da La coscienza di Zeno (la
prefazione)
Io sono il dottore di cui in questa
novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico–analisi
s’intende, sa dove piazzare l’antipatia
che il paziente mi dedica.
Di psico–analisi non parlerò perché
qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio
paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico–analisi
arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in
tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse un
buon preludio alla psico–analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché
mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato
sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia
lunga paziente analisi di queste memorie.
Le pubblico per vendetta e spero gli
dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di dividere con lui i lauti onorarii
che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava
tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli
dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!...
DOTTOR S.
da La coscienza di Zeno (il vizio
del fumo)
Sul frontispizio
di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella scrittura e
qualche ornato: «Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge a quelli di
chimica. Ultima sigaretta! !».
Era un’ultima
sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompagnarono.
M’ero arrabbiato col diritto canonico che mi pareva tanto lontano dalla vita e
correvo alla scienza ch’è la vita stessa benché ridotta in un matraccio.
Quell’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche
manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo.
Per sfuggire
alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai alla
legge. Pur troppo! Fu un errore e fu anch’esso registrato da un’ultima
sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa
e mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo
coi migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M’ero
dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità
manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un turco?
Adesso che son
qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la
sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà
se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo?
Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere
quello di credersi grande di una grandezza latente.
da La coscienza di Zeno (la morte
del padre)
Andammo al letto dell’ammalato. Con l’aiuto dell’infermiere egli girò e
rigirò quel povero corpo inerte per un tempo che a me parve lunghissimo. Lo
ascoltò e lo esplorò. Tentò di farsi aiutare dal paziente stesso, ma invano.
– Basta! – disse ad un certo punto. Mi si avvicinò con gli occhiali in mano
guardando il pavimento e, con un sospiro, mi disse:
– Abbiate coraggio! È un caso gravissimo. Andammo alla mia stanza ove egli
si lavò anche la faccia.
Era perciò senza occhiali e quando l’alzò per asciugarla, la sua testa bagnata
sembrava la testina strana di un amuleto fatta da mani inesperte. Ricordò di
averci visti alcuni mesi prima ed espresse meraviglia perché non fossimo più
ritornati da lui. Anzi aveva creduto che lo avessimo abbandonato per altro
medico; egli allora aveva ben chiaramente dichiarato che mio padre abbisognava
di cure. Quando rimproverava, così senz’occhiali, era terribile. Aveva alzata
la voce e voleva spiegazioni. I suoi occhi le cercavano dappertutto.
Certo egli aveva ragione ed io meritavo dei rimproveri. Debbo dire qui, che
sono sicuro che non è per quelle parole che io odio il dottor Coprosich. Mi
scusai raccontandogli dell’avversione di mio padre per medici e medicine;
parlavo piangendo e il dottore, con bontà generosa, cercò di quietarmi dicendomi
che se anche fossimo ricorsi a lui prima, la sua scienza avrebbe potuto tutt’al
più ritardare la catastrofe cui assistevamo ora, ma non impedirla.
Però, come continuò a indagare sui precedenti della malattia, ebbe nuovi
argomenti di rimprovero per me. Egli voleva sapere se mio padre in quegli
ultimi mesi si fosse lagnato delle sue condizioni di salute, del suo appetito e
del suo sonno. Non seppi dirgli nulla di preciso; neppure se mio padre avesse
mangiato molto o poco a quel tavolo a cui sedevamo giornalmente insieme.
L’evidenza della mia colpa m’atterrò, ma il dottore non insistette affatto
nelle domande. Apprese da me che Maria lo vedeva sempre moribondo e ch’io
perciò la deridevo.
Egli stava pulendosi le orecchie, guardando in alto. Fra un paio d’ore probabilmente
ricupererà la coscienza almeno in parte, – disse.
– C’è qualche speranza dunque? – esclamai io.
– Nessunissima! – rispose seccamente. – Però le mignatte non sbagliano mai
in questo caso. Ricupererà di sicuro un po’ della sua coscienza, forse per
impazzire.
Alzò le spalle e rimise a posto l’asciugamano. Quell’alzata di spalle
significava proprio un disdegno per l’opera propria e m’incoraggiò a parlare.
Ero pieno di terrore all’idea che mio padre avesse potuto rimettersi dal suo
torpore per vedersi morire, ma senza quell’alzata di spalle non avrei avuto il
coraggio di dirlo.
– Dottore! – supplicai. – Non le pare sia una cattiva azione di farlo
ritornare in sé?
Scoppiai in pianto. La voglia di piangere l’avevo sempre nei miei nervi
scossi, ma mi vi abbandonavo senza resistenza per far vedere le mie lagrime e
farmi perdonare dal dottore il giudizio che avevo osato di dare sull’opera sua.
Con grande bontà egli mi disse:
– Via, si calmi. La coscienza dell’infermo non sarà mai tanto chiara da
fargli comprendere il suo stato. Egli non è un medico. Basterà non dirgli ch’è
moribondo, ed egli non lo saprà. Ci può invece toccare di peggio: potrebbe cioè
impazzire. Ho però portata con me la camicia di forza e l’infermiere resterà
qui.
Più spaventato che mai, lo supplicai di non applicargli le mignatte. Egli
allora con tutta calma mi raccontò che l’infermiere gliele aveva sicuramente
già applicate perché egli ne aveva dato l’ordine prima di lasciare la stanza di
mio padre. Allora m’arrabbiai. Poteva esserci un’azione più malvagia di quella
di richiamare in sé un ammalato, senz’avere la minima speranza di salvarlo e
solo per esporlo alla disperazione, o al rischio di dover sopportare – con
quell’affanno! – la camicia di forza? Con tutta violenza, ma sempre accompagnando
le mie parole di quel pianto che domandava indulgenza, dichiarai che mi pareva
una crudeltà inaudita di non lasciar morire in pace chi era definitivamente
condannato.
Io odio quell’uomo perché egli allora s’arrabbiò con me. È ciò ch’io non seppi mai perdonargli. Egli s’agitò tanto che
dimenticò d’inforcare gli occhiali e tuttavia scoperse esattamente il punto ove
si trovava la mia testa per fissarla con i suoi occhi terribili. Mi disse che
gli pareva io volessi recidere anche quel tenue filo di speranza che vi era
ancora. Me lo disse proprio così, crudamente.
Ci si avviava a un conflitto. Piangendo e urlando obbiettai che pochi
istanti prima egli stesso aveva esclusa qualunque speranza di salvezza per
l’ammalato. La casa mia e chi vi abitava non dovevano servire ad esperimenti
per i quali c’erano altri posti a questo mondo!
Con grande severità e una calma che la rendeva quasi minacciosa, egli
rispose:
– Io le spiegai quale era lo stato della scienza in quell’istante. Ma chi
può dire quello che può avvenire fra mezz’ora o fino a domani? Tenendo in vita
suo padre io ho lasciata aperta la via a tutte le possibilità.
Si mise allora gli occhiali e, col suo aspetto d’impiegato pedantesco,
aggiunse ancora delle spiegazioni che non finivano più, sull’importanza che
poteva avere l’intervento del medico nel destino economico di una famiglia.
Mezz’ora in più di respiro poteva decidere del destino di un patrimonio.
Piangevo oramai anche perché compassionavo me stesso per dover star a
sentire tali cose in simile momento. Ero esausto e cessai dal discutere. Tanto
le mignatte erano già state applicate!
Il medico è una potenza quando si trova al letto di un ammalato ed io al
dottor Coprosich usai ogni riguardo. Dev’essere stato per tale riguardo ch’io
non osai di proporre un consulto, cosa che mi rimproverai per lunghi anni. Ora
anche quel rimorso è morto insieme a tutti i miei altri sentimenti di cui parlo
qui con la freddezza con cui racconterei di avvenimenti toccati ad un estraneo.
Nel mio cuore, di quei giorni, non v’è altro residuo che l’antipatia per quel
medico che tuttavia si ostina a vivere.
(…) La notte scorsa, dopo di aver passata parte della giornata di ieri a
raccogliere questi miei ricordi, ebbi un sogno vivissimo che mi riportò con un
salto enorme, attraverso il tempo, a quei giorni. Mi rivedevo col dottore nella
stessa stanza ove avevamo discusso di mignatte e camicie di forza, in quella
stanza che ora ha tutt’altro aspetto perché è la stanza da letto mia e di
moglie. Io insegnavo al dottore il modo di curare e guarire mio padre, mentre
lui (non vecchio e cadente com’è ora, ma vigoroso e nervoso com’era allora) con
ira, gli occhiali in mano e gli occhi disorientati, urlava che non valeva la
pena di fare tante cose. Diceva proprio così: «Le mignatte lo richiamerebbero
alla vita e al dolore e non bisogna applicargliele!». Io invece battevo il
pugno su un libro di medicina ed urlavo: «Le mignatte! Voglio le mignatte! Ed
anche la camicia di forza!».
(…) Fu allora che avvenne la scena terribile che non dimenticherò mai (…)
L’infermiere mi disse:
– Come sarebbe bene se riuscissimo di tenerlo a letto. Il dottore vi dà
tanta importanza!
Fino a quel momento io ero rimasto adagiato sul sofà. Mi levai e andai al
letto ove, in quel momento, ansante più che mai, l’ammalato s’era coricato. Ero
deciso: avrei costretto mio padre di restare almeno per mezz’ora nel riposo
voluto dal medico. Non era questo il mio dovere?
Subito mio padre tentò di ribaltarsi verso la sponda del letto per
sottrarsi alla mia pressione e levarsi. Con mano vigorosa poggiata sulla sua
spalla, gliel’impedii mentre a voce alta e imperiosa gli comandavo di non
moversi. Per un breve istante, terrorizzato, egli obbedì. Poi esclamò:
– Muoio!
E si rizzò. A mia volta, subito spaventato dal suo grido, rallentai la
pressione della mia mano. Perciò egli potè sedere sulla sponda del letto
proprio di faccia a me. Io penso che allora la sua ira fu aumentata al trovarsi
sebbene per un momento solo – impedito nei movimenti e gli parve certo ch’io
gli togliessi anche l’aria di cui aveva tanto bisogno, come gli toglievo la
luce stando in piedi contro di lui seduto. Con uno sforzo supremo arrivò a
mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch’egli non
poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla
mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento. Morto!
Non lo sapevo morto, ma mi si contrasse il cuore dal dolore della punizione
ch’egli, moribondo, aveva voluto darmi. Con l’aiuto di Carlo lo sollevai e lo
riposi in letto. Piangendo, proprio come un bambino punito, gli gridai
nell’orecchio:
– Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di star
sdraiato!
Era una bugia. Poi, ancora come un bambino, aggiunsi la promessa di non
farlo più:
– Ti lascerò movere come vorrai.
L’infermiere disse:
– È morto.
Dovettero allontanarmi a viva forza da quella stanza. Egli era morto ed io
non potevo più provargli la mia innocenza!
Nella solitudine tentai di riavermi. Ragionavo: era escluso che mio padre,
ch’era sempre fuori di sensi, avesse potuto risolvere di punirmi e dirigere la
sua mano con tanta esattezza da colpire la mia guancia.
Come sarebbe stato possibile di avere la certezza che il mio ragionamento
era giusto? Pensai persino di dirigermi a Coprosich. Egli, quale medico,
avrebbe potuto dirmi qualche cosa sulle capacità di risolvere e agire di un
moribondo. Potevo anche essere stato vittima di un atto provocato da un
tentativo di facilitarsi la respirazione! Ma col dottor Coprosich non parlai. Era
impossibile di andar a rivelare a lui come mio padre si fosse congedato da me.
A lui, che m’aveva già accusato di aver mancato di affetto per mio padre!
Fu un ulteriore grave colpo per me quando sentii che Carlo, l’infermiere,
in cucina, di sera, raccontava a Maria: – Il padre alzò alto alto la mano e con
l’ultimo suo atto picchiò il figliuolo. – Egli lo sapeva e perciò Coprosich
l’avrebbe risaputo.
Quando mi recai nella stanza mortuaria, trovai che avevano vestito il
cadavere. L’infermiere doveva anche avergli ravviata la bella, bianca chioma.
La morte aveva già irrigidito quel corpo che giaceva superbo e minaccioso. Le
sue mani grandi, potenti, ben formate, erano livide, ma giacevano con tanta
naturalezza che parevano pronte ad afferrare e punire. Non volli, non seppi più
rivederlo.
Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio padre debole e buono come l’avevo
sempre conosciuto dopo la mia infanzia e mi convinsi che quello schiaffo che
m’era stato inflitto da lui moribondo, non era stato da lui voluto. Divenni
buono, buono e il ricordo di mio padre s’accompagnò a me, divenendo sempre più
dolce. Fu come un sogno delizioso: eravamo oramai perfettamente d’accordo, io
divenuto il più debole e lui il più forte.
da La coscienza di Zeno (l’ultimo
capitolo)
Dal Maggio dell’anno scorso non avevo più toccato questo libercolo. Ecco
che dalla Svizzera il dr. S. mi scrive pregiandomi di mandargli quanto avessi
ancora annotato. È una domanda curiosa, ma non ho nulla in contrario di
mandargli anche questo libercolo dal quale chiaramente vedrà come io la pensi
di lui e della sua cura. Giacché possiede tutte le mie confessioni, si tenga
anche queste poche pagine e ancora qualcuna che volentieri aggiungo a sua
edificazione. Ma al signor dottor S. voglio pur dire il fatto suo. Ci pensai
tanto che oramai ho le idee ben chiare.
Intanto egli crede di ricevere altre confessioni di malattia e debolezza e
invece riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età
abbastanza inoltrata può permettere. Io sono guarito! Non solo non voglio fare
la psico–analisi, ma non ne ho neppur di bisogno. E la mia salute non proviene
solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti martiri.
Non è per il confronto ch’io mi senta sano. Io sono sano, assolutamente.
(…)
Ammetto che per avere la persuasione della salute il mio destino dovette
mutare e scaldare il mio organismo con la lotta e sopratutto col trionfo. Fu il
mio commercio che mi guarì e voglio che il dottor S. lo sappia.
Attonito e inerte, stetti a guardare il mondo sconvolto, fino al principio
dell’Agosto dell’anno scorso. Allora io cominciai a comperare. Sottolineo
questo verbo perché ha un significato più alto di prima della guerra. In bocca
di un commerciante, allora, significava ch’egli era disposto a comperare un
dato articolo. Ma quando io lo dissi, volli significare ch’io ero compratore di
qualunque merce che mi sarebbe stata offerta. Come tutte le persone forti, io
ebbi nella mia testa una sola idea e di quella vissi e fu la mia fortuna.
L’Olivi non era a Trieste, ma è certo ch’egli non avrebbe permesso un rischio
simile e lo avrebbe riservato agli altri. Invece per me non era un rischio. Io
ne sapevo il risultato felice con piena certezza. Dapprima m’ero messo, secondo
l’antico costume in epoca di guerra, a convertire tutto il patrimonio in oro,
ma v’era una certa difficoltà di comperare e vendere dell’oro. L’oro per così
dire liquido, perché più mobile, era la merce e ne feci incetta. Io effettuo di
tempo in tempo anche delle vendite ma sempre in misura inferiore agli acquisti.
Perché cominciai nel giusto momento i miei acquisti e le mie vendite furono
tanto felici che queste mi davano i grandi mezzi di cui abbisognavo per quelli.
Con grande orgoglio ricordo che il mio primo acquisto fu addirittura apparentemente
una sciocchezza e inteso unicamente a realizzare subito la mia nuova idea: una
partita non grande d’incenso. Il venditore mi vantava la possibilità
d’impiegare l’incenso quale un surrogato della resina che già cominciava a
mancare, ma io quale chimico sapevo con piena certezza che l’incenso mai più
avrebbe potuto sostituire la resina di cui era differente toto genere. Secondo la mia idea il mondo sarebbe arrivato ad una
miseria tale da dover accettare l’incenso quale un surrogato della resina. E comperai!
Pochi giorni or sono ne vendetti una piccola parte e ne ricavai l’importo che
m’era occorso per appropriarmi della partita intera. Nel momento in cui
incassai quei denari mi si allargò il petto al sentimento della mia forza e
della mia salute. (…)
Naturalmente io non sono un ingenuo e scuso il dottore di vedere nella vita
stessa una manifestazione di malattia. La vita somiglia un poco alla malattia
come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e
peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non
sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo
credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati.
La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi
e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può
avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al
proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria.
Ne seguirà una grande ricchezza... nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato
sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio?
Solamente al pensarci soffoco!
Ma non è questo, non è questo soltanto.
Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che
alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo.
Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita
fuori dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne
la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s’interrò e tutto il suo
corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandì e trasformò il suo
piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà
mai leso la loro salute.
Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se
c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa.
Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più
furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione
della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo
braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma,
oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che
crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la
creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro
che psico–analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero
di ordigni prospereranno malattie e ammalati.
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo
alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti
gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo
incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti
saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui
come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo
e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto
potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la
terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di
malattie.
da Una vita
(il volo del gabbiano)
Macario lo
guardò con un leggero sorriso. Si sentiva bene nella sua calma accanto ad
Alfonso e per rendere più evidente il distacco tenne il cutter sotto la piena
azione del vento. Alfonso vide il sorriso e volle prendere l'aspetto di persona
calma. Segnalò a Macario all'orizzonte delle punte bianche di montagne di cui
non si vedevano le basi.
Passando accanto al faro poté misurare
la rapidità con la quale tagliavano l'acqua; diede un balzo sembrandogli che la
barca andasse a sfracellarsi sui sassi che la contornavano.
- Sa nuotare? - gli chiese Macario con
tranquillità. - Alla peggio ritorneremo a casa a nuoto. Ma - e finse grande
preoccupazione - anche se si sentisse andare a fondo non si aggrappi a me
perché saremmo perduti in due. Penseremo a lei io e Nando. Nevvero, Nando?
Ridendo sgangheratamente, costui lo
promise.
Coi suoi modi di pensatore, Macario si
dilungò in considerazioni sugli effetti della paura. Ogni dieci parole alzava
la mano aristocratica, l'arrotondava e tutti i sottintesi che quel gesto
segnava, cui nel vuoto della mano creava il posto, Alfonso lo sapeva, dovevano
andare a colpire lui e la sua paura.
- Muore maggior numero di persone per
paura che per coraggio. Per esempio in acqua, se vi cadono, muoiono tutti
coloro che hanno l'abitudine di afferrarsi a tutto quello che loro è vicino, -
e fece una strizzatina d'occhio verso le mani di Alfonso che si chiudevano
nervosamente sulla banchina.
E passarono accanto al verde
Sant'Andrea senza che Alfonso potesse padroneggiarsi. Guardava, ma non godeva.
La città, quando al ritorno la rivide,
gli parve triste. Sentiva un grande malessere, una stanchezza come se molto
tempo prima avesse fatto tanta via e che poi non lo si fosse lasciato riposare
mai più. Doveva essere mal di mare e provocò l'ilarità di Macario
dicendoglielo.
- Con questo mare!
Infatti il mare sferzato dal vento di
terra non aveva onde. Vi erano larghe strisce increspate, altre incavate,
liscie liscie precisamente perché battute dal vento che sembrava averci tolto
via la superficie. (…)
Alfonso era tanto pallido che Macario
se ne impietosì e ordinò a Ferdinando di accorciare le vele.
Si era in porto, ma per giungere al
punto di partenza si dovette passarci dinanzi due volte.
Si udivano i piccoli gridi dei
gabbiani. Macario per distrarlo volle che Alfonso osservasse il volo di quegli
uccelli, così calmo e regolare come la salita su una via costruita, e quelle
cadute rapide come di oggetti di piombo. Si vedevano solitarii, ognuno volando
per proprio conto, le grandi ali bianche tese, il corpicciuolo sproporzionato
piccolo coperto da piume leggiere.
Fatti proprio per pescare e per
mangiare, - filosofeggiò Macario. - Quanto poco cervello occorre per pigliare
pesce! Il corpo è piccolo. Che cosa sarà la testa e che cosa sarà poi il
cervello? Quantità da negligersi! Quello ch'è la sventura del pesce che finisce
in bocca del gabbiano sono quelle ali, quegli occhi, e lo stomaco, l'appetito
formidabile per soddisfare il quale non è nulla quella caduta così dall'alto.
Ma il cervello! Che cosa ci ha da fare il cervello col pigliar pesci? E lei che
studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile! Chi non ha
le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più. Chi non sa per natura
piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà giammai e inutilmente starà
a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare. Si muore precisamente
nello stato in cui si nasce, le mani organi per afferrare o anche inabili a
tenere.
Alfonso fu impressionato da questo
discorso. Si sentiva molto misero nell'agitazione che lo aveva colto per cosa
di sì piccola importanza.
- Ed io ho le ali? - chiese abbozzando
un sorriso.
- Per fare dei voli poetici sì! -
rispose Macario, e arrotondò la mano quantunque nella sua frase non ci fosse
alcun sottinteso che abbisognasse di quel cenno per venir compreso.
da
I fiori del male di Baudelaire (L’albatro)
Per
dilettarsi, sovente, le ciurme
catturano degli albatri, marini
grandi uccelli, che seguono, indolenti
compagni di viaggio, il bastimento
che scivolando va su amari abissi.
E li hanno appena sulla tolda posti
che questi re dell'azzurro abbandonano,
inetti e vergognosi, ai loro fianchi
miseramente, come remi, inerti
le candide e grandi ali. Com'è goffo
e imbelle questo alato viaggiatore!
Lui, poco fa sì bello, com'è brutto
e comico! Qualcuno con la pipa
il becco qui gli stuzzica, là un altro
l'infermo che volava, zoppicando
scimmieggia.
Come il principe dei nembi
è il Poeta che, avvezzo alla tempesta,
si ride dell'arciere, ma esiliato
sulla terra, fra scherni, camminare
non può per le sue ali da gigante.
dalle Operette
morali di Leopardi
Gli animali bruti usano agevolmente ai fini che eglino
si propongono ogni loro facoltà e forza. Ma gli uomini rarissime volte fanno
ogni loro potere; impediti ordinariamente dalla ragione e dalla immaginativa;
le quali creano mille dubbietà nel deliberare e mille ritegni nell’eseguire. I
meno atti e meno usati a ponderare seco medesimi sono i più pronti al
risolversi, e nell’operare i più efficaci. Ma le tue pari, implicate
continuamente in loro stesse, e come soverchiate dalla grandezza delle proprie
facoltà, e quindi impotenti di se medesime, soggiaciono il più tempo
all’irresoluzione, così deliberando come operando: la quale è uno dei maggiori
travagli che affliggano la vita umana. Aggiungi che, mentre per l’eccellenza
delle tue disposizioni trapasserai facilmente e in poco tempo quasi tutte le
altre della tua specie nelle conoscenze più gravi, e nelle discipline anco
difficilissime, nondimeno ti riuscirà sempre impossibile o sommamente malagevole
di apprendere o di porre in pratica moltissime cose menome in sé, ma
necessarissime al conversare cogli altri uomini; le quali vedrai nello stesso
tempo esercitare perfettamente ed apprendere senza fatica da mille ingegni, non
solo inferiori a te, ma spregevoli in ogni modo. (dal Dialogo della Natura e di un’anima)
gli uomini
di questa seconda specie, non essendo di volontà punto alieni dal conversare
cogli altri, desiderando in molte e diverse cose di rendersi conformi o simili
a quelli del primo genere, dolendosi nel proprio cuore della disistima in cui
si veggono essere, e di parere da meno di uomini smisuratamente inferiori a se
d'ingegno e d'animo; non vengono a capo, non ostante qualunque cura e diligenza
vi pongano, di addestrarsi all'uso pratico della vita, nè di rendersi nella
conversazione tollerabili a se, non che altrui. (dai Detti memorabili di Filippo Ottonieri)
dallo Zibaldone di Leopardi
È cosa evidente e osservata tuttogiorno, che gli
uomini di maggior talento, sono i più difficili a risolversi tanto al credere,
quanto all'operare; i più incerti, i più barcollanti, e temporeggianti, i più
tormentati da quell'eccessiva pena dell'irresoluzione: i più inclinati e soliti
a lasciar le cose come stanno; i più tardi, restii, difficili a mutar nulla del
presente, malgrado l'utilità o necessità conosciuta. E quanto è maggiore
l'abito di riflettere, e la profondità dell'indole, tanto è maggiore la
difficoltà e l'angustia di risolvere. (21. Gen. 1821.).
l'abito della prudenza nel deliberare esclude
ordinariamente la facilità e prontezza del risolvere, ed anche la fermezza
nell'operare. Di qui è che gli uomini d'ingegno grande ed esercitato sono per
lo più, anzi quasi sempre prigionieri, per così dire, dell'irresolutezza,
difficili a risolvere, timidi, sospesi, incerti, delicati, deboli
nell'eseguire. Altrimenti essi dominerebbero il mondo, il quale, perchè la
risolutezza per sé può sempre più che la prudenza sola, fu ed è e sarà sempre
in balia degli uomini mediocri. (26. Luglio, dì di S. Anna. 1823.).
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