Verga verista
Premessa
1)
Ho scelto di parlare specificamente di
Verga verista, perché, come sapete, prima della cosiddetta “conversione” al
verismo Verga aveva scritto altri romanzi di ispirazione tardo romantica (Una peccatrice, Storia di una capinera, Eva,
Eros, Tigre reale), storie di amori
fallimentari, romanzi che in qualche modo lui rinnegherà quando dirà di
se stesso “sono stato il poeta delle
duchesse”, ovvero il narratore di vicende frivole e superficiali.
2)
Come è noto, il verismo di Verga si
realizza soprattutto nelle due raccolte di novelle (Vita dei campi e Novelle
rusticane) e nei due romanzi del ciclo dei vinti (I Malavoglia e Mastro
don Gesualdo). Dico subito però che io mi sono soffermato in
particolare e dettagliatamente su una novella, Rosso Malpelo, che
non solo è esemplare per quanto riguarda la tecnica narrativa, che qualifica perfettamente il verismo di
Verga, ma che a me sembra, ogni volta che la prendo in mano, uno straordinario capolavoro.
Insuccesso
de I Malavoglia e successo di
Storia
di una capinera
3)
Aggiungo anche che il successo del Verga verista fu piuttosto tardivo, quelle opere,
con quella tecnica narrativa, non andavano incontro al gusto del pubblico,
tant’è che lui stesso scriveva all’amico Capuana a proposito dei Malavoglia:
I Malavoglia hanno fatto fiasco, fiasco pieno e completo (…). Il peggio è che io non sono convinto del fiasco e che se dovessi tornare a scrivere quel libro lo farei come l’ho fatto. Ma in Italia l’analisi più o meno esatta senza il pepe della scena drammatica non va e, vedi, ci vuole tutta la tenacia della mia convinzione per non ammannire i manicaretti che piacciono al pubblico per poter poi ridergli in faccia.
4)
Al contrario, un grande successo
l’aveva avuto Storia di una capinera. Era un romanzo epistolare in cui la protagonista (una fanciulla destinata
al convento, contro la sua volontà) confida ad un’amica i suoi tormenti, in
particolare l’amore concepito per un amico di famiglia in occasione di una
vacanza in campagna; ovviamente l’amore è irrealizzabile, l’amico si sposa con
un’altra e la fanciulla se ne tormenta fino alla morte.
5)
Si trattava di una patetica storia d’amore, e il successo si spiega perché
il patetismo andava incontro ai gusti del pubblico, ma anche per un’altra
ragione. Si era al tempo del contrasto fra il neonato Regno d’Italia e gli
ordini religiosi (il romanzo fu pubblicato nel 1871), e dunque la Storia di una capinera fu interpretata
come la denuncia di una piaga sociale, quella delle monacazioni forzate.
Il
naturalismo francese e l’equivoco di Nedda
6)
Verso la metà degli anni ’70 si
diffondono in Italia, in particolare nell’ambiente milanese dove Verga si era
trasferito nel 1872, le teorie del
naturalismo francese e i primi romanzi di Zola. Verga se ne appassiona,
così come i suoi amici Felice Cameroni e Luigi Capuana. Si appassionano
alla novità di una narrativa che adotta
il metodo scientifico nella rappresentazione delle vicende umane, per cui lo
scrittore non interpreta le vicende dal proprio punto di vista, ma le osserva con il distacco dello scienziato.
7)
Del 1874 è la novella Nedda,
a lungo ritenuta il primo esempio della narrativa verista di Verga, in quanto nuova è l’ambientazione e nuovi sono i
personaggi: non gli ambienti e i personaggi mondani dei precedenti
romanzi, ma la Sicilia contadina e la vita miserabile degli ultimi. Nedda è
infatti una raccoglitrice di olive, che, rimasta sola e incinta dopo la morte
del compagno, è evitata da tutti, non trova più lavoro, non riesce nemmeno
ad allattare la bimba neonata che muore di fame.
8)
In realtà non è in questa novella che si
può riconoscere l’inizio del verismo verghiano, ma, come vedremo, nella novella
Rosso
Malpelo, pubblicata nel 1878. Il verismo infatti, a differenza del naturalismo di Zola
(che si proponeva di osservare scientificamente i comportamenti umani, in
quanto determinati dai fattori di race, milieu, moment)
si manifesta con l’adozione della cosiddetta “poetica dell’impersonalità”, la quale, a sua volta, si
realizza con una tecnica narrativa
totalmente nuova.
La
poetica dell’impersonalità
9) Per
capire che cosa intenda Verga per “poetica dell’impersonalità”, basta leggere
un passo della lettera che lui scrive all’amico Salvatore Farina (poi premessa alla novella L’amante di Gramigna):
Caro
Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto…. Io te lo ripeterò
così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime
parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente
preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a
cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. (….) Quando
nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa che il
processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle
passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità
della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così
necessarie, che la mano
dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta
dell’avvenimento reale, l’opera
d’arte sembrerà essersi fatta da sè, aver maturato ed esser sòrta
spontanea come un fatto naturale, senza
serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato
d’origine.
10) Ma
allora come si realizza questa impersonalità per cui “la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile” e l’opera “sembrerà essersi fatta da sé”, “senza serbare alcun punto di contatto col
suo autore”? Con la cosiddetta “eclissi
dell’autore” o “artificio
della regressione”.
Da Nedda a Rosso Malpelo
11) Nella
fase pre-verista, il patto narrativo è sempre tale per cui il narratore è
interno alla vicenda narrata (ne è partecipe o testimone). In Nedda
(1874) abbiamo un narratore
omnisciente, tutto esterno rispetto ai fatti e ai personaggi, che infatti non
appartengono al mondo, sociale e culturale, di Verga: la convenzione è
che il narratore, che fuma il sigaro in poltrona davanti al caminetto, ricorda
un altro fuoco, attorno a cui ballavano le raccoglitrici di olive (e quindi
comincia a narrare, senza dirci chiaramente come egli conosca la storia);
questo comporta un atteggiamento di
superiorità (paternalistico) nei confronti di quel mondo, che si esplica in commenti, giudizi moralistici,
magari attraverso una descrizione, un’esclamazione, un aggettivo (ad esempio,
la chiama la “povera ragazza” o la “povera madre”) ed un sottinteso
rapporto di complicità con il lettore, implicitamente riconosciuto delle stesso
livello del narratore, e chiamato a provarne gli stessi sentimenti, di commozione e di commiserazione per quel
mondo di derelitti.
12) La
vera novità narrativa compare con Rosso Malpelo (1878). Si tratta di
una novella straordinaria, di uno sconvolgente
capolavoro, sia per la
tecnica narrativa, sia per la
rappresentazione, assolutamente priva di elementi consolatori, di un mondo miserabile,
violento, sub-umano. Per chi non conoscesse la novella, si tratta della
vicenda di un ragazzo che lavora, per una miserissima paga, presso una cava di
rena ed è chiamato così perché ha i capelli rossi e questi, secondo una
credenza popolare, sono indice di cattiveria.
L’ “eclissi dell’autore” o
“artificio della regressione”
13) Leggiamo
l’incipit della novella:
Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone.
Subito,
la frase iniziale ci lascia perplessi: dire che Malpelo ha i capelli rossi
perché è “malizioso e cattivo” è un’affermazione
assolutamente priva di logica, un’affermazione che dà per scontato un nesso
causale assurdo, proprio di una
mentalità ignorante e superstiziosa. Pertanto non può essere dell’autore, Verga, che è colto, non ignorante né
superstizioso. E dunque quell’affermazione
sarà propria del mondo cui appartiene il ragazzo, il mondo dei minatori e dei
popolani, ignoranti e superstiziosi. Ma non è detto, a margine
dell’affermazione, che così dicevano i minatori e i paesani. Si tratta del
cosiddetto “discorso indiretto libero”
(o “erlebte
Rede”, come lo chiamò Spitzer, ovvero “discorso rivissuto”): cioè non è un discorso diretto (dei
minatori, dei popolani) perché non è introdotto dalle virgolette; è
un discorso indiretto, ma non segnalato
dalle locuzioni che dovrebbero segnalarlo, del tipo “come dicevano”, “così
si diceva” e simili. La frase sta lì, secca e indiscutibile, è la verità
enunciata dal narratore, su cui l’autore Verga non interviene a giudicarla e a
contestarla. L’autore si è
“eclissato”, o è “regredito” al livello del mondo di cui si narra. Non è lui
che narra, sono gli stessi personaggi di quel mondo che narrano.
14) Se
poi confrontiamo quell’incipit con quei nessi causali assurdi – che
pertanto non possono essere dell’autore Verga – con un passo di Nedda, vediamo con chiarezza la
differenza. A un certo punto, poiché Nedda si rifiuta di portare la neonata
alla Ruota, si dice: “Le comari la
chiamavano sfacciata, perché non era
stata ipocrita e perché non era snaturata”. Qui la
spiegazione introdotta dai “perché” è proprio dell’autore Verga, che interviene
a ristabilire la verità, difendendo la scelta di Nedda dalle accuse delle
comari. E’ dunque ben diverso da
quell’assurdo “perché” che associa i capelli rossi di Malpelo alla cattiveria.
L’incipit de I Malavoglia
15) Guardate
anche l’incipit dei Malavoglia, il primo grande romanzo verista di Verga: “Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi
come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina e ad
Aci Castello…”. Qui non c’è una
stortura logica, ma si avverte subito che chi sta narrando non è
l’autore Verga, ma qualcuno che
appartiene al mondo di cui si narra, qualcuno che per dire che un tempo dei
Malavoglia ce n’erano tanti non ha altri
termini di paragone che “i sassi della
strada vecchia di Trezza”, qualcuno cioè che non ha altri riferimenti
che il paese cui appartiene; qualcuno il
cui universo è ridotto al piccolo mondo che conosce, visto che per
caratterizzare meglio quella moltitudine dice che dei Malavoglia “ce n’erano persino ad Ognina e ad Aci Castello” (dove risalta molto
significativamente quel “persino”, visto che Ognina ed Aci
Castello distano pochi chilometri da Aci Trezza).
16) In
questo modo Verga realizza quella “impersonalità” cui diceva di aspirare nella
lettera al Farina, quella tecnica per cui “la
mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile” e l’opera “sembrerà essersi fatta da sé”, “senza
serbare alcun punto di contatto col suo autore”.
I narratori nella prima pagina
17) Se
ora torniamo a Rosso Malpelo e
procediamo nella lettura, possiamo non solo vedere come è considerato e
trattato il ragazzo, ma anche riconoscere
via via chi sono i narratori che narrano attraverso il discorso indiretto
libero, possiamo cioè riconoscere che
c’è, come è stato detto particolarmente per i Malavoglia, una narrazione corale:
Sicché
tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre,
col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di
battesimo.
Del
resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei
pochi soldi della settimana; e
siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei
soldi; nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la
ricevuta a scapaccioni. (Qui si avverte
che sono la madre o la sorella che narrano)
Però
il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per
Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, (qui ci pare di sentire la voce del padrone
della cava) e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano
coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le bestie sue pari; (questi sembrano essere le parole dei minatorii) e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava, fra i calci e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella s’era fatta sposa, e aveva altro pel capo: nondimeno era conosciuto come la bettonica (un’erba diffusa) per tutto Monserrato e la Carvana, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perchè mastro Misciu, suo padre, era morto nella cava. (qui si avverte che sono i paesani a narrare. E si potrebbe continuare).
La morte di mastro Misciu
18) Leggiamo
ora l’episodio della morte del padre di Malpelo, mastro Misciu, detto Bestia
e, tralasciando le osservazioni sulla tecnica narrativa, soffermiamoci sul
contenuto, sul senso dell’episodio:
Era
morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a
cottimo (cioè, si valuta l’entità del
lavoro e si stabilisce il compenso), di un pilastro lasciato altra volta
per sostegno dell’ingrottato, e dacché non serviva più, s’era calcolato, così
ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra di rena. Invece mastro Misciu sterrava
da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato
un magro affare e solo un minchione
come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone
(narrano i minatori, i compagni di lavoro);
perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto di tutta la cava (notare: è paragonato all’asino lui come poco prima il figlio Malpelo).
Ei, povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane
colle sue braccia, invece di menarle
addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio, come se
quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com’era aveva
di quelle occhiate che facevano dire agli altri: – Va là, che tu non ci morrai
nel tuo letto, come tuo padre -.
Invece
nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttoché fosse una buona bestia. Zio Mommu lo sciancato, aveva detto che
quel pilastro lì ei non l’avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è pericolo nelle
cave, e se si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio
andare a fare l’avvocato (narra
mastro Misciu).
Dunque
il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l’avemaria
era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se
n’erano andati dicendogli di divertirsi
a grattar la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non fare la morte del sorcio. Ei, che c’era
avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli «ah! ah!» dei
suoi bei colpi di zappa in pieno, e intanto borbottava:
–
Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata! – e
così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto, il cottimante!
(…)
Il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava
in arco, come se avesse il mal di pancia, e dicesse ohi! anch’esso. Malpelo
andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto
ed il fiasco del vino.
Il
padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: – Tirati in là! –
oppure: – Sta attento! Bada se cascano dall’alto dei sassolini o della rena
grossa, e scappa! – Tutt’a un tratto, punf! Malpelo, che si era voltato a
riporre i ferri nel corbello, udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora
allorché fa pancia e si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense.
Andarono a chiamare l’ingegnere che
dirigeva i lavori della cava (su questo episodio torneremo più avanti), ma non
riuscirono nemmeno a trovare il corpo di mastro Misciu, tanta era la rena che
lo aveva ricoperto. E così si conclude la narrazione:
Altro che quaranta carra! Lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana. Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani, e dovea prendere il doppio di calce. Ce n’era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell’affare di mastro Bestia!
Malpelo è considerato
un animale
19) Abbiamo
già visto come i minatori trattano Malpelo: lo ritengono una bestia, i paragoni
con gli animali sono ricorrenti (tutti lo “schivavano come un can rognoso,
e lo accarezzavano coi piedi quando capitava a tiro”; “era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico”; egli
andava a “rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le bestie sue pari”; “si lasciava caricare meglio dell’asino
grigio”; più oltre, quando vedono che è sopravvissuto alla morte del
padre, i minatori dicono che ha “il cuoio duro a mo’ dei gatti”; e
quando cercano di portarlo via, malgrado lui volesse continuare a scavare
con le unghie, dicono che “mordeva
come un cane arrabbiato”; poi si
dice che “lavorava al par di quei bufali feroci”, e ancora “egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi
dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda
fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi”;
ecc.).
Mastro Misciu è “bestia” e “minchione”
20) Ora
vediamo come trattano suo padre, che già chiamano Bestia e che considerano un “minchione”:
“solo un minchione come mastro Misciu aveva
potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone”;
“era l’asino
da basto di tutta la cava”. Ma è
un “minchione” anche perché è un uomo mite, che rifiuta la violenza e non vuole
litigare: “ei, povero diavolaccio,
lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e
attaccar brighe”. Subisce gli scherni dei compagni di lavoro: “tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa
e se n’erano andati dicendogli di divertirsi
a grattar la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non fare la morte
del sorcio”.
21) Ma
lui, ci dice il narratore, lasciava dire e “andava
facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto, il cottimante!”: “il cottimante!” con tanto di punto esclamativo è chiaramente sarcastico nei confronti del “minchione”, così come lo è il
commento finale del narratore “il bell’affare di mastro Bestia!”,
visto che si chiama “bell’affare” quello che gli ha fatto fare la morte del
sorcio. E altrettanto chiaramente il lettore avverte che la voce narrante è quella dei compagni
di lavoro.
22) Mastro
Misciu è un uomo buono, certamente è anche un ingenuo visto che si è lasciato “gabbare” dal padrone valutando molto
male, a proprio svantaggio, quel lavoro a cottimo. Ma quello che colpisce è che non c’è un minimo di solidarietà fra
quegli sfruttati, fra quei dannati della terra che condividono la stessa
condizione sub-umana; gli stessi compagni di lavoro maltrattano e
deridono mastro Misciu, così come maltrattano suo figlio. La sua stessa morte non desta pietà, ma ancora una volta derisione:
zio Mommu, lo sciancato, che sembra colui che fa opinione alla cava,
comunque il portavoce dei minatori, dice che lui quel lavoro non l’avrebbe
accettato nemmeno “per venti onze” (una
cifra molto superiore a quella accettata da mastro Misciu), e sembra essere
la sua la voce narrante che ironizza sul “bell’affare
di mastro Bestia”; ed è lui che fa ridere tutti quando vede che Malpelo
è sopravvissuto e dice “se tu non
fossi stato Malpelo, non te la saresti scappata, no!”.
Una rappresentazione del popolo non
populista
23) Questa,
oltre alla già detta tecnica narrativa, è l’altra grande novità del
verismo di Verga: una
rappresentazione del popolo non mistificata, non paternalista, non consolatoria.
Gli ultimi nella scala sociale, quali sono i minatori della novella in
questione, sono violenti, privi di
buoni sentimenti, non sono portatori
di valori positivi a contrasto con l’egoismo e la corruzione delle classi alte;
sono animati anche loro, come le classi alte, dalla logica egoistica del proprio utile. Questa è una vera rivoluzione, se si pensa al populismo di tanta
letteratura ottocentesca, soprattutto nella sua versione paternalista, quella
per cui il popolo, rappresentato come sostanzialmente buono ma sfruttato e
ridotto a una vita miserabile, suscita compassione e commozione.
24) A
questa tipologia letteraria apparteneva ancora la novella Nedda. Lo chiarisce bene
il biglietto che una certa contessa Maffei
scrive a Verga dopo aver letto la novella: “La
sua Nedda è un gioiello, l’ho letta
con vera commozione… purtroppo tutto è vero in quel caro racconto, ed è
verissimo che i poveri hanno sollievo, e forse il solo, dalla perdita dei suoi
più cari (dice questo perché nel finale Nedda, quando le muore la figlia
neonata, ringrazia la Madonna per averla sottratta alle sofferenze future)… Quanta
poesia nella miseria e quanta inconscia virtù, e quale obbligo di
soccorrerla rispettandola!”.
Il populismo paternalista di Prati
e Parzanese
25) Ma
per comprendere l’assoluta novità della rappresentazione da parte di Verga
della condizione popolare in Rosso
Malpelo rispetto all’ottocentesco populismo paternalista, basterà leggere
qualche verso di una poesia come Campagnuoli sapienti (1843) di
Giovanni Prati:
Lavoriam,
lavoriam, dolci fratelli,
sin
che molle è la terra e i dì son belli.
Lavoriam,
lavoriam; quanto ci mostra
di
ricco il mondo, è passeggiero spettro;
il
crin sudato è la corona nostra,
il
piccone e la marra il nostro scettro.
(…..)
Lavoriam,
lavoriam; l’ora che avanza
di
lavor sia tessuta e di speranza.
Se questi
ricchi, che ci dan le glebe,
qualche volta
con noi miti non sono,
noi, dolorosa ma
non trista plebe,
rispondiamo con
l’opra e col perdono.
E cosi, nel
silenzio, ammaestrando
l’umile cencio a
rispettar del povero,
noi lavoriam cantando.
26) O
anche qualche verso della poesia Gli operai (1846) di Pietro Paolo Parzanese, ove ancora più evidente è
l’invito, rivolto al popolo lavoratore, ad accettare con gioia la propria
condizione:
Fatichiam,
fratelli. Quando
noi
nascemmo, Iddio ci disse:
«Voi
vivrete lavorando»
e
dal ciel ci benedisse.
Pan
bagnato di sudor
pure
è dono del Signor.
Quel ch’ei
vuole, noi vogliamo;
fatichiamo,
fatichiamo.
Fatichiamo!
Ci tradisce
chi
ci chiama alla rapina,
chi
c’infiamma e invelenisce
al
tumulto e alla rovina, 20
promettendo
un’altra età
senza stenti e
povertà.
Dio ci fece quel
che siamo;
fatichiamo,
fatichiamo.
(….)
Fatichiam!
Né sia chi dica
che de’ ricchi
siam gli schiavi;
più
di noi con la fatica
furon
grandi i padri e gli avi.
Ozio reo, e
nulla più,
ci conduce a
servitù.
Dio ci fece quel
che siamo;
fatichiamo, fatichiamo.
Il giudizio di Asor Rosa
27)
E’ vistosa la differenza fra questa
rappresentazione delle classi popolari e quella che ci dà Verga in Rosso Malpelo. Non ci sono interventi
dell’autore intesi a sollecitare una
lacrima del lettore o a comunicare
l’accettazione, più o meno gioiosa, di quella condizione o a sottolineare i buoni sentimenti di
gente umile ma onesta o, tanto meno, a prospettare la speranza di un cambiamento in meglio di quella
condizione. Mi piace citare una bella espressione di Asor Rosa per
definire tale atteggiamento di Verga:“Il borghese Verga rifiuta la
tazza del consólo (è il banchetto che viene offerto
da parenti ed amici ai famigliari del defunto nei primi giorni del lutto), che la borghesia è sempre così pronta ad
apprestarsi quando s’avvicina al così detto problema sociale: alla protesta
e alla speranza…. egli preferisce la conoscenza e la consapevolezza. Il rifiuto di un’ideologia progressista
costituisce la fonte, non il limite della riuscita verghiana”.
Asor Rosa aggiunge che nell’Ottocento una simile rappresentazione del popolo
non idealizzata, ma brutale nella sua verità, si può trovare solo nei sonetti di Belli. E io aggiungo che la rappresentazione del popolo che ci dà il
conservatore Verga è quanto mai dirompente, proprio perché, senza
pietismi e senza speranze, ci sbatte in faccia la inaccettabilità di
quella condizione, quand’anche
fosse tale, come pensa Malpelo, per una legge di natura.
Malpelo “scolaro” alla
scuola di violenza e “docente” con Ranocchio
28) Ma
torniamo alla novella. Malpelo cresce a questa scuola di violenza, subita sia alla cava che in famiglia: la
madre “non aveva mai avuta una carezza da
lui, e quindi non gliene faceva” (e anche qui c’è una bella stortura
logica…); la sorella non solo “gli faceva
la ricevuta a scapaccioni” ma anche lo aspettava sulla porta con il manico
della scopa perché tutto sporco e malmesso com’era “avrebbe fatto scappare il suo damo (fidanzato) se avesse visto che razza di cognato gli toccava sorbirsi”.
29) Il
narratore dice che dopo la morte del padre Malpelo si incattivisce ancora di
più. Era venuto a lavorare alla cava un ragazzino che non poteva più fare il
manovale perché era caduto da un ponte e si era lussato il femore. Alla cava lo
chiamano Ranocchio e Malpelo
“lo tormentava in cento modi”, “lo batteva senza un motivo e senza
misericordia”, così come picchiava l’asino
grigio che veniva usato per trasportare la rena fuori dalla cava. Nei
confronti di Ranocchio il suo è un
intento pedagogico: gli vuole bene perché con lui Rosso, solitamente
taciturno, parla, si confida, gli cede parte del suo cibo e quando si ammala lo
assiste come può, ma vuole che
capisca che in natura come nella società, come nella cava, vige la legge del
più forte e del tornaconto personale ed è una legge di violenza nei
confronti del più debole; così ammaestra Ranocchio:
To’!
Bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti
voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello!
O
se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici,
― Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! ―
Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo
vedeva puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e
coll’occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e
i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la
bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze non poteva fare
un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n’era uno il quale era caduto tante
volte, che ci aveva due piaghe alle gambe; e Malpelo allora confidava a
Ranocchio: ― L’asino va picchiato,
perchè non può picchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i
piedi e ci strapperebbe la carne a morsi.
Oppure:
― Se ti accade di dar delle busse,
procura di darle più forte che puoi; così coloro su cui cadranno ti terranno
per da più di loro, e ne avrai tanti di meno addosso (….)
La rena è traditora, diceva a Ranocchio sottovoce; somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere.
30) Scrive
un critico (Spinazzola): “Nessun testo letterario dell’Ottocento
italiano ha sostenuto con tanta fermezza che operare il male significa appunto
e solo conformarsi ai dettami della natura”. Malpelo, pur nel suo
analfabetismo, è il più intellettuale dei personaggi verghiani, ha saltato l’infanzia ed è divenuto
(dice Asor Rosa) “il più saggio degli uomini”.
Le tre morti: la morte del Grigio
31) Tre morti
scandiscono la sua “educazione sentimentale”, morti di deboli, di vinti, sopraffatti dai forti: la
morte del padre, la morte di Ranocchio e, in mezzo, quella forse più
significativa, la morte del Grigio,
l’asino bastonato fino all’ultimo, fino a che non muore di vecchiaia e di
stenti. Rosso vuole che Ranocchio veda, nella discarica dove il Grigio è stato
buttato, l’orrendo spettacolo della sua
carcassa spolpata dai cani affamati:
In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara. ― Così si fa, brontolava Malpelo; gli arnesi che non servono più, si buttano lontano. ― Ei andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa bella o brutta; e stava a considerare con l’avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. ― Vedi quella cagna nera, gli diceva, che non ha paura delle tue sassate; non ha paura perchè ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole! Adesso non soffriva più, l’asino grigio, e se ne stava tranquillo colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde e a spolpargli le ossa bianche e i denti che gli laceravano le viscere non gli avrebbero fatto piegar la schiena come il più semplice colpo di badile che solevano dargli onde mettergli in corpo un po’ di vigore quando saliva la ripida viuzza. Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche (le piaghe prodotte dai finimenti di cuoio), e anch’esso quando piegava sotto il peso e gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: Non più! non più! Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche con quella bocca spolpata e tutta denti. E se non fosse mai nato sarebbe stato meglio.
32) L’asino
che “se
ne ride dei colpi e delle guidalesche” diventa il simbolo di una condizione
umana che trova solo nella morte la fine del dolore.
E il passo si conclude con una affermazione
durissima nella sua semplicità, un’affermazione che ricorda il pessimismo
leopardiano e la cosiddetta “sapienza silenica”: “e se non fosse mai nato sarebbe stato meglio”.
La morte di Ranocchio
33) Infine
la morte di Ranocchio mette Malpelo di fronte a una realtà per lui difficile da
comprendere. Ranocchio si è ammalato, ha la febbre, sputa sangue. Malpelo, che
gli vuole bene, lo aiuta come può, “ruba
dei soldi dalla paga della settimana per comprargli del vino e della minestra
calda”, addirittura gli cede “i suoi
calzoni quasi nuovi, che lo coprivano meglio”, i calzoni di fustagno che
gli erano carissimi perché erano quelli del padre morto. Ma Ranocchio si
aggrava, non viene più alla cava, Malpelo lo va a trovare, vede che è nel letto
ormai moribondo ma ciò che gli pare
incomprensibile è che la madre “piangeva
e si disperava come se il suo figliolo fosse di quelli che guadagnano dieci
lire alla settimana”; quindi:
Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui nella notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così, e sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poichè anche la madre di Malpelo s’era asciugati i suoi dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un’altra volta, ed era andata a stare a Cifali; anche la sorella si era maritata e avevano chiusa la casa. D’ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, e quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.
La scelta finale
34) La
scelta finale di Malpelo è quella di accettare un lavoro pericoloso, un lavoro
che, si dice, nessuno avrebbe accettato, nemmeno “per tutto l’oro del mondo”: si trattava di esplorare i cunicoli
sotterranei della cava, con il rischio però di perdersi. Malpelo accetta, ma
non fa più ritorno; non “si seppe più
nulla di lui”
Prese
gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane,
e il fiasco del vino, e se ne andò: nè
più si seppe nulla di lui.
Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, chè hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.
35) Quella
di Malpelo più che una dimostrazione di coraggio sembra una scelta consapevole e volontaria di suicidio; nello
stesso tempo una scelta di
liberazione e un atto di accusa nei confronti di quel mondo in cui
trionfa senza possibilità di scampo la legge violenta del più forte.
36) E
in quel mondo niente cambia. Malpelo scomparso diventa, nella credenza
popolare, il protagonista di una
leggenda nera per cui i ragazzi alla cava hanno paura di incontrarlo, quasi
fosse “coi capelli rossi e gli occhiacci grigi” una mostruosa incarnazione del male.
Verga non denuncia. Il caso
dell’ingegnere a teatro
37) Ma
dunque qual è l’atteggiamento dell’autore, di Verga, nei confronti di questa
realtà? Non ci sono nel testo suoi giudizi, suoi commenti di denuncia della
violenza e della sopraffazione sui più deboli, dello sfruttamento in generale e dello sfruttamento del lavoro minorile in
particolare.
38) C’era
un punto nel testo della prima redazione in cui si intravvedeva un giudizio
polemico dell’autore, cioè di Verga, una
implicita denuncia nei confronti dell’ingegnere che dirigeva i lavori della
cava. Ed è quando vengono a cercarlo perché mastro Misciu è rimasto
schiacciato dalla rena. Così nella prima redazione:
Quella
sera in cui vennero a cercare in tutta fretta l’ingegnere che dirigeva i lavori
della cava, ei si trovava a teatro, e non
avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, perch’era gran dilettante (grande appassionato di teatro). Rossi (la sua compagnia era rinomata)
rappresentava l’Amleto, e c’era un
bellissimo teatro. Sulla porta si vide accerchiato da tutte le femminucce di
Monserrato, che strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran
disgrazia ch’era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse
nulla, e sbatteva i denti quasi fosse in gennaio. L’ingegnere, quando gli
ebbero detto che il caso era accaduto da circa quattro ore, domandò cosa venissero a fare da lui dopo
quattro ore. Nondimeno ci andò con scale e torcie a vento, ma passarono
altre due ore, e fecero sei, e lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo
ci voleva una settimana.
(…)
L’ingegnere se ne tornò a veder seppellire Ofelia; e gli altri minatori si strinsero nelle spalle, e se ne tornarono a casa ad uno ad uno.
39) Nei
dettagli sull’ingegnere a teatro, sulla rappresentazione dell’Amleto, per cui l’ingegnere
avrebbe preferito non muoversi di lì, più
interessato alla sua serata a teatro che alla sorte dei minatori, sentiamo la mano dell’autore o comunque
di un narratore che appartiene al mondo colto della borghesia. Il giudizio
ironicamente polemico si avverte ancora di più nella frase conclusiva: “l’ingegnere
se ne tornò a veder seppellire Ofelia”, cioè l’ingegnere lascia il minatore
sepolto sotto la sabbia e se ne torna al suo Amleto, dove fa in tempo a vedere una sepoltura letteraria, ovvero quella di
Ofelia. Nella redazione del 1897 tutto questo scompare:
L’ingegnere che dirigeva i lavori della cava si trovava a teatro quella sera, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di Malpelo, che aveva fatto la morte del sorcio. Tutte le femminucce di Monserrato strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch’era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti invece, quasi avesse la terzana. L’ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu Bestia doveva già essere bell’e arrivato in Paradiso, andò quasi per scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il buco nella rena.
Della denuncia è rimasto solo un
barlume, laddove si dice che l’ingegnere “non avrebbe cambiato la sua poltrona con un
trono”. La narrazione è più asciutta e ricorrono le espressioni coerenti
con l’artificio della regressione, cioè sentiamo
la voce di un narratore che appartiene al mondo dei minatori; mastro Misciu
“aveva fatto la morte del sorcio”,
sua moglie sbatteva i denti “quasi avesse
la terzana” e “Misciu
Bestia doveva già essere bell’e arrivato in Paradiso”.
Il pessimismo di Verga e la
reazione del lettore
40) Il
pensiero di Verga – lo capiamo da altre novelle, dai romanzi del ciclo de I
vinti ed anche dalle posizioni
politiche conservatrici da lui in più occasioni manifestate (estimatore
di Crispi[1],
nel 1898 elogia la repressione milanese di Bava Beccaris[2],
nel 1912 si dichiara nazionalista e poi interventista nella I guerra mondiale)
– coincide con il pessimismo di
Malpelo: così va il mondo e non
c’è intervento divino né organizzazione umana che possa modificarne nel
profondo le leggi. E dunque lo scrittore verista non può che
rappresentare questo mondo nella sua brutale realtà.
41) Forse
è proprio questo (il suo cupo pessimismo, il suo essere ideologicamente un
conservatore, il suo “rifiuto della speranza populista e delle
suggestioni socialiste”) che – come scrive Asor Rosa – lo porta “alla
rappresentazione più convincente che del mondo popolare sia stata data in
Italia durante tutto l’Ottocento”.
42) Proprio
il suo pessimismo consente a Verga di cogliere
con grande lucidità il negativo del mondo esistente, dove trionfano la
forza e la ricerca del proprio utile, l’oppressione sui più deboli e la
degradazione umana che ne risulta. Verga
non indica alternative, la sua vuole essere una rappresentazione oggettiva
delle cose, ma le cose parlano da sé, le cose gridano, invocano
l’alternativa.
43) Di
fatto, che Verga ne sia consapevole o
no, quanto più il lettore
si addentra in questo mondo fatto di violenza e di sopraffazione, tanto più ne avverte la inaccettabilità,
così come la avverte Malpelo, che pure ne teorizza la immodificabilità,
come di una legge di natura.
Malpelo desidera altro: l’amore,
non la violenza
44) Malpelo avverte,
seppure confusamente, l’esistenza possibile di un mondo diverso.
E’ il mondo del suo rapporto con il padre, l’unico che gli aveva voluto bene,
il padre di cui ricorda le carezze quando indossa i pantaloni di fustagno
che erano stati del padre e che, recuperati dal cadavere, erano stati adattati
per il figlio:
la vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e
li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta,
e le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacchè
rimpiccolirsi le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non ne
aveva volute di scarpe del morto.
Malpelo se li lisciava sulle gambe quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo che solevano accarezzargli i capelli, così ruvidi e rossi com’erano. Quelle scarpe le teneva appese ad un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accanto all’altra, e stava a contemplarsele coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme per delle ore intere, rimugginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.
45) Malpelo
osserva le scarpe del padre “Rimugginando chi sa quali idee in quel
cervellaccio”. Naturalmente questo è il pensiero del narratore (che in
questo caso sarà la madre o la sorella, visto che la scena descritta si svolge
in casa). Ma noi lettori invece capiamo bene che Malpelo sta “rimugginando” sul ricordo del padre,
della violenza che ha subito quell’uomo mite e amorevole, e quindi anche sulla
solitudine cui lui è condannato, ora che ha perso l’unica persona che gli
voleva bene.
Malpelo desidera altro: un lavoro
all’aperto e alla luce
46) Malpelo
desidera un mondo diverso, al
di fuori di quello in cui vive lui; desidera, anche se non lo comprende
appieno, un mondo fondato sull’amore (e non sulla violenza): quel mondo
evocato dal calore dei calzoni di fustagno, ma anche dal pensiero che si potrebbe lavorare diversamente (come
il manovale "cantando sui ponti, in
alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena"; o come
"il contadino, che passa la vita fra
i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in
fondo, e il canto degli uccelli sulla testa").
47) Notate
come qui, quando il narratore tende a
diventare Malpelo stesso, cambiano
i colori che sono dominanti nell’intera novella, cioè il rosso, che è il colore maligno
dei capelli di Malpelo così come della rena della cava e infine dello “sbocco di sangue” di Ranocchio; il grigio, che è il colore degli
occhi di Malpelo così come del pelo dell’asino; il nero della sciara, ovvero del paesaggio su cui si stende la
lava pietrificata, ed anche della cava, che è chiamata il “buco nero”. Ora, nei sogni di Malpelo, compaiono colori chiari e luminosi, l’azzurro, il verde, il turchino,
quasi simbolo di un altro mondo, un
mondo irraggiungibile, fuori dal nero della miniera e dalla violenza del rosso.
Malpelo desidera altro: una madre
come quella di Ranocchio
48) Il
mondo che Malpelo intravvede è anche
quello del paradiso di cui gli parla Ranocchio,
quando nelle sere d’estate, dopo la giornata di lavoro, si stendono a terra
fuori della cava e guardano il cielo stellato (e Ranocchio gli spiega che lassù
c’è il paradiso "dove vanno a stare
i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori");
49) è
il mondo confusamente avvertito nel pianto della madre di Ranocchio per il
figlio morente (e qui Malpelo ha
bisogno di un alibi, per continuare ad accettare il proprio mondo: la
madre di Ranocchio piangeva perché "il
suo figliolo era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei
marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era
malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui, perchè non aveva mai avuto
timore di perderlo.").
Malpelo sa individuare i
responsabili di quella condizione
50) Malpelo sa tutto, ha
capito tutto, è davvero il più saggio degli uomini.
Sa che fra gli uomini, a tutti i livelli sociali, anche al livello degli
ultimi, dei “dannati della terra”, vige la legge del più forte e del proprio
tornaconto personale e sa che per i buoni, come suo padre, non c’è scampo.
Ma sa anche individuare con chiarezza
i responsabili della violenza subita da suo padre: i minatori, il padrone, lo
Sciancato:
Certo ei provava uno strano diletto a
rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto
subire a suo padre, e del modo in cui l’avevano lasciato crepare. E quando era
solo borbottava: – Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché egli non faceva così! – E
una volta che passava il padrone,
accompagnandolo con un’occhiata torva: – È
stato lui! per trentacinque tarì! – E un’altra volta, dietro allo Sciancato: – E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho
udito, quella sera! –
E li indica al
lettore
51) E
dunque quest’opera, come dicevo all’inizio, è uno sconvolgente capolavoro non solo perché rappresenta senza
pietismi e senza speranze consolatorie la verità della condizione popolare, ma anche perché riesce a comunicare con
forza la inaccettabilità di tale condizione. Il lettore non può non
pensare alla responsabilità degli uomini, non della natura, quando si vede l’ingegnere più interessato al
teatro che alla morte di un minatore, o il padrone in più occasioni (ad esempio, quando è contento che Ranocchio malato non venga
più alla cava “perché oramai era più
d’impiccio che d’altro”), o i minatori
che scherniscono mastro Misciu e
maltrattano suo figlio. E infine il
lettore non può non avvertire, insieme a Malpelo, il bisogno di un mondo diverso
che sia la negazione di quel mondo in atto.
Il
pessimismo di Verga e Fantasticheria
52) Ma
quel mondo diverso è pensabile e
desiderabile, come lo pensa e lo desidera Malpelo, ma è irrealizzabile.
E qui abbiamo a che fare con il duro pessimismo di Verga, un pessimismo che
– per quanto riguarda la migliorabilità della condizione umana – percorre tutta
la sua opera.
53) L’autore che ci dà un tale
rappresentazione della disumanità del mondo in atto non crede nella possibilità
di un cambiamento. Anzi, crede che ogni tentativo di cambiamento sia velleitario e si risolva
inevitabilmente in una sconfitta.
54) C’è
una novella, Fantasticheria (una novella che è una sorta di anticipazione de
I Malavoglia) in cui si teorizza la
necessità per i deboli, gli ultimi, i derelitti, di “stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita”, di restare attaccati alle proprie radici,
ai luoghi e ai modi in cui hanno sempre vissuto, così come l’ostrica sta
attaccata allo scoglio, perché
allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui…. Per le ostriche l’argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio.
La
“brama di meglio” non solo travolge
chi l’ha perseguita, ma come una
condanna biblica si ripercuote rovinosamente anche sui consanguinei, su “i suoi più prossimi”.
Il
bell’affare di mastro Bestia!
55) Se
c’è un’espressione che può
sintetizzare il pessimismo verghiano è quella usata sarcasticamente dai
minatori a proposito della morte di mastro Misciu: “Il bell’affare di mastro Bestia!”.
Mastro Bestia pensava di migliorare la propria condizione con quel lavoro preso
a cottimo, e infatti a questo pensava – dice il testo – mentre picconava il
pilastro. Ma quell’affare si rivela in realtà la sua rovina.
“il bell’affare!” ne I Malavoglia e nel Mastro don Gesualdo
56) Ma
altrettanto si potrebbe dire per l’affare affrontato dai Malavoglia con il
trasporto dei lupini presi a credito. Anche quello era un tentativo di
migliorare la propria condizione e si rivela sarcasticamente un “bell’affare!”, in quanto segna l’inizio
della rovina per i Malavoglia, col
naufragio della Provvidenza e il conseguente pignoramento della casa del
nespolo.
57) E
sempre in questo senso è un “bell’affare!”
anche quello di mastro don Gesualdo, che vuole
migliorare la propria condizione sposando una nobile come Bianca Trao:
quel matrimonio si rivela in realtà l’inizio della sua rovina. L’aristocrazia
lo riterrà sempre un corpo estraneo, la moglie non lo ama, la stessa figlia (in
realtà non figlia sua, ma di una relazione di Bianca con un cugino) ricambia il
suo amore vergognandosi di lui. Gesualdo, ormai vecchio e sempre più solo,
nel palazzo di Palermo dove l’hanno fatto trasferire, lontano dalle sue terre,
vede il proprio patrimonio a poco a poco dissipato dalla figlia e dal genero.
Si ammala di cancro e attende la morte nel suo letto voltato contro il muro,
fra medici che lo trattano come un oggetto e servi che non lo rispettano.
“il bell’affare!” nella
novella Libertà
58) Mi
piace concludere con un riferimento alla novella Libertà, che è la ricostruzione
di una vicenda storica, ovvero dei fatti
di Bronte, quando, in occasione della spedizione dei Mille, i contadini
(chiamati i “berretti”) insorsero e uccisero non pochi galantuomini (chiamati i
“cappelli”). Si ribellavano così ad una secolare oppressione e, peraltro
sollecitati da un decreto dello stesso Garibaldi che invitava alla
distribuzione delle terre demaniali, intendevano impadronirsi di un po’ di
quella terra che avevano lavorato per tutta la vita agli ordini dei padroni.
59) Ebbene,
anche questa ribellione si rivela un “bell’affare!” nel senso sarcastico
che abbiamo detto. Gli stessi ribelli, dopo la giornata di violenza contro i galantuomini, non sanno che fare,
diffidano l’uno dell’altro, sospettano
che niente cambierà e aspettano
rassegnati il generale “che veniva a far giustizia”, “quello che faceva tremare la gente”.
Eppure, per fermare la colonna che saliva verso Bronte “sarebbe bastato rotolare
dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse”. Quel
generale era Bixio. Leggo il passo
che lo riguarda:
Si
vedevano le camice rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone,
verso il paesetto; sarebbe bastato
rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne
strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe
lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei
giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti,
solo.
Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono… Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schiopettate in fila come i mortaletti della festa.
60) E’
una novella molto controversa per il modo in cui Verga ricostruisce il fatto
storico. Mi limito a ricordare la
critica di Sciascia, che ha accusato Verga di aver voluto screditare
gli insorti, presentando, ad esempio, Bixio,
che era famoso per essere violento e
spietato, ora come una figura
epica (quel generale piccino
sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo), ora come un buon padre (mise a dormire i suoi ragazzi come un padre); tacendo
della fucilazione dell’avvocato Lombardo, un intellettuale liberale non
responsabile della feroce rivolta e delle uccisioni; e nominando fra i fucilati il “nano”, quando invece si trattava
del matto del paese (ed era anche questo un modo per mettere in
buona luce Bixio, visto che in genere si
considera il “matto” come sacro e il “nano” invece come maligno e cattivo).
La conclusione della vicenda
61) Ma
vediamo la conclusione della vicenda:
Dopo
arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati
sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo
mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco
sulla scranna, e dicendo ahi! ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo
che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a
coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. (…) Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima.
I galantuomini non potevano lavorare le
loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i
galantuomini. Fecero la pace. L’orfano dello speziale rubò la moglie a Neli
Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva
ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie, e
temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all’uscire dal carcere, egli
ripeteva: — Sta tranquilla che non ne
esce più. — Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche
vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o
la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari
coi galantuomini, dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all’aria ci vanno i
cenci.
Il
processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il
sole. Sicchè quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta
che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano
accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per
vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia — chè capponi
davvero si diventava là dentro! e Neli
Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s’era imparentato
a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. — Voi come
vi chiamate? — E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che
aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano fra le chiacchiere, coi larghi maniconi
pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela
subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici
sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore.
Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che
sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano scappata
bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando
avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro
facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano
pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro
capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari
degli accusati, e disse: — Sul mio onore e sulla mia coscienza!....
Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: — Dove mi conducete? — In galera? — O perchè? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!....
62) A
me interessa notare come anche qui torni
il pessimismo di Verga circa la possibilità di cambiare in meglio – in
questo caso con la violenza rivoluzionaria – la propria condizione sociale
(“Tutti gli altri in paese erano tornati
a fare quello che facevano prima”. Segue una specie di sintesi del
famoso apologo di Menenio Agrippa:
“I galantuomini non potevano lavorare le
loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i
galantuomini”).
63) Ma,
di più, torna la convinzione di Verga secondo cui il tentativo di cambiare in meglio la propria condizione si risolve
inevitabilmente in un “bell’affare!”,
ovvero in una rovinosa catastrofe. L’unico che non l’ha capito è il
carbonaio, che “mentre tornavano a
mettergli le manette, balbettava: — Dove mi conducete? — In galera? — O perchè?
Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la
libertà!....”
[1]
Nel 1894 represse con durezza il movimento contadino dei Fasci siciliani e
determinò lo scioglimento del Partito socialista dei lavoratori.
[2]
Nel 1898 fece sparare contro una manifestazione popolare che protestava per
l’aumento del prezzo del pane: 83 morti, secondo il governo, 300 secondo
l’opposizione.
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