Dunque è da credere che la vicenda che
ha per protagonista la “donna gentile”, sia una vicenda autobiografica per Dante. E la stessa “donna gentile” è poi ricordata nel Convivio,
dove è esplicitamente identificata con la filosofia, cioè con la scienza
umana, mentre Beatrice era identificabile con la teologia, ovvero la
scienza divina. Quindi l’amore
per la “donna gentile”, cosiccome la passione per la filosofia, appaiono come
un tradimento di Beatrice, un tradimento che nasce – è da credere – sul piano dell’amore per la persona,
ma che poi viene trasferito sul piano
dei significati allegorici. E infatti già nella Vita nova (XXXIX) Dante ha una visione di Beatrice e tanto gli
basta per rimproverare a se stesso il “malvagio desiderio” che occupa la
sua mente per la “donna gentile”.
Il
rimprovero di Beatrice nell’Eden e il senso del viaggio
5)
E di tale “malvagio desiderio” Beatrice in persona lo rimprovererà duramente
nel loro incontro nel Paradiso terrestre, in cima alla montagna del Purgatorio.
Gli dice esplicitamente: tu mi hai
tradito, ti sei concesso “altrui”,
hai mosso i tuoi passi “per via non vera
/ immagini di ben seguendo false” (Pg. XXX, 121-145). E Dante
piangendo ammette la sua colpa.
6)
Dunque, se si accetta questa
interpretazione, il viaggio oltremondano di Dante non sarebbe altro che un ritorno a Beatrice, ovvero un
riconoscimento dei limiti della
filosofia separata dalla fede, un riconoscimento che oltre le capacità di conoscenza della
ragione umana c’è una verità rivelata, una verità di fede, altrimenti – come dice Virgilio in un passo
del Purgatorio – “mestier non era parturir Maria”, cioè non sarebbe stato
necessario che Cristo nascesse, non ci sarebbe stato bisogno che la verità
fosse rivelata.
Il
senso del rimprovero di Beatrice
7)
Ed è
questo che Beatrice sembra rimproverare a Dante quando scende dal cielo e
lo incontra in cima alla montagna del Purgatorio; Dante le chiede (Pg. XXXIII,
82-90):
Ma
perché tanto sovra mia veduta
vostra
parola disïata vola,
che più la perde quanto più s’aiuta?".
E
cioè, perché le tue parole sono così difficilmente comprensibili per me, per
quanto mi sforzi di capire? E Beatrice risponde:
"Perché
conoschi", disse, "quella scuola
(la filosofia)
c’ hai seguitata, e veggi sua
dottrina
come può seguitar la mia parola;
e
veggi vostra via da la divina
distar cotanto,
quanto si discorda
da terra il ciel che più alto festina" (il primo mobile)
Dunque
Beatrice lo accusa esplicitamente di avere confidato esclusivamente nella
scienza umana e quindi, secondo questa interpretazione, sarebbe per questo peccato puramente intellettuale
che Dante si è smarrito nella “selva
oscura”.
Lo
smarrimento come traviamento morale (Forese Donati)
9)
Ma esiste anche un’altra
interpretazione, per me più convincente, che associa lo smarrimento nella “selva
oscura” non tanto (o non solo) a un
traviamento intellettuale quanto (e soprattutto) a un traviamento morale.
Un traviamento probabilmente riconducibile a quel periodo di vita dissoluta, peccaminosa, coincidente con il periodo
di amicizia con Forese Donati.
10)
Chi era Forese Donati? Può sembrare
strana questa amicizia, visto che Forese era un Donati, ovvero apparteneva alla
famiglia più importante della fazione
dei guelfi Neri, mentre Dante
era vicino alla fazione dei guelfi Bianchi; e il fratello di Forese,
Corso Donati era nientemeno
che il capo indiscusso di detta fazione e pertanto detestato da Dante in quanto
fra gli autori del colpo di Stato
con cui nel 1301 i Neri si erano impadroniti del potere a Firenze e avevano
scatenato le persecuzioni contro i
Bianchi, persecuzioni di cui anche
Dante fu vittima con la condanna, prima all’esilio e successivamente al rogo.
Corso
e Piccarda
11)
Ma sarà lo stesso Forese, incontrato da Dante in Purgatorio, a profetizzare per Corso – che nel 1300, anno del viaggio
ultraterreno di Dante, era ancora vivo –
la dannazione all’inferno, dove sarebbe stato trascinato alla coda di un
cavallo. Forese aveva anche una sorella, Piccarda Donati, che Dante incontrerà in Paradiso, nel cielo
della Luna, dove si trovano le anime di coloro che, pur contro la loro volontà,
vennero meno ai voti. Piccarda infatti era monaca di Santa Chiara, ma il
fratello Corso con un gruppo di facinorosi l’aveva rapita dal convento e
costretta a un matrimonio di interesse politico con un certo Rossellino della
Tosa.
L’amicizia
con Forese: la “tenzone”
12)
Ma l’amicizia fra Dante e Forese può
sembrare strana anche per un’altra ragione, una ragione di cui abbiamo testimonianza
letteraria nella cosiddetta “tenzone
con Forese”, ovvero in quello scambio di sonetti in cui i due si
rinfacciano accuse e si lanciano invettive con un linguaggio decisamente plebeo (per la precisione Forese accusa Dante
di praticare l’usura e Dante di ricambio lo accusa di non soddisfare
sessualmente la propria moglie). Ma che amicizia era – ci si potrebbe
chiedere – se si scambiavano accuse ed invettive reciproche? In realtà si
trattava di una sorta di sperimentazione
linguistica, per cui poeti, come Dante ma come anche Cavalcanti, capaci di trattare argomenti di
alto livello con lo stile sublime,
si cimentavano anche su questioni realistiche della quotidianità, usando un
registro linguistico di basso livello, il cosiddetto stile comico-burlesco o comico-realistico.
13)
Di fatto della sincera amicizia fra
Dante e Forese abbiamo testimonianza
diretta da parte dello stesso Dante nella Commedia, e precisamente nell’episodio dell’incontro cordiale e molto affettuoso fra i due che
si svolge in Purgatorio, nella cornice
dei golosi (XXIII) dove è collocato Forese (e dove Dante sembra fare
ammenda di ciò che aveva scritto nella “tenzone”, mettendo in bocca a
Forese parole di grande elogio nei confronti della propria moglie Nella, lei sola onesta e fedele
in mezzo alle donne scostumate di Firenze) .
Non
peccati “intellettuali”, ma peccati “materiali”
14)
Allora torniamo allo smarrimento di
Dante nella selva oscura da cui siamo partiti. Che tale smarrimento coincida con la vita peccaminosa condotta in anni
giovanili in compagnia dell’amico – e qui si tratterebbe non certo di peccati intellettuali, ma
di peccati di incontinenza, peccati della carne, quali ad esempio la gola e la lussuria – sembra
dimostrato dalle parole che Dante rivolge allo stesso Forese in occasione
appunto dell’incontro in Purgatorio. Forese vuole sapere come mai Dante possa
trovarsi lì pur essendo vivo. E Dante gli risponde così (Pg. XXIII, 115-121) :
Per ch’io a lui:
"Se tu riduci a mente
qual fosti meco, e qual io teco fui,
ancor fia grave il memorar presente.
Di quella vita mi volse costui
che mi va innanzi, l’altr’ier, quando tonda
vi si mostrò la
suora di colui",
e ’l sol mostrai;
“Di quella vita mi volse costui / che mi va
innanzi” sembra decisamente avallare questa interpretazione, perché è stato proprio Virgilio a condurre Dante
fuori dalla selva oscura, che dunque qui è identificata con “quella vita” condotta insieme a Forese.
15)
Ma forse
ha ragione chi associa i due aspetti, per cui con lo smarrimento nella
selva oscura Dante avrebbe voluto indicare il proprio traviamento dopo la morte
di Beatrice, sia dal punto di vista
intellettuale che da quello morale, probabilmente intendendo l’uno come
conseguenza dell’altro.
Il
pensiero politico di Dante
16)
Vorrei fare ora qualche considerazione su
un’altra questione controversa,
ovvero quella che riguarda il pensiero politico di Dante, questione di una
certa attualità, a seguito di una recente dichiarazione dell’ex ministro
della cultura Sangiuliano,
secondo cui Dante sarebbe stato il
fondatore del pensiero politico della destra.
17)
La prima cosa da dire è che le moderne categorie di destra e sinistra
sono del tutto estranee nel contesto della cultura medievale, sono categorie
ottocentesche e novecentesche, e volerle
riconoscere nel pensiero politico del tempo di Dante è senz’altro una forzatura.
Il pensiero politico di quel tempo ha come riferimento imprescindibile il
rapporto di potere fra le due
istituzioni universali, ovvero l’Impero e la Chiesa. E su questo
rapporto Dante ha una precisa posizione.
I
due poteri. Modernità di Marsilio
18)
Il pensiero prevalente – soprattutto in ambiente guelfo, cui lo stesso Dante
apparteneva – era quello che sosteneva
la superiorità del potere del Papa, dal quale derivava il potere
dell’Imperatore. Il rapporto fra i due poteri veniva esemplificato con l’immagine
dei due lumi del cielo, il sole,
che brilla di luce propria, e la luna,
che brilla di luce riflessa. Ma esisteva anche il pensiero opposto,
rappresentato soprattutto da Marsilio
da Padova, secondo cui il potere
supremo apparteneva all’Imperatore e ad esso dovevano sottomettersi
tutti i cittadini, compresi gli ecclesiastici (così nel Defensor
pacis, 1324).
19)
Piccolo inciso a questo proposito. E’
veramente moderno per il suo carattere
laico il pensiero di Marsilio, il quale attacca decisamente sia la pretesa di “universalità” dell’Impero
sia, soprattutto, quella di giurisdizione
separata avanzata dalla Chiesa, arrivando a sostenere l’origine naturale, umana e non divina,
della società e dello Stato: l’unica fonte della legge è il popolo (la cui volontà è rivelatrice di
quella divina), e solo da questo deriva
il potere dello Stato, che deve pertanto potersi esercitare su tutti i
cittadini, compresi gli ecclesiastici.
I
due poteri per Dante, ovvero i “due soli”
20)
Dante espone il suo pensiero politico in
maniera organica nel De monàrchia, ma è un pensiero che
si manifesta più volte, e non marginalmente, nella Commedia. Per Dante i due
poteri sono autonomi – quello temporale
dell’Imperatore e quello spirituale
del Papa – in quanto entrambi
derivano direttamente da Dio ed hanno come fine
– essendo l'uomo una creatura composta da una parte corruttibile, il
corpo, e da una incorruttibile, l'anima – rispettivamente
la felicità terrena (da conseguirsi sotto la guida dell'Imperatore e usando gli
insegnamenti della ragione) e la beatitudine eterna (da conseguirsi sotto la
guida del Papa e usando gli insegnamenti della fede). Sono due poteri autonomi ma complementari in quanto il fine della beatitudine eterna,
per la quale opera il potere spirituale del Papa, presuppone
la pace e la concordia dell’umanità, garantita dal potere temporale
dell’Imperatore. A sua volta l’Imperatore
deve al Papa una filiale reverenza, poiché il fine della Chiesa è più alto di quello dell’Impero.
21)
L’immagine che rappresenta i due poteri
così intesi non è più quella del sole e della luna,[1]
ma quella dei due soli,
secondo l’espressione usata da Marco
Lombardo (uomo di corte del XIII secolo, su cui si hanno poche notizie) nel canto XVI del Purgatorio (106-129).
Dante chiede a Marco quale sia la causa della corruzione del mondo (e in
particolare del disastro politico e morale dell’Italia) e costui, dopo aver
negato che sia colpa della influenza negativa degli astri o della debolezza
della natura umana, spiega che la responsabilità è dei due poteri che vengono
meno al loro compito, ma in particolare
la colpa è del Papa che pretende di assumere il potere temporale
dell’Imperatore; quindi aggiunge:
Soleva
Roma, che ’l buon mondo feo,
due soli aver, che l’una
e l’altra strada
facean
vedere, e del mondo e di Deo.
L’un
l’altro ha spento; ed è giunta la spada
col pasturale, e l’un con l’altro insieme
per viva forza mal convien che vada; (dopo la morte di Federico II, Bonifacio VIII si era proclamato vicario imperiale e con la bolla Unam sanctam del 1302 aveva affermato la legittimità di congiungere i due poteri)
però
che, giunti, l’un l’altro non teme: (l’uno
non è frenato dal potere dell’altro)
(se
non mi credi, pon mente a la spiga,
ch’ogn’erba
si conosce per lo seme.)
…..
Di’
oggimai che la Chiesa di Roma,
per
confondere in sé due reggimenti,
cade
nel fango, e sé brutta e la soma. (sporca sé stessa e il carico, l’ufficio, che
si è addossato)
Il disastro politico e morale dell’Italia
22)
Quanto al disastro politico e morale
dell’Italia, la risposta la dà Dante stesso nel canto VI del Purgatorio quando,
avendo assistito all’abbraccio affettuoso,
nell’aldilà, fra le anime di due concittadini, Sordello e Virgilio, pensa
alla situazione nell’Italia a lui contemporanea, dove “non stanno senza guerra / li vivi
tuoi, e l’un l’altro si rode / di quei ch’un muro ed una fossa serra”,
e cioè si combattono fra di loro non solo gli italiani dei diversi territori,
ma gli abitanti di una stessa città; quindi esclama:
Ahi
serva Italia, di dolore ostello,
nave
sanza nocchiere in gran tempesta,
non
donna di provincie, ma bordello!
Quell’anima
gentil fu così presta,
sol
per lo dolce suon de la sua terra,
di
fare al cittadin suo quivi festa;
e
ora in te non stanno sanza guerra
li
vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di
quei ch’un muro e una fossa serra.
Cerca,
misera, intorno da le prode
le
tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna
parte in te di pace gode.
Che
val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è
vòta? (riordinò tutte le leggi romane nel
Corpus iuris civilis)
Sanz’esso
fora la vergogna meno.
Ahi
gente che dovresti esser devota,
e
lasciar seder Cesare in la sella,
se
bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda
come esta fiera è fatta fella
per
non esser corretta da li sproni,
poi
che ponesti mano a la predella. (la parte della briglia attaccata al morso)
O
Alberto tedesco ch’abbandoni (d’Austria, eletto imperatore nel 1298, non
venne mai in Italia)
costei
ch’è fatta indomita e selvaggia,
e
dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio
da le stelle caggia
sovra ’l tuo
sangue, e sia novo e aperto, (lo stesso
Alberto fu ucciso e suo figlio Rodolfo morì prematuramente)
tal
che ’l tuo successor temenza
n’aggia! (riferimento ad Enrico VII di
Lussemburgo, che 1310 scese in Italia, ma morì qualche anno dopo)
Ch’avete
tu e ’l tuo padre sofferto, (Rodolfo d’Asburgo)
per
cupidigia di costà distretti, (dei possedimenti in Germania)
che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.
23)
Qui l’accusa è agli uomini di Chiesa –
non è nominato specificamente il Papa – ma l’accusa
più dura e nominativa è all’Imperatore che viene meno al suo dovere di
far valere ovunque quel potere temporale che gli è stato affidato direttamente
da Dio.
La
donazione di Costantino. Contro Bonifacio VIII
24)
Il potere temporale esercitato
abusivamente dal Papa mette in campo la famosa questione della donazione di Costantino. Era questo l’atto,
ritenuto autentico, con cui l’imperatore Costantino, al momento di
trasferire la sua sede a Bisanzio,
avrebbe donato al papa Silvestro I,
in segno di gratitudine per averlo guarito dalla lebbra, la giurisdizione su Roma.
Quell’atto era un falso, come dimostrò Lorenzo
Valla nel 1400 con una accurata analisi filologica. Ma nell’età di
Dante non se ne metteva in dubbio l’autenticità. E Dante più volte indica in quell’atto l’inizio della degenerazione della
Chiesa.
25)
Nella bolgia dei simoniaci (sono coloro che hanno approfittato della
propria carica religiosa per trarre guadagno economico), Dante si avvicina alla
buca dove è infilato a testa in giù il papa Nicolò III.[2]
Nella buca, sotto Nicolò, ci stanno altri papi e costui, al sentire la voce di
Dante, crede che sia arrivato papa
Bonifacio VIII a farlo cadere di sotto e sostituirlo nella buca. In
realtà Bonifacio VIII era ancora vivo e Dante
autore, con questa trovata, ne approfitta per profetizzare la
dannazione per quel papa. E Dante
personaggio, chiarito l’equivoco, rivolto a Nicolò III si lancia in
una dura requisitoria contro il peccato di simonia, quindi conclude (Inf.
XIX, 112-117):
Fatto
v’avete dio d’oro e d’argento;
e
che altro è da voi a l’idolatre,
se non ch’elli
uno, e voi ne orate cento? (voi adorate
ogni oggetto prezioso, mentre l’idolatra uno solo – con allusione forse al vitello d’oro, adorato
dagli ebrei durante l’esodo)
non la tua
conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!".
La donazione di Costantino. La visione nel Paradiso terrestre
26)
Ma ancora la donazione di Costantino
come origine della corruzione della Chiesa è rappresentata nella visione cui Dante, in presenza di Beatrice,
assiste nel Paradiso terrestre. C’è un carro
che rappresenta la Chiesa e c’è un’aquila,
che rappresenta l’Impero, che dapprima colpisce violentemente il carro
(e questo indica le persecuzioni che la Chiesa dovette subire nei primi tempi
da parte dell’Impero), ma successivamente l’aquila ritorna (Pg. XXXII, 124-129):
Poscia
per indi ond’era pria venuta,
l’aguglia
vidi scender giù ne l’arca
del
carro e lasciar lei di sé pennuta;
e
qual esce di cuor che si rammarca,
tal
voce uscì del cielo e cotal disse:
"O navicella mia, com’ mal se’ carca!".
27)
Quelle penne lasciate dall’aquila
rappresentano appunto la donazione di Costantino, per cui la voce di Dio che
proviene dal cielo se ne lamenta. E infatti, nella
visione che continua, quelle penne determinano una trasformazione mostruosa del
carro-Chiesa, finchè compare all’interno del carro quella che Dante chiama “una
puttana sciolta”, cioè sfrontata,
senza ritegno (rappresenta la curia
romana corrotta), quindi accanto a lei compare un gigante (da identificare con il re di Francia, Filippo il Bello) con il quale “basciavansi
insieme alcuna volta”; infine il gigante porta via con sé il carro e la
“puttana” (e questo certamente allude
al trasferimento della sede papale ad
Avignone, ottenuto da Filippo il Bello nel 1305, essendo papa Clemente V).
Le
due profezie: quella del veltro
28)
In tutto ciò non mi pare che ci siano
elementi per vedere in Dante il fondatore del pensiero di destra. Ma c’è un
particolare, di cui mi parlava il mio professore di liceo, un
particolare che riguarda l’interpretazione di due enigmatiche profezie che si trovano una nel primo canto
dell’Inferno e una nell’ultimo canto del Purgatorio.
29)
Partiamo dalla prima. Dante vorrebbe
uscire dalla “selva oscura” e salire verso il colle illuminato dal sole, ma
ci sono tre fiere – una lonza[3],
un leone e una lupa, simbolo di tre peccati, rispettivamente la lussuria, la superbia e la cupidigia
– che gli ostacolano il cammino; soprattutto la lupa lo respinge verso il
basso, ma compare Virgilio che non solo gli dice che lui per salvarsi dovrà “tenere
altro viaggio”, e cioè un viaggio ultraterreno, ma a proposito della
lupa dice queste parole (Inf. I, 100-111):
Molti
son li animali a cui s’ammoglia, (la
cupidigia comporta altri peccati)
e
più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà,
che la farà morir con doglia.
Questi
non ciberà terra né peltro, (una lega di metalli che sta per “moneta”)
ma
sapïenza, amore e virtute, (attributi della Trinità, del Figlio, dello
Spirito Santo, del Padre)
e
sua nazion sarà tra feltro e feltro.
(panno umile o indicazione geografica?
Dunque un uomo di Chiesa o un eletto perché col feltro si foderavano le urne,
oppure il veronese Cangrande?)
Di
quella umile Italia fia salute
per
cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo
e Turno e Niso di ferute.
Questi
la caccerà per ogne villa,
fin
che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
là onde ’nvidia prima dipartilla. (il diavolo, come Dio è il “primo amore”)
Il
veltro è un cane da caccia e dunque come tale letteralmente caccia la lupa.
Ma sul suo significato allegorico, e quindi
sul personaggio cui la profezia si riferirebbe, si sono date e
argomentate le più svariate interpretazioni: un Pontefice, un Imperatore, Dante stesso[4], un
signore italiano come Cangrande della Scala (cui Dante nel Paradiso
profetizza grandi imprese), ecc.
Le
due profezie: quella del “cinquecento diece e cinque”
30)
Ma
ecco la seconda profezia, che si tende a mettere in relazione con la prima.
Siamo nell’ultimo canto del Purgatorio e Beatrice spiega a Dante il senso della
visione cui ha appena assistito, la visione
del carro trasformato in mostro e poi portato via dal gigante con il carico che
sappiamo. Quindi dice (Pg. XXXIII, 37-45):
Non
sarà tutto tempo sanza reda
l’aguglia
che lasciò le penne al carro,
per
che divenne mostro e poscia preda;
ch’io
veggio certamente, e però il narro,
a
darne tempo già stelle propinque,
secure
d’ogn’intoppo e d’ogne sbarro,
nel
quale un cinquecento diece e cinque,
messo
di Dio, anciderà la fuia (propriamente ladra, da intendersi la
“puttana sciolta”)
con quel gigante che con lei delinque.
31)
Qui il messo di Dio è indicato con un
numero, il 515, e anche in questo caso le ipotesi di identificazione
sono state tante. Però qui, a differenza della profezia del veltro, considerando
gli anni presumibili di stesura del canto, e visto che si parla di un
erede dell’aquila, si può pensare
all’imperatore Enrico VII di Lussemburgo, che nel 1310 era sceso in Italia
suscitando in Dante grandi speranze di restaurazione dell’unico legittimo
potere temporale, speranze che però andarono deluse perché Enrico morì due
anni dopo. Con tutto ciò, l’indicazione
numerica resta misteriosa. Leggendo il numero con le lettere latine sia
ha D X V, e in questo si è voluto
vedere un acronimo
interpretabile in diversi modi (Domini Xristi Vertagus, Domini Xristi
Vicarius, Dante Xristi Vertagus).
L’interpretazione
in età fascista
32)
Ma ecco il particolare di cui parlava a
noi studenti il mio vecchio professore di liceo. Diceva che in epoca fascista
circolava un’interpretazione secondo cui il veltro profetizzato da Dante era Mussolini stesso, il Duce.
Nel numero cinquecento diece e cinque bastava spostare il cinque prima del dieci ed ecco che l’acronimo diventava D V X, cioè duce. Quanto al veltro, si dice che “sua
nazion sarà tra feltro e feltro”, cioè tra Feltre, in Veneto, e il Montefeltro, nella Marca alta, dunque in
Romagna, che è appunto il luogo di nascita di Mussolini. Del resto si dice
anche che tale personaggio “dell’umile Italia fia salute”,
cioè sarà di salvezza, sarà il salvatore
dell’Italia, e questo, secondo tale interpretazione, si attagliava perfettamente al duce del fascismo.
33)
Naturalmente si tratta di una interpretazione risibile e
certo non è credibile che l’ex ministro Sangiuliano ritenga Dante il fondatore
del pensiero di destra in quanto autore di una profezia che avrebbe varcato
i secoli per realizzarsi nel modo suddetto. Sono invece credibili altre
motivazioni che possono indurre ad associare alla destra il pensiero di Dante.
Il
pensiero di Dante, interno al Medioevo, appare reazionario
34)
Ad esempio il fatto che Dante appaia come un conservatore, un
reazionario, in quanto ragiona sulla base di schemi che già ai suoi tempi sono superati, o in via di superamento.
Di fronte alla realtà, che si va storicamente affermando, degli Stati nazionali (di cui esempio
vistoso era la Francia,
governata da un monarca forte e autorevole, come Filippo il Bello), Dante non ne capisce la portata
rivoluzionaria (anzi, vede in essi un segno della degenerazione maligna) e
reagisce con la grande nostalgia-utopia dei due poteri universali
e provenienti da Dio – Impero e
Papato – che, in armonia, garantiscono il bene dell’uomo
rispettivamente nella città terrena e nella città celeste. Tuttavia non si
può non notare che in quel pensiero c’è anche un aspetto di grande modernità, in quanto viene teorizzata l’autonomia del potere
politico da quello religioso.
L’amore per l’Italia non è nazionalismo
35)
Altro motivo che potrebbe indurre ad
associare il pensiero di Dante al moderno pensiero di destra, sarebbe, secondo alcuni, l’amor di patria
che Dante manifesta non solo per la sua Firenze, ma per l’Italia intera, il
“bel paese là ove il sì suona” (Inf.
XXXIII, 80). Certamente Dante riconosce la specificità della nazione italiana,
che a lui è cara, tant’è che con il De vulgari eloquentia ricerca una lingua
unitaria per l’intero paese e nel già citato canto VI del Purgatorio si lamenta delle
tante contrapposizioni e rivalità che la tormentano.
36)
Ma Dante
non pensa assolutamente a uno Stato nazionale, politicamente autonomo, e magari
contrapposto ad altri Stati secondo la logica del nazionalismo. Al
contrario, Dante deplora questa possibilità, giacché ogni potere locale si deve sottomettere ad un potere superiore, l’unico
legittimato da Dio, quello dell’Imperatore. Se volessimo forzare questa interpretazione,
potremmo dire che la logica
nazionalistica deplorata da Dante è quella della destra, mentre il potere superiore dell’Imperatore
potrebbe essere assimilato a quello attuale dell’Europa nei confronti degli
Stati nazionali.
Il rimpianto del passato: contro la “gente
nova” e i “sùbiti guadagni”
37)
Ma anche sul piano dei comportamenti
degli uomini, sul piano dei valori Dante rimpiange i tempi passati. Il disordine morale, che discende dal
disordine politico, si manifesta nella società a lui contemporanea nel trionfo della logica del profitto.
La sobrietà, la pudicizia, la
morigeratezza dei costumi sono sostituiti dalla cupidigia del denaro
e nelle città ha preso il sopravvento una “gente nova” che mira solo ai “sùbiti
guadagni” da conseguirsi con l’attività
mercantile e bancaria. E’ nel canto XVI dell’Inferno che Dante usa
queste parole riferendosi alla Firenze dei suoi tempi. Siamo nel girone dei violenti
contro natura (i sodomiti), Dante incontra tre fiorentini della generazione
a lui precedente e uno di questi (Jacopo
Rusticucci) gli chiede (vv. 67-69):
cortesia e valor di’ se dimora
ne
la nostra città sì come suole,
o se del tutto se n’è gita fora
Cioè,
dicci se in Firenze vigono ancora o se sono scomparsi del tutto i valori della
società cavalleresca (quei valori di cui nel Convivio, II, X, 8 si dice: “cortesia
e onestade è tutt’uno; e però che nelle corti anticamente le vertudi e li belli
costumi s’usavano, sì come oggi s’usa lo contrario”). E Dante risponde (vv.
73-75):
La
gente nova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni
Gente
proveniente dalla campagna, nuovi ceti sociali, e i guadagni rapidi (col
commercio, con l’usura), hanno prodotto alterigia,
arroganza e perdita del senso della misura, sfrenatezza, intemperanza.
Il
rimpianto del passato: contro il “maladetto
fiore”
38)
E ancora nel cielo di Venere, dove compaiono a Dante gli spiriti amanti, è Folchetto
di Marsiglia (un trovatore provenzale, che poi si fece monaco e divenne
vescovo di Tolosa) che si scaglia contro Firenze, che “produce e spande” nel
mondo la sua moneta, il fiorino, “il maladetto fiore” (Pd. IX,
127-132):
La
tua città, che di colui è pianta (è il prodotto)
che
pria volse le spalle al suo fattore (Lucifero)
e
di cui è la ’nvidia tanto pianta, (la cui invidia per Adamo ed Eva è causa di
tanti pianti)
produce e spande
il maladetto fiore
c’ha
disvïate le pecore e li agni,
però che fatto ha lupo del pastore.
39)
Dante insomma, anche per questo aspetto,
non riconosce la portata rivoluzionaria
delle nuove attività esercitate da nuovi ceti sociali, non vede che c’è un
mondo in esaurimento, quello della nobiltà feudale, e un mondo nuovo, più
vitale, quello della borghesia in ascesa.
Il
rimpianto di Cacciaguida per Firenze “sobria e pudica”
40)
Il rimpianto per i costumi sobri e
pudìchi delle generazioni precedenti è argomento sviluppato in ben due canti,
XV e XVI, del Paradiso, in occasione dell’incontro con l’avo Cacciaguida, il quale parla così
della Firenze dei suoi tempi; leggo il passo (Pd. XV, 97-129):
Fiorenza
dentro da la cerchia antica,
ond’
ella toglie ancora e terza e nona, (lì
c’era una chiesa che suonava le ore alle 9 e alle 15)
si
stava in pace, sobria e pudica.
Non
avea catenella, non corona,
non
gonne contigiate, non cintura (ricamate, ricche di ornamenti)
che
fosse a veder più che la persona.
Non
faceva, nascendo, ancor paura
la
figlia al padre, ché ’l tempo e la dote
non fuggien
quinci e quindi la misura. (il tempo e
la dote erano fuori di misura, il tempo troppo presto e la dote eccessiva)
Non
avea case di famiglia vòte; (perché troppo grandi? A causa degli esilii?)
non
v’era giunto ancor Sardanapalo (re degli Assiri, simbolo di lussuria)
a mostrar ciò
che ’n camera si puote. (si allude a
pratiche anticoncezionali)
(…………)
Bellincion
Berti vid’ io andar cinto
di cuoio e
d’osso,
e venir da lo specchio (la cintura e la
fibbia)
la
donna sua sanza ’l viso dipinto;
e
vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio
esser
contenti a la pelle scoperta, (senza mantelli sopra o fodere di pelliccia)
e
le sue donne al fuso e al pennecchio.
(lo strumento per filare e la quantità di
lana)
Oh
fortunate! ciascuna era certa (non c’erano esilii, le mogli erano certe di
morire in patria)
de la sua
sepultura,
e ancor nulla
era per Francia
nel letto diserta.
(non c’erano mariti mercanti che andavano
in Francia)
L’una
vegghiava a studio de la culla,
e,
consolando, usava l’idïoma
che
prima i padri e le madri trastulla;
l’altra,
traendo a la rocca la chioma, (torcendo col fuso la lana)
favoleggiava
con la sua famiglia
d’i
Troiani, di Fiesole e di Roma.
Saria
tenuta allor tal maraviglia
una
Cianghella, un Lapo Salterello, (donna
scostumata e politico corrotto)
qual or saria Cincinnato e Corniglia.
Laudatio temporis acti: un luogo comune, né di destra né di sinistra
41)
Potremmo dire che questo rimpianto di Dante per i buoni costumi del passato può
essere visto come la riproposizione di un luogo comune che ricorre più volte nella storia della
letteratura e del pensiero: la cosiddetta laudatio temporis acti,
ovvero la lode del tempo passato. Penso ad esempio ad autori della
letteratura latina, quali Sallustio
o Giovenale, che denunciano
la degenerazione dei costumi e della politica della società a loro
contemporanea a confronto con la vita sobria e austera delle generazioni
precedenti.
42)
Certo, nel caso di Dante il rimpianto discende da una visione
della totalità del mondo e della storia, una visione fondata su una concezione religiosa che permea di sé e spiega perfettamente
ogni aspetto del reale; ma questo non fa certo di Dante il fondatore del
pensiero di destra. Allo stesso modo, altrettanto sbagliato, sarebbe il
considerarlo un anticipatore del
pensiero di sinistra, nel senso di anti-capitalista, per via della sua aspra critica al “maladetto
fiore” e ai “sùbiti guadagni”, ovvero alla logica del profitto.
Un
universo pre-rinascimentale: la natura della fortuna
43)
La verità è che il pensiero di Dante,
ripeto, è tutto interno alla cultura e alla mentalità medievale, Siamo
insomma con Dante in un universo
pre-rinascimentale e pre-galileiano. Per far capire questo ai miei
studenti, mostravo ad esempio come Virgilio
nel canto VII dell’Inferno (girone degli avari e prodighi) spiega a Dante la natura della fortuna: la fortuna è
un’intelligenza angelica che governa “li
splendor mondani”, cioè i beni del mondo, e fa sì che essi mutino, al
momento opportuno, “di gente in gente e
d’uno in altro sangue / oltre la difension d’i senni umani”, cioè da un
popolo all’altro, da una famiglia all’altra, al di là di ogni capacità umana di
impedirlo. In altre parole, c’è un senso
in tutto ciò che, di apparentemente fortuito, succede agli uomini, un senso
spesso incomprensibile ed inaccettabile, ma che, visto che gli angeli
attuano la volontà di dio, si inserisce in un disegno finalizzato al bene.
Al contrario la fortuna, da Boccaccio
a Machiavelli, è la casualità assoluta, ciò che resiste alla “virtù”
degli uomini, i quali sono tanto più virtuosi quanto più riescono a superare
gli ostacoli frapposti dalla fortuna; e dunque non c’è un senso, se non maligno, in ciò che si oppone ai disegni
degli uomini.
Un
universo pre-galileiano: il metodo deduttivo
44)
Ma siamo anche, con Dante, in un universo pre-galileiano, dove
per spiegare la realtà fisica del mondo non
vale il metodo induttivo che parte dai dati di esperienza per
giungere a leggi generali, ma
vale il metodo deduttivo, che parte da principi non dimostrati, da
verità accettate aprioristicamente come tali, per arrivare a dimostrare verità
particolari.
45)
A questo proposito i canti I e II del Paradiso sono esemplari,
non solo perché, come è stato detto, in essi viene rappresentata la
struttura dell’universo rispettivamente dalla terra al cielo (nella tensione
del creato verso Dio) e dal cielo alla terra (nelle influenze che discendono da
Dio e portano vitalità alla terra), ma anche per la logica rigorosamente deduttiva con cui Beatrice,
rispondendo a domande di Dante, spiega
in maniera teologica dei fenomeni fisici quali la legge di gravità e
la natura delle macchie lunari.
La
legge di gravità determinata dal peccato
46)
Dante chiede a Beatrice come sia
possibile che lui, che ha un corpo pesante, possa salire verso il cielo.
La spiegazione di Beatrice parte dalla seguente premessa: tutto il creato è mosso da una tensione verso Dio, ogni elemento,
organico o inorganico, rispetta la volontà divina realizzando se stesso secondo
la propria natura: così fanno le piante e i corpi inanimati, così fanno
gli animali bruti seguendo il proprio istinto e così farebbe l’uomo che, per sua natura, tende verso il cielo più
alto, l’Empireo. Senonchè la
creatura umana, in quanto dotata di intelletto e volontà, ha il libero
arbitrio e quindi il potere “di piegare in altra parte” scegliendo
il peccato. Ma poiché Dante,
avendo attraversato il Purgatorio e bevuto l’acqua del Letè (che fa dimenticare il male fatto) e dell’Eunoè (che fa ricordare le buone azioni compiute), è libero da ogni peccato, non
può che realizzare la sua natura di salire verso il cielo. Dunque la forza di gravità che trattiene a terra i nostri corpi
umani è determinata dai nostri peccati.
Le
macchie lunari spiegate da Beatrice
47)
L’altra questione, quella delle macchie
lunari, è svolta nel II canto del Paradiso, che normalmente a scuola non si
legge, perché troppo dottrinale, troppo difficile. E infatti è difficile,
faticoso, ci sono anche alcuni punti controversi, ma è di grande interesse per il modo deduttivo, appunto, del ragionamento.
Beatrice infatti, dopo avere sorriso sulla credenza
popolare (che vuole le macchie lunari originate da Caino che si aggira per
la luna portando in spalla un fascio di spine), e dopo avere smontato l’opinione di Dante (il
quale, seguendo Averroè, pensa che le
parti scure e le parti chiare della superficie lunare siano da attribuirsi
rispettivamente alla rarità e alla densità del corpo lunare), espone
(seguendo Tommaso) il complesso ragionamento che conduce alla verità.
48)
Sintetizzo al massimo. La premessa è che
c’è una virtù divina che scende dall’alto e che si diversifica nelle diverse stelle e da qui essa si
trasmette nei cieli inferiori; la
diversa luminosità delle stelle deriva dalla diversa “lega” che le diverse
virtù fanno con il prezioso corpo delle stelle; dunque la luminosità diversificata della superficie lunare (in questo
consistono le cosiddette “macchie lunari”) è determinata dal fatto che su
quest’astro confluiscono le diverse virtù che discendono dai cieli più alti.
Il
carattere medievale del poema non ne inficia il valore
49)
In conclusione è questo il modo di Dante
di interpretare la realtà, il suo modo di ragionare rigorosamente deduttivo. Ma
questo suo appartenere pienamente ad un’epoca, il Medioevo, così distante da
noi, nulla toglie al valore del poema “al
quale han posto mano e cielo e terra”
(così nel canto XXV dell’Inferno), un
poema che scavalca i secoli e giunge fino a noi con immutata potenza
comunicativa, a noi che siamo post-galileiani,
che crediamo nel metodo sperimentale
della scienza, che dubitiamo
dell’esistenza dei tre regni dell’oltretomba.
50)
Eppure la potenza comunicativa persiste
perché al di là di tutte le differenze
determinate dal diverso contesto storico, culturale e politico, c’è una
costante, la natura umana, che non varia col variare dei tempi. Le
tante figure di uomini e donne che noi incontriamo collocate in quei tre regni compongono un quadro, grandioso e
totale, della condizione umana. I diversi personaggi
che compaiono nei gironi infernali, nelle cornici del Purgatorio, nei cieli,
segnati dalle diverse vicende che hanno caratterizzato la loro vita terrena, ci parlano di passioni, sofferenze, sentimenti,
aspirazioni, violenze fatte e subite, che appartengono ad ogni tempo; l’amore cui Francesca, seppur dannata, non rinuncia, la passione politica che ancora
tormenta Farinata degli Uberti,
il desiderio di conoscere che
spinge Ulisse a sfidare
l’ignoto, l’odio inestinguibile
del conte Ugolino per chi ha
condotto lui e i suoi figli ad una morte atroce parlano a noi, uomini del
Duemila, così come hanno parlato ai contemporanei di Dante.
L’Inferno
spiegato da Schopenhauer
51)
Ho citato solo personaggi che compaiono
nell’Inferno, ed altri se ne potrebbero citare, protagonisti di dolorose
vicende terrene ed ora sottoposti ad orribili pene infernali; eppure ci sono
personaggi importanti e significativi anche negli altri due regni. Ma quei dannati sono sempre sembrati e
sembrano anche a noi più veri e più vivi e la ragione l’ha spiegata una
volta per tutte Schopenhauer:
Se
si mettessero sotto gli occhi di ciascuno di noi le sofferenze e le torture
atroci a cui ci si trova costantemente esposti, tremeremmo di terrore e di
raccapriccio. E se si conducesse il piú ostinato degli ottimisti attraverso gli
ospedali, i lazzaretti, gli ambulatori chirurgici, attraverso le prigioni, le stanze di tortura, i recinti degli schiavi,
sui campi di battaglia e sui luoghi di esecuzione capitale …. e da ultimo
facendolo entrare nella torre della fame di Ugolino, finirebbe anch'egli con
l'intendere di che razza sia questo meilleur
des mondes possibles. Del resto
da dove ha preso Dante la materia del suo Inferno, se non da questo nostro
mondo reale? E nondimeno ne ha fatto un inferno in piena regola. Quando
invece si accinse a descrivere il cielo e le sue gioie, si trovò davanti a una difficoltà insuperabile: appunto perché il
nostro mondo non offriva materiale per una impresa siffatta. Perciò non
gli rimase altra opportunità che il riferirci, in luogo delle gioie
paradisiache, gli ammaestramenti, che
nei cieli gli furono impartiti dal suo antenato, dalla sua Beatrice, e dai vari
santi. Da ciò appare abbastanza
chiaro, di quale natura sia questo nostro mondo.
[1] Dante
comunque contesta l’idea che la luna brilla di sola luce riflessa. La luce del
sole ne aumenta la luminosità, ma la luna ha una luce di per se stessa (De monarchia, III, IV, 17-18)
[2] I simoniaci
guardarono solo ai beni della terra invece che a quelli del cielo; ora nella
terra sono conficcati e al cielo rivolgono i piedi, sui quali brilla una fiamma
come “un’aureola a rovescio”.
[3] Una specie di lince,
simile alla pantera o al leopardo.
[4] Nell’epistola a
Cangrande dice che la Commedia è
stata concepita “non gratia speculativi negotii, sed gratia operis” (non per la
speculazione, ma per l’azione) .
Nessun commento:
Posta un commento