VERGA (lezioni)

 

Verga verista

Premessa

1)    Ho scelto di parlare specificamente di Verga verista, perché, come sapete, prima della cosiddetta “conversione” al verismo Verga aveva scritto altri romanzi di ispirazione tardo romantica (Una peccatrice, Storia di una capinera, Eva, Eros, Tigre reale), storie di amori fallimentari, romanzi che in qualche modo lui rinnegherà quando dirà di se stesso sono stato il poeta delle duchesse”, ovvero il narratore di vicende frivole e superficiali.

2)    Come è noto, il verismo di Verga si realizza soprattutto nelle due raccolte di novelle (Vita dei campi e Novelle rusticane) e nei due romanzi del ciclo dei vinti (I Malavoglia e Mastro don Gesualdo). Dico subito però che io mi sono soffermato in particolare e dettagliatamente su una novella, Rosso Malpelo, che non solo è esemplare per quanto riguarda la tecnica narrativa, che qualifica perfettamente il verismo di Verga, ma che a me sembra, ogni volta che la prendo in mano, uno straordinario capolavoro.

Insuccesso de I Malavoglia e successo di Storia di una capinera

3)    Aggiungo anche che il successo del Verga verista fu piuttosto tardivo, quelle opere, con quella tecnica narrativa, non andavano incontro al gusto del pubblico, tant’è che lui stesso scriveva all’amico Capuana a proposito dei Malavoglia:

I Malavoglia hanno fatto fiasco, fiasco pieno e completo (…). Il peggio è che io non sono convinto del fiasco e che se dovessi tornare a scrivere quel libro lo farei come l’ho fatto. Ma in Italia l’analisi più o meno esatta senza il pepe della scena drammatica non va e, vedi, ci vuole tutta la tenacia della mia convinzione per non ammannire i manicaretti che piacciono al pubblico per poter poi ridergli in faccia. 

4)    Al contrario, un grande successo l’aveva avuto Storia di una capinera. Era un romanzo epistolare in cui la protagonista (una fanciulla destinata al convento, contro la sua volontà) confida ad un’amica i suoi tormenti, in particolare l’amore concepito per un amico di famiglia in occasione di una vacanza in campagna; ovviamente l’amore è irrealizzabile, l’amico si sposa con un’altra e la fanciulla se ne tormenta fino alla morte.

5)    Si trattava di una patetica storia d’amore, e il successo si spiega perché il patetismo andava incontro ai gusti del pubblico, ma anche per un’altra ragione. Si era al tempo del contrasto fra il neonato Regno d’Italia e gli ordini religiosi (il romanzo fu pubblicato nel 1871), e dunque la Storia di una capinera fu interpretata come la denuncia di una piaga sociale, quella delle monacazioni forzate.

Il naturalismo francese e l’equivoco di Nedda

6)    Verso la metà degli anni ’70 si diffondono in Italia, in particolare nell’ambiente milanese dove Verga si era trasferito nel 1872, le teorie del naturalismo francese e i primi romanzi di Zola. Verga se ne appassiona, così come i suoi amici Felice Cameroni e Luigi Capuana. Si appassionano alla novità di una narrativa che adotta il metodo scientifico nella rappresentazione delle vicende umane, per cui lo scrittore non interpreta le vicende dal proprio punto di vista, ma le osserva con il distacco dello scienziato.

7)    Del 1874 è la novella Nedda, a lungo ritenuta il primo esempio della narrativa verista di Verga, in quanto nuova è l’ambientazione e nuovi sono i personaggi: non gli ambienti e i personaggi mondani dei precedenti romanzi, ma la Sicilia contadina e la vita miserabile degli ultimi. Nedda è infatti una raccoglitrice di olive, che, rimasta sola e incinta dopo la morte del compagno, è evitata da tutti, non trova più lavoro, non riesce nemmeno ad allattare la bimba neonata che muore di fame.

8)    In realtà non è in questa novella che si può riconoscere l’inizio del verismo verghiano, ma, come vedremo, nella novella Rosso Malpelo, pubblicata nel 1878. Il verismo infatti, a differenza del naturalismo di Zola (che si proponeva di osservare scientificamente i comportamenti umani, in quanto determinati dai fattori di race, milieu, moment) si manifesta con l’adozione della cosiddetta “poetica dell’impersonalità”, la quale, a sua volta, si realizza con una tecnica narrativa totalmente nuova.

La poetica dell’impersonalità

9)    Per capire che cosa intenda Verga per “poetica dell’impersonalità”, basta leggere un passo della lettera che lui scrive all’amico Salvatore Farina (poi premessa alla novella L’amante di Gramigna):

Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto…. Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. (….) Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sè, aver maturato ed esser sòrta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d’origine.

10)    Ma allora come si realizza questa impersonalità per cui “la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile” e l’opera “sembrerà essersi fatta da sé”, “senza serbare alcun punto di contatto col suo autore”? Con la cosiddetta “eclissi dell’autore” o “artificio della regressione”.

Da Nedda a Rosso Malpelo

11)    Nella fase pre-verista, il patto narrativo è sempre tale per cui il narratore è interno alla vicenda narrata (ne è partecipe o testimone). In Nedda (1874) abbiamo un narratore omnisciente, tutto esterno rispetto ai fatti e ai personaggi, che infatti non appartengono al mondo, sociale e culturale, di Verga: la convenzione è che il narratore, che fuma il sigaro in poltrona davanti al caminetto, ricorda un altro fuoco, attorno a cui ballavano le raccoglitrici di olive (e quindi comincia a narrare, senza dirci chiaramente come egli conosca la storia); questo comporta un atteggiamento di superiorità (paternalistico) nei confronti di quel mondo, che si esplica in commenti, giudizi moralistici, magari attraverso una descrizione, un’esclamazione, un aggettivo (ad esempio, la chiama la “povera ragazza” o la “povera madre”) ed un sottinteso rapporto di complicità con il lettore, implicitamente riconosciuto delle stesso livello del narratore, e chiamato a provarne gli stessi sentimenti, di commozione e di commiserazione per quel mondo di derelitti.

12)    La vera novità narrativa compare con Rosso Malpelo (1878). Si tratta di una novella straordinaria, di uno sconvolgente capolavoro, sia per la tecnica narrativa, sia per la rappresentazione, assolutamente priva di elementi consolatori, di un mondo miserabile, violento, sub-umano. Per chi non conoscesse la novella, si tratta della vicenda di un ragazzo che lavora, per una miserissima paga, presso una cava di rena ed è chiamato così perché ha i capelli rossi e questi, secondo una credenza popolare, sono indice di cattiveria.

L’ “eclissi dell’autore” o “artificio della regressione”

13)    Leggiamo l’incipit della novella:

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. 

Subito, la frase iniziale ci lascia perplessi: dire che Malpelo ha i capelli rossi perché è “malizioso e cattivo” è un’affermazione assolutamente priva di logica, un’affermazione che dà per scontato un nesso causale assurdo, proprio di una mentalità ignorante e superstiziosa. Pertanto non può essere dell’autore, Verga, che è colto, non ignorante né superstizioso. E dunque quell’affermazione sarà propria del mondo cui appartiene il ragazzo, il mondo dei minatori e dei popolani, ignoranti e superstiziosi. Ma non è detto, a margine dell’affermazione, che così dicevano i minatori e i paesani. Si tratta del cosiddetto “discorso indiretto libero” (o “erlebte Rede”, come lo chiamò Spitzer, ovvero “discorso rivissuto”): cioè non è un discorso diretto (dei minatori, dei popolani) perché non è introdotto dalle virgolette; è un discorso indiretto, ma non segnalato dalle locuzioni che dovrebbero segnalarlo, del tipo “come dicevano”, “così si diceva” e simili. La frase sta lì, secca e indiscutibile, è la verità enunciata dal narratore, su cui l’autore Verga non interviene a giudicarla e a contestarla. L’autore si è “eclissato”, o è “regredito” al livello del mondo di cui si narra. Non è lui che narra, sono gli stessi personaggi di quel mondo che narrano.

14)    Se poi confrontiamo quell’incipit con quei nessi causali assurdi – che pertanto non possono essere dell’autore Verga – con un passo di Nedda, vediamo con chiarezza la differenza. A un certo punto, poiché Nedda si rifiuta di portare la neonata alla Ruota, si dice: “Le comari la chiamavano sfacciata, perché non era stata ipocrita e perché non era snaturata”.  Qui la spiegazione introdotta dai “perché” è proprio dell’autore Verga, che interviene a ristabilire la verità, difendendo la scelta di Nedda dalle accuse delle comari. E’ dunque ben diverso da quell’assurdo “perché” che associa i capelli rossi di Malpelo alla cattiveria.

L’incipit de I Malavoglia

15)    Guardate anche l’incipit dei Malavoglia, il primo grande romanzo verista di Verga: “Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina e ad Aci Castello…”. Qui non c’è una stortura logica, ma si avverte subito che chi sta narrando non è l’autore Verga, ma qualcuno che appartiene al mondo di cui si narra, qualcuno che per dire che un tempo dei Malavoglia ce n’erano tanti non ha altri termini di paragone che “i sassi della strada vecchia di Trezza, qualcuno cioè che non ha altri riferimenti che il paese cui appartiene; qualcuno il cui universo è ridotto al piccolo mondo che conosce, visto che per caratterizzare meglio quella moltitudine dice che dei Malavoglia “ce n’erano persino ad Ognina e ad Aci Castello” (dove risalta molto significativamente quel “persino”, visto che Ognina ed Aci Castello distano pochi chilometri da Aci Trezza).

16)    In questo modo Verga realizza quella “impersonalità” cui diceva di aspirare nella lettera al Farina, quella tecnica per cui “la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile” e l’opera “sembrerà essersi fatta da sé”, “senza serbare alcun punto di contatto col suo autore”.

I narratori nella prima pagina

17)    Se ora torniamo a Rosso Malpelo e procediamo nella lettura, possiamo non solo vedere come è considerato e trattato il ragazzo, ma anche riconoscere via via chi sono i narratori che narrano attraverso il discorso indiretto libero, possiamo cioè riconoscere che c’è, come è stato detto particolarmente per i Malavoglia, una narrazione corale:

Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.

Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi; nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni. (Qui si avverte che sono la madre o la sorella che narrano)

Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, (qui ci pare di sentire la voce del padrone della cava) e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.

Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le bestie sue pari; (questi sembrano essere le parole dei minatorii) e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava, fra i calci e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella s’era fatta sposa, e aveva altro pel capo: nondimeno era conosciuto come la bettonica (un’erba diffusa) per tutto Monserrato e la Carvana, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perchè mastro Misciu, suo padre, era morto nella cava. (qui si avverte che sono i paesani a narrare. E si potrebbe continuare). 

La morte di mastro Misciu

18)    Leggiamo ora l’episodio della morte del padre di Malpelo, mastro Misciu, detto Bestia e, tralasciando le osservazioni sulla tecnica narrativa, soffermiamoci sul contenuto, sul senso dell’episodio:

Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo (cioè, si valuta l’entità del lavoro e si stabilisce il compenso), di un pilastro lasciato altra volta per sostegno dell’ingrottato, e dacché non serviva più, s’era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone (narrano i minatori, i compagni di lavoro); perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto di tutta la cava (notare: è paragonato all’asino lui come poco prima il figlio Malpelo). Ei, povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio, come se quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com’era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: – Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre -.

Invece nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttoché fosse una buona bestia. Zio Mommu lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l’avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è pericolo nelle cave, e se si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare l’avvocato (narra mastro Misciu).

Dunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l’avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n’erano andati dicendogli di divertirsi a grattar la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non fare la morte del sorcio. Ei, che c’era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli «ah! ah!» dei suoi bei colpi di zappa in pieno, e intanto borbottava:

– Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata! – e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto, il cottimante!

(…) Il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco, come se avesse il mal di pancia, e dicesse ohi! anch’esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino.

Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: – Tirati in là! – oppure: – Sta attento! Bada se cascano dall’alto dei sassolini o della rena grossa, e scappa! – Tutt’a un tratto, punf! Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché fa pancia e si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense.

 

            Andarono a chiamare l’ingegnere che dirigeva i lavori della cava (su questo episodio torneremo più avanti), ma non riuscirono nemmeno a trovare il corpo di mastro Misciu, tanta era la rena che lo aveva ricoperto. E così si conclude la narrazione:

 

Altro che quaranta carra! Lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana. Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani, e dovea prendere il doppio di calce. Ce n’era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell’affare di mastro Bestia!

Malpelo è considerato un animale

19)    Abbiamo già visto come i minatori trattano Malpelo: lo ritengono una bestia, i paragoni con gli animali sono ricorrenti (tutti lo “schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi quando capitava a tiro”; era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico”; egli andava a rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le bestie sue pari”; “si lasciava caricare meglio dell’asino grigio”; più oltre, quando vedono che è sopravvissuto alla morte del padre, i minatori dicono che ha “il cuoio duro a mo’ dei gatti”; e quando cercano di portarlo via, malgrado lui volesse continuare a scavare con le unghie, dicono che “mordeva come un cane arrabbiato”; poi si dice che “lavorava al par di quei bufali feroci”, e ancora “egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi”; ecc.).

Mastro Misciu è “bestia” e “minchione

20)    Ora vediamo come trattano suo padre, che già chiamano Bestia e che considerano un “minchione”:solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone”; era l’asino da basto di tutta la cava”. Ma è un “minchione” anche perché è un uomo mite, che rifiuta la violenza e non vuole litigare: “ei, povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe”. Subisce gli scherni dei compagni di lavoro: “tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n’erano andati dicendogli di divertirsi a grattar la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non fare la morte del sorcio”.

21)    Ma lui, ci dice il narratore, lasciava dire e “andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto, il cottimante!”: “il cottimante!con tanto di punto esclamativo è chiaramente sarcastico nei confronti del “minchione”, così come lo è il commento finale del narratore “il bell’affare di mastro Bestia!, visto che si chiama “bell’affare” quello che gli ha fatto fare la morte del sorcio. E altrettanto chiaramente il lettore avverte che la voce narrante è quella dei compagni di lavoro.

22)    Mastro Misciu è un uomo buono, certamente è anche un ingenuo visto che si è lasciato “gabbare” dal padrone valutando molto male, a proprio svantaggio, quel lavoro a cottimo. Ma quello che colpisce è che non c’è un minimo di solidarietà fra quegli sfruttati, fra quei dannati della terra che condividono la stessa condizione sub-umana; gli stessi compagni di lavoro maltrattano e deridono mastro Misciu, così come maltrattano suo figlio. La sua stessa morte non desta pietà, ma ancora una volta derisione: zio Mommu, lo sciancato, che sembra colui che fa opinione alla cava, comunque il portavoce dei minatori, dice che lui quel lavoro non l’avrebbe accettato nemmeno “per venti onze” (una cifra molto superiore a quella accettata da mastro Misciu), e sembra essere la sua la voce narrante che ironizza sul “bell’affare di mastro Bestia”; ed è lui che fa ridere tutti quando vede che Malpelo è sopravvissuto e dice “se tu non fossi stato Malpelo, non te la saresti scappata, no!”.

Una rappresentazione del popolo non populista

23)    Questa, oltre alla già detta tecnica narrativa, è l’altra grande novità del verismo di Verga: una rappresentazione del popolo non mistificata, non paternalista, non consolatoria. Gli ultimi nella scala sociale, quali sono i minatori della novella in questione, sono violenti, privi di buoni sentimenti, non sono portatori di valori positivi a contrasto con l’egoismo e la corruzione delle classi alte; sono animati anche loro, come le classi alte, dalla logica egoistica del proprio utile. Questa è una vera rivoluzione, se si pensa al populismo di tanta letteratura ottocentesca, soprattutto nella sua versione paternalista, quella per cui il popolo, rappresentato come sostanzialmente buono ma sfruttato e ridotto a una vita miserabile, suscita compassione e commozione.

24)    A questa tipologia letteraria apparteneva ancora la novella Nedda. Lo chiarisce bene il biglietto che una certa contessa Maffei scrive a Verga dopo aver letto la novella: “La sua Nedda è un gioiello, l’ho letta con vera commozione… purtroppo tutto è vero in quel caro racconto, ed è verissimo che i poveri hanno sollievo, e forse il solo, dalla perdita dei suoi più cari (dice questo perché nel finale Nedda, quando le muore la figlia neonata, ringrazia la Madonna per averla sottratta alle sofferenze future)Quanta poesia nella miseria e quanta inconscia virtù, e quale obbligo di soccorrerla rispettandola!”.  

Il populismo paternalista di Prati e Parzanese

25)    Ma per comprendere l’assoluta novità della rappresentazione da parte di Verga della condizione popolare in Rosso Malpelo rispetto all’ottocentesco populismo paternalista, basterà leggere qualche verso di una poesia come Campagnuoli sapienti (1843) di Giovanni Prati:

Lavoriam, lavoriam, dolci fratelli,

sin che molle è la terra e i dì son belli.

Lavoriam, lavoriam; quanto ci mostra

di ricco il mondo, è passeggiero spettro;

il crin sudato è la corona nostra,

il piccone e la marra il nostro scettro.

(…..)

Lavoriam, lavoriam; l’ora che avanza

di lavor sia tessuta e di speranza.

Se questi ricchi, che ci dan le glebe,

qualche volta con noi miti non sono,

noi, dolorosa ma non trista plebe,

rispondiamo con l’opra e col perdono.

E cosi, nel silenzio, ammaestrando

l’umile cencio a rispettar del povero,

noi lavoriam cantando. 

26)    O anche qualche verso della poesia Gli operai (1846) di Pietro Paolo Parzanese, ove ancora più evidente è l’invito, rivolto al popolo lavoratore, ad accettare con gioia la propria condizione:

Fatichiam, fratelli. Quando

noi nascemmo, Iddio ci disse:

«Voi vivrete lavorando»

e dal ciel ci benedisse.

Pan bagnato di sudor        

pure è dono del Signor.

Quel ch’ei vuole, noi vogliamo;

fatichiamo, fatichiamo.

Fatichiamo! Ci tradisce

chi ci chiama alla rapina,

chi c’infiamma e invelenisce

al tumulto e alla rovina,         20

promettendo un’altra età

senza stenti e povertà.

Dio ci fece quel che siamo;

fatichiamo, fatichiamo.

(….)

Fatichiam! Né sia chi dica

che de’ ricchi siam gli schiavi;

più di noi con la fatica       

furon grandi i padri e gli avi.

Ozio reo, e nulla più,

ci conduce a servitù.

Dio ci fece quel che siamo;

fatichiamo, fatichiamo.  

Il giudizio di Asor Rosa

27)    E’ vistosa la differenza fra questa rappresentazione delle classi popolari e quella che ci dà Verga in Rosso Malpelo. Non ci sono interventi dell’autore intesi a sollecitare una lacrima del lettore o a comunicare l’accettazione, più o meno gioiosa, di quella condizione o a sottolineare i buoni sentimenti di gente umile ma onesta o, tanto meno, a prospettare la speranza di un cambiamento in meglio di quella condizione. Mi piace citare una bella espressione di Asor Rosa per definire tale atteggiamento di Verga:Il borghese Verga rifiuta la tazza del consólo (è il banchetto che viene offerto da parenti ed amici ai famigliari del defunto nei primi giorni del lutto), che la borghesia è sempre così pronta ad apprestarsi quando s’avvicina al così detto problema sociale: alla protesta e alla speranza…. egli preferisce la conoscenza e la consapevolezza. Il rifiuto di un’ideologia progressista costituisce la fonte, non il limite della riuscita verghiana. Asor Rosa aggiunge che nell’Ottocento una simile rappresentazione del popolo non idealizzata, ma brutale nella sua verità, si può trovare solo nei sonetti di Belli. E io aggiungo che la rappresentazione del popolo che ci dà il conservatore Verga è quanto mai dirompente, proprio perché, senza pietismi e senza speranze, ci sbatte in faccia la inaccettabilità di quella condizione, quand’anche fosse tale, come pensa Malpelo, per una legge di natura.

Malpelo “scolaro” alla scuola di violenza e “docente” con Ranocchio

28)    Ma torniamo alla novella. Malpelo cresce a questa scuola di violenza, subita sia alla cava che in famiglia: la madre “non aveva mai avuta una carezza da lui, e quindi non gliene faceva” (e anche qui c’è una bella stortura logica…); la sorella non solo “gli faceva la ricevuta a scapaccioni” ma anche lo aspettava sulla porta con il manico della scopa perché tutto sporco e malmesso com’era “avrebbe fatto scappare il suo damo (fidanzato) se avesse visto che razza di cognato gli toccava sorbirsi”.

29)    Il narratore dice che dopo la morte del padre Malpelo si incattivisce ancora di più. Era venuto a lavorare alla cava un ragazzino che non poteva più fare il manovale perché era caduto da un ponte e si era lussato il femore. Alla cava lo chiamano Ranocchio e Malpelo “lo tormentava in cento modi”, “lo batteva senza un motivo e senza misericordia”, così come picchiava l’asino grigio che veniva usato per trasportare la rena fuori dalla cava. Nei confronti di Ranocchio il suo è un intento pedagogico: gli vuole bene perché con lui Rosso, solitamente taciturno, parla, si confida, gli cede parte del suo cibo e quando si ammala lo assiste come può, ma vuole che capisca che in natura come nella società, come nella cava, vige la legge del più forte e del tornaconto personale ed è una legge di violenza nei confronti del più debole; così ammaestra Ranocchio:

            To’! Bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello!

            O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici, ― Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! ― Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll’occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n’era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe; e Malpelo allora confidava a Ranocchio: ― L’asino va picchiato, perchè non può picchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi.

           Oppure: ― Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così coloro su cui cadranno ti terranno per da più di loro, e ne avrai tanti di meno addosso (….)

            La rena è traditora, diceva a Ranocchio sottovoce; somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere.

30)    Scrive un critico (Spinazzola): Nessun testo letterario dell’Ottocento italiano ha sostenuto con tanta fermezza che operare il male significa appunto e solo conformarsi ai dettami della natura”. Malpelo, pur nel suo analfabetismo, è il più intellettuale dei personaggi verghiani, ha saltato l’infanzia ed è divenuto (dice Asor Rosa) “il più saggio degli uomini”.

Le tre morti: la morte del Grigio

31)    Tre morti scandiscono la sua “educazione sentimentale”, morti di deboli, di vinti, sopraffatti dai forti: la morte del padre, la morte di Ranocchio e, in mezzo, quella forse più significativa, la morte del Grigio, l’asino bastonato fino all’ultimo, fino a che non muore di vecchiaia e di stenti. Rosso vuole che Ranocchio veda, nella discarica dove il Grigio è stato buttato, l’orrendo spettacolo della sua carcassa spolpata dai cani affamati:

           In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara. ― Così si fa, brontolava Malpelo; gli arnesi che non servono più, si buttano lontano. ― Ei andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa bella o brutta; e stava a considerare con l’avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. ― Vedi quella cagna nera, gli diceva, che non ha paura delle tue sassate; non ha paura perchè ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole! Adesso non soffriva più, l’asino grigio, e se ne stava tranquillo colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde e a spolpargli le ossa bianche e i denti che gli laceravano le viscere non gli avrebbero fatto piegar la schiena come il più semplice colpo di badile che solevano dargli onde mettergli in corpo un po’ di vigore quando saliva la ripida viuzza. Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche (le piaghe prodotte dai finimenti di cuoio), e anch’esso quando piegava sotto il peso e gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: Non più! non più! Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche con quella bocca spolpata e tutta denti. E se non fosse mai nato sarebbe stato meglio.

32)    L’asino che se ne ride dei colpi e delle guidalesche” diventa il simbolo di una condizione umana che trova solo nella morte la fine del dolore. E il passo si conclude con una affermazione durissima nella sua semplicità, un’affermazione che ricorda il pessimismo leopardiano e la cosiddetta “sapienza silenica”: “e se non fosse mai nato sarebbe stato meglio”.

La morte di Ranocchio

33)    Infine la morte di Ranocchio mette Malpelo di fronte a una realtà per lui difficile da comprendere. Ranocchio si è ammalato, ha la febbre, sputa sangue. Malpelo, che gli vuole bene, lo aiuta come può, “ruba dei soldi dalla paga della settimana per comprargli del vino e della minestra calda”, addirittura gli cede “i suoi calzoni quasi nuovi, che lo coprivano meglio”, i calzoni di fustagno che gli erano carissimi perché erano quelli del padre morto. Ma Ranocchio si aggrava, non viene più alla cava, Malpelo lo va a trovare, vede che è nel letto ormai moribondo ma ciò che gli pare incomprensibile è che la madre “piangeva e si disperava come se il suo figliolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire alla settimana”; quindi:

           Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui nella notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così, e sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poichè anche la madre di Malpelo s’era asciugati i suoi dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un’altra volta, ed era andata a stare a Cifali; anche la sorella si era maritata e avevano chiusa la casa. D’ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, e quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.

La scelta finale

34)    La scelta finale di Malpelo è quella di accettare un lavoro pericoloso, un lavoro che, si dice, nessuno avrebbe accettato, nemmeno “per tutto l’oro del mondo”: si trattava di esplorare i cunicoli sotterranei della cava, con il rischio però di perdersi. Malpelo accetta, ma non fa più ritorno; non “si seppe più nulla di lui

      Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, e il fiasco del vino, e se ne andò: nè più si seppe nulla di lui.

      Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, chè hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.

35)    Quella di Malpelo più che una dimostrazione di coraggio sembra una scelta consapevole e volontaria di suicidio; nello stesso tempo una scelta di liberazione e un atto di accusa nei confronti di quel mondo in cui trionfa senza possibilità di scampo la legge violenta del più forte.

36)    E in quel mondo niente cambia. Malpelo scomparso diventa, nella credenza popolare, il protagonista di una leggenda nera per cui i ragazzi alla cava hanno paura di incontrarlo, quasi fosse “coi capelli rossi e gli occhiacci grigi” una mostruosa incarnazione del male.

Verga non denuncia. Il caso dell’ingegnere a teatro

37)    Ma dunque qual è l’atteggiamento dell’autore, di Verga, nei confronti di questa realtà? Non ci sono nel testo suoi giudizi, suoi commenti di denuncia della violenza e della sopraffazione sui più deboli, dello sfruttamento in generale e dello sfruttamento del lavoro minorile in particolare.

38)    C’era un punto nel testo della prima redazione in cui si intravvedeva un giudizio polemico dell’autore, cioè di Verga, una implicita denuncia nei confronti dell’ingegnere che dirigeva i lavori della cava. Ed è quando vengono a cercarlo perché mastro Misciu è rimasto schiacciato dalla rena. Così nella prima redazione:

      Quella sera in cui vennero a cercare in tutta fretta l’ingegnere che dirigeva i lavori della cava, ei si trovava a teatro, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, perch’era gran dilettante (grande appassionato di teatro). Rossi (la sua compagnia era rinomata) rappresentava l’Amleto, e c’era un bellissimo teatro. Sulla porta si vide accerchiato da tutte le femminucce di Monserrato, che strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch’era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti quasi fosse in gennaio. L’ingegnere, quando gli ebbero detto che il caso era accaduto da circa quattro ore, domandò cosa venissero a fare da lui dopo quattro ore. Nondimeno ci andò con scale e torcie a vento, ma passarono altre due ore, e fecero sei, e lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva una settimana.

      (…)

      L’ingegnere se ne tornò a veder seppellire Ofelia; e gli altri minatori si strinsero nelle spalle, e se ne tornarono a casa ad uno ad uno.

39)    Nei dettagli sull’ingegnere a teatro, sulla rappresentazione dell’Amleto, per cui l’ingegnere avrebbe preferito non muoversi di lì, più interessato alla sua serata a teatro che alla sorte dei minatori, sentiamo la mano dell’autore o comunque di un narratore che appartiene al mondo colto della borghesia. Il giudizio ironicamente polemico si avverte ancora di più nella frase conclusiva: “l’ingegnere se ne tornò a veder seppellire Ofelia”, cioè l’ingegnere lascia il minatore sepolto sotto la sabbia e se ne torna al suo Amleto, dove fa in tempo a vedere una sepoltura letteraria, ovvero quella di Ofelia. Nella redazione del 1897 tutto questo scompare:

      L’ingegnere che dirigeva i lavori della cava si trovava a teatro quella sera, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di Malpelo, che aveva fatto la morte del sorcio. Tutte le femminucce di Monserrato strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch’era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti invece, quasi avesse la terzana. L’ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu Bestia doveva già essere bell’e arrivato in Paradiso, andò quasi per scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il buco nella rena.

Della denuncia è rimasto solo un barlume, laddove si dice che l’ingegnere “non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono”. La narrazione è più asciutta e ricorrono le espressioni coerenti con l’artificio della regressione, cioè sentiamo la voce di un narratore che appartiene al mondo dei minatori; mastro Misciu “aveva fatto la morte del sorcio”, sua moglie sbatteva i denti “quasi avesse la terzana” e Misciu Bestia doveva già essere bell’e arrivato in Paradiso”.

Il pessimismo di Verga e la reazione del lettore

40)    Il pensiero di Verga – lo capiamo da altre novelle, dai romanzi del ciclo de I vinti ed anche dalle posizioni politiche conservatrici da lui in più occasioni manifestate (estimatore di Crispi[1], nel 1898 elogia la repressione milanese di Bava Beccaris[2], nel 1912 si dichiara nazionalista e poi interventista nella I guerra mondiale) – coincide con il pessimismo di Malpelo: così va il mondo e non c’è intervento divino né organizzazione umana che possa modificarne nel profondo le leggi. E dunque lo scrittore verista non può che rappresentare questo mondo nella sua brutale realtà.

41)    Forse è proprio questo (il suo cupo pessimismo, il suo essere ideologicamente un conservatore, il suo “rifiuto della speranza populista e delle suggestioni socialiste”) che – come scrive Asor Rosa – lo porta “alla rappresentazione più convincente che del mondo popolare sia stata data in Italia durante tutto l’Ottocento”.

42)    Proprio il suo pessimismo consente a Verga di cogliere con grande lucidità il negativo del mondo esistente, dove trionfano la forza e la ricerca del proprio utile, l’oppressione sui più deboli e la degradazione umana che ne risulta. Verga non indica alternative, la sua vuole essere una rappresentazione oggettiva delle cose, ma le cose parlano da sé, le cose gridano, invocano l’alternativa.

43)    Di fatto, che Verga ne sia consapevole o no, quanto più il lettore si addentra in questo mondo fatto di violenza e di sopraffazione, tanto più ne avverte la inaccettabilità, così come la avverte Malpelo, che pure ne teorizza la immodificabilità, come di una legge di natura.

Malpelo desidera altro: l’amore, non la violenza

44)    Malpelo avverte, seppure confusamente, l’esistenza possibile di un mondo diverso. E’ il mondo del suo rapporto con il padre, l’unico che gli aveva voluto bene, il padre di cui ricorda le carezze quando indossa i pantaloni di fustagno che erano stati del padre e che, recuperati dal cadavere, erano stati adattati per il figlio:

la vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta, e le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacchè rimpiccolirsi le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non ne aveva volute di scarpe del morto.

Malpelo se li lisciava sulle gambe quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo che solevano accarezzargli i capelli, così ruvidi e rossi com’erano. Quelle scarpe le teneva appese ad un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accanto all’altra, e stava a contemplarsele coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme per delle ore intere, rimugginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.

45)    Malpelo osserva le scarpe del padre “Rimugginando chi sa quali idee in quel cervellaccio”. Naturalmente questo è il pensiero del narratore (che in questo caso sarà la madre o la sorella, visto che la scena descritta si svolge in casa). Ma noi lettori invece capiamo bene che Malpelo sta “rimugginando” sul ricordo del padre, della violenza che ha subito quell’uomo mite e amorevole, e quindi anche sulla solitudine cui lui è condannato, ora che ha perso l’unica persona che gli voleva bene.

Malpelo desidera altro: un lavoro all’aperto e alla luce

46)    Malpelo desidera un mondo diverso, al di fuori di quello in cui vive lui; desidera, anche se non lo comprende appieno, un mondo fondato sull’amore (e non sulla violenza): quel mondo evocato dal calore dei calzoni di fustagno, ma anche dal pensiero che si potrebbe lavorare diversamente (come il manovale "cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena"; o come "il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa").

47)    Notate come qui, quando il narratore tende a diventare Malpelo stesso, cambiano i colori che sono dominanti nell’intera novella, cioè il rosso, che è il colore maligno dei capelli di Malpelo così come della rena della cava e infine dello “sbocco di sangue” di Ranocchio; il grigio, che è il colore degli occhi di Malpelo così come del pelo dell’asino; il nero della sciara, ovvero del paesaggio su cui si stende la lava pietrificata, ed anche della cava, che è chiamata il “buco nero”. Ora, nei sogni di Malpelo, compaiono colori chiari e luminosi, l’azzurro, il verde, il turchino, quasi simbolo di un altro mondo, un mondo irraggiungibile, fuori dal nero della miniera e dalla violenza del rosso.  

Malpelo desidera altro: una madre come quella di Ranocchio

48)    Il mondo che Malpelo intravvede è anche quello del paradiso di cui gli parla Ranocchio, quando nelle sere d’estate, dopo la giornata di lavoro, si stendono a terra fuori della cava e guardano il cielo stellato (e Ranocchio gli spiega che lassù c’è il paradiso "dove vanno a stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori");

49)    è il mondo confusamente avvertito nel pianto della madre di Ranocchio per il figlio morente (e qui Malpelo ha bisogno di un alibi, per continuare ad accettare il proprio mondo: la madre di Ranocchio piangeva perché "il suo figliolo era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui, perchè non aveva mai avuto timore di perderlo.").

Malpelo sa individuare i responsabili di quella condizione

50)    Malpelo sa tutto, ha capito tutto, è davvero il più saggio degli uomini. Sa che fra gli uomini, a tutti i livelli sociali, anche al livello degli ultimi, dei “dannati della terra”, vige la legge del più forte e del proprio tornaconto personale e sa che per i buoni, come suo padre, non c’è scampo. Ma sa anche individuare con chiarezza i responsabili della violenza subita da suo padre: i minatori, il padrone, lo Sciancato:

      Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l’avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: – Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché egli non faceva così! – E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un’occhiata torva: – È stato lui! per trentacinque tarì! – E un’altra volta, dietro allo Sciancato: – E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera! –

E li indica al lettore

51)    E dunque quest’opera, come dicevo all’inizio, è uno sconvolgente capolavoro non solo perché rappresenta senza pietismi e senza speranze consolatorie la verità della condizione popolare, ma anche perché riesce a comunicare con forza la inaccettabilità di tale condizione. Il lettore non può non pensare alla responsabilità degli uomini, non della natura, quando si vede l’ingegnere più interessato al teatro che alla morte di un minatore, o il padrone in più occasioni (ad esempio, quando è contento che Ranocchio malato non venga più alla cava “perché oramai era più d’impiccio che d’altro”), o i minatori che scherniscono mastro Misciu e maltrattano suo figlio. E infine il lettore non può non avvertire, insieme a Malpelo, il bisogno di un mondo diverso che sia la negazione di quel mondo in atto.

  Il pessimismo di Verga e Fantasticheria

52)    Ma quel mondo diverso è pensabile e desiderabile, come lo pensa e lo desidera Malpelo, ma è irrealizzabile. E qui abbiamo a che fare con il duro pessimismo di Verga, un pessimismo che – per quanto riguarda la migliorabilità della condizione umana – percorre tutta la sua opera.

53)    L’autore che ci dà un tale rappresentazione della disumanità del mondo in atto non crede nella possibilità di un cambiamento. Anzi, crede che ogni tentativo di cambiamento sia velleitario e si risolva inevitabilmente in una sconfitta.

54)    C’è una novella, Fantasticheria (una novella che è una sorta di anticipazione de I Malavoglia) in cui si teorizza la necessità per i deboli, gli ultimi, i derelitti, di “stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita”, di restare attaccati alle proprie radici, ai luoghi e ai modi in cui hanno sempre vissuto, così come l’ostrica sta attaccata allo scoglio, perché

allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui…. Per le ostriche l’argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio.

La “brama di meglio” non solo travolge chi l’ha perseguita, ma come una condanna biblica si ripercuote rovinosamente anche sui consanguinei, su “i suoi più prossimi”.

Il bell’affare di mastro Bestia!

55)    Se c’è un’espressione che può sintetizzare il pessimismo verghiano è quella usata sarcasticamente dai minatori a proposito della morte di mastro Misciu: Il bell’affare di mastro Bestia!. Mastro Bestia pensava di migliorare la propria condizione con quel lavoro preso a cottimo, e infatti a questo pensava – dice il testo – mentre picconava il pilastro. Ma quell’affare si rivela in realtà la sua rovina.

il bell’affare!” ne I Malavoglia e nel Mastro don Gesualdo

56)    Ma altrettanto si potrebbe dire per l’affare affrontato dai Malavoglia con il trasporto dei lupini presi a credito. Anche quello era un tentativo di migliorare la propria condizione e si rivela sarcasticamente un “bell’affare!”, in quanto segna l’inizio della rovina per i Malavoglia, col naufragio della Provvidenza e il conseguente pignoramento della casa del nespolo.

57)    E sempre in questo senso è un “bell’affare!” anche quello di mastro don Gesualdo, che vuole migliorare la propria condizione sposando una nobile come Bianca Trao: quel matrimonio si rivela in realtà l’inizio della sua rovina. L’aristocrazia lo riterrà sempre un corpo estraneo, la moglie non lo ama, la stessa figlia (in realtà non figlia sua, ma di una relazione di Bianca con un cugino) ricambia il suo amore vergognandosi di lui. Gesualdo, ormai vecchio e sempre più solo, nel palazzo di Palermo dove l’hanno fatto trasferire, lontano dalle sue terre, vede il proprio patrimonio a poco a poco dissipato dalla figlia e dal genero. Si ammala di cancro e attende la morte nel suo letto voltato contro il muro, fra medici che lo trattano come un oggetto e servi che non lo rispettano.

il bell’affare!” nella novella Libertà

58)    Mi piace concludere con un riferimento alla novella Libertà, che è la ricostruzione di una vicenda storica, ovvero dei fatti di Bronte, quando, in occasione della spedizione dei Mille, i contadini (chiamati i “berretti”) insorsero e uccisero non pochi galantuomini (chiamati i “cappelli”). Si ribellavano così ad una secolare oppressione e, peraltro sollecitati da un decreto dello stesso Garibaldi che invitava alla distribuzione delle terre demaniali, intendevano impadronirsi di un po’ di quella terra che avevano lavorato per tutta la vita agli ordini dei padroni.

59)    Ebbene, anche questa ribellione si rivela un “bell’affare!” nel senso sarcastico che abbiamo detto. Gli stessi ribelli, dopo la giornata di violenza contro i galantuomini, non sanno che fare, diffidano l’uno dell’altro, sospettano che niente cambierà e aspettano rassegnati il generaleche veniva a far giustizia”, “quello che faceva tremare la gente. Eppure, per fermare la colonna che saliva verso Bronte “sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse”. Quel generale era Bixio. Leggo il passo che lo riguarda:

     Si vedevano le camice rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.

     Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono… Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schiopettate in fila come i mortaletti della festa. 

60)    E’ una novella molto controversa per il modo in cui Verga ricostruisce il fatto storico. Mi limito a ricordare la critica di Sciascia, che ha accusato Verga di aver voluto screditare gli insorti, presentando, ad esempio, Bixio, che era famoso per essere violento e spietato, ora come una figura epica (quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo), ora come un buon padre (mise a dormire i suoi ragazzi come un padre); tacendo della fucilazione dell’avvocato Lombardo, un intellettuale liberale non responsabile della feroce rivolta e delle uccisioni; e nominando fra i fucilati il “nano”, quando invece si trattava del matto del paese (ed era anche questo un modo per mettere in buona luce Bixio, visto che in genere si considera il “matto” come sacro e il “nano” invece come maligno e cattivo).

La conclusione della vicenda

61)    Ma vediamo la conclusione della vicenda:

Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo ahi! ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. (…) Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L’orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie, e temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all’uscire dal carcere, egli ripeteva: — Sta tranquilla che non ne esce più. — Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all’aria ci vanno i cenci.

Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicchè quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia — chè capponi davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s’era imparentato a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. — Voi come vi chiamate? — E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: — Sul mio onore e sulla mia coscienza!....

Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: — Dove mi conducete? — In galera? — O perchè? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!....

62)    A me interessa notare come anche qui torni il pessimismo di Verga circa la possibilità di cambiare in meglio – in questo caso con la violenza rivoluzionaria – la propria condizione sociale (“Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima”. Segue una specie di sintesi del famoso apologo di Menenio Agrippa: “I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini”).

63)    Ma, di più, torna la convinzione di Verga secondo cui il tentativo di cambiare in meglio la propria condizione si risolve inevitabilmente in un “bell’affare!”, ovvero in una rovinosa catastrofe. L’unico che non l’ha capito è il carbonaio, che “mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: — Dove mi conducete? — In galera? — O perchè? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!....”

 

 

 

 

 



[1] Nel 1894 represse con durezza il movimento contadino dei Fasci siciliani e determinò lo scioglimento del Partito socialista dei lavoratori.

[2] Nel 1898 fece sparare contro una manifestazione popolare che protestava per l’aumento del prezzo del pane: 83 morti, secondo il governo, 300 secondo l’opposizione.

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