domenica 31 maggio 2015

Ovidio: la vita e l'opera


Ovidio

Nacque a Sulmona, nel 43 a.C. da famiglia di rango equestre. Trasferitosi a Roma – e dopo viaggi di studio in Grecia e Asia minore – rinunciò alla carriera politica per dedicarsi alla poesia (29). Entrato nel circolo di Messalla, ottenne subito successo con la sua prima raccolta di elegie (Amores). Seguirono le Heroides, quindi l’Ars amatoria, accompagnata dai Remedia amoris e dai Medicamina faciēi feminĕae. Fra l’1 e l’8 d.C. si dedica alla poesia eziologica (i Fasti) e al poema mitologico (le Metamorfosi). Nell’8 d.C. c’è la condanna all’esilio (30) a Tomi (31), sul mar Nero (o Pontus Euxinum). Non del tutto chiare le ragioni di tale punizione, cui lo stesso Ovidio allude nei Tristia parlando di duo crimina, carmen et error: quanto al carmen si può presumere che la sua poesia eccessivamente licenziosa fosse sgradita al regime, che intendeva restaurare i buoni costumi della tradizione (e invece l’Ars amatoria in particolare sembrava istigare all’adulterio); ma forse più colpevole era l’error, e cioè il possibile coinvolgimento in uno scandalo di corte con protagonista Giulia, la nipote, piuttosto dissoluta, dell’imperatore (32). La pena non gli fu condonata né da Augusto, né dal suo successore Tiberio, malgrado le implorazioni ricorrenti nelle elegie composte a Tomi (cioè, nei Tristia e nelle Epistulae ex Ponto). Rimase a Tomi fino alla morte, nel 18 d.C.

Negli Amores (tre libri, 50 componimenti dedicati a una donna chiamata Corinna) ritornano i temi tipici dell’elegia amorosa: la militia amoris, il lamento per l’infedeltà della donna, la gelosia, la soggezione alla domina, i riferimenti mitologici. Ma in lui si avverte la mancanza di una partecipazione passionale, la vicenda amorosa sembra un gioco divertente, l’elegia un brillante esercizio letterario teso alla ricerca di effetti sorprendenti, quando non paradossali. Qualche esempio: in II, 4 passa in rassegna una serie di tipi di donne e confessa di essere attratto da tutte; in II, 19 se la prende con il custos della puella (da intendersi come il marito o l’amante ufficiale, solitamente detestato dal poeta elegiaco) perché non custodisce bene la donna – e dunque a sottrargliela c’è poco gusto; di un cinismo spudorato la II, 8 e la II, 9: nella prima giura solennemente a Corinna di non averla tradita con la schiava Cypassis, nella seconda si rivolge alla stessa Cypassis che vorrebbe interrompere la relazione, e la ricatta minacciando di dire tutto alla padrona.

Una variante del genere elegiaco (33) sono le Heroides, un’opera costituita da 21 lettere divise in due gruppi: 15 sono scritte da eroine mitiche ai rispettivi mariti o amanti (34), 6 sono scambi epistolari fra tre coppie mitiche (35). Si tratta in genere di componimenti in cui le donne, rivendicando la propria fedeltà e ricordando il passato felice, lamentano o la lontananza o il tradimento del proprio marito o amante.

Un poemetto in distici che si sviluppa in tre libri è l’Ars amatoria, con cui il poeta, atteggiandosi a praeceptor amoris, intende insegnare ad uomini (nei primi due libri) e a donne (nel terzo libro) le tecniche della seduzione amorosa. Per l’uomo si tratta di una specie di caccia (espressioni come venari, tendere retia, laqueos ponere sono frequenti): la donna è una preda che va cercata nei teatri, nei templi, nei conviti, e va “catturata” facendo ricorso a diversi espedienti (ad esempio, ingraziandosi il marito, cercando la complicità di ancelle compiacenti, ecc.); corteggiandola e lusingandola con tenacia si vincerà la sua resistenza, perché la libido della donna è senza limiti ed in realtà essa vuole ciò che finge di rifiutare. Viceversa alle donne che vogliono piacere agli uomini si danno consigli sulla cura della persona (acconciatura, vestiti, trucco) e sul comportamento: la donna deve essere allegra e disponibile, deve saper danzare e cantare, soprattutto deve farsi desiderare, fingendo resistenza alle profferte dell’uomo. L’amore diventa così un frivolo gioco mondano, fatto di galanterie e abili schermaglie, il cui obiettivo è il piacere sessuale (spes Veneris) a prescindere da ogni sincera passione. Si capisce dunque come tale opera potesse non piacere al regime, che voleva restaurare i buoni costumi della tradizione: Ovidio – pur proponendo un enfatico elogio del principe nel primo libro – contrappone esplicitamente la rusticitas degli avi al cultus, cioè alla raffinata eleganza, dello stile di vita moderno che lui dichiara di prediligere (36).

Di poco successivo è il poemetto, sempre in distici, Remedia amoris, con cui il praeceptor diventa il medicus che prescrive i rimedi necessari per guarire dalla “malattia”, e quindi dalle sofferenze, d’amore. La mano che ha inferto la ferita è ora quella che dona la cura (37). Dunque bisognerà fare il contrario di quello che si è insegnato precedentemente: non frequentare i suddetti luoghi d’incontro, preferire la campagna alla città, dedicarsi allo sport, ai viaggi; più specificamente, concentrarsi sui difetti della puella di cui si è innamorati (da notare che i consigli sono rivolti solo agli uomini, e dunque il poemetto si collega ai primi due libri dell’Ars amatoria).

Del contemporaneo Medicamina faciēi feminĕae (“I cosmetici femminili”) ci restano un centinaio di versi contenenti consigli e ricette per creme di bellezza.

Con i Fasti (dovevano essere 12 libri, uno per ogni mese dell’anno, ma ci restano solo i primi 6, da gennaio a giugno: presumibilmente l’opera si interruppe a seguito dell’esilio) Ovidio si dedica alla poesia eziologica, che aveva come grande modello gli Aitia di Callimaco e come riferimento romano il IV libro delle elegie di Properzio. L’intento è quello di spiegare l’origine – mescolando storia e leggende, narrando aneddoti e vicende dell’antichità – delle festività (appunto, i dies fasti), delle celebrazioni religiose, dei loro nomi. Si tratta dunque di una poesia erudita, secondo il gusto alessandrino, per la quale il poeta utilizza svariate fonti - sia l’opera storica di Livio, sia l’imponente opera antiquaria di Varrone Reatino (38).

Con le due raccolte di poesie scritte in esilio (5 libri di Tristia e 4 di Epistulae ex Ponto), Ovidio adotta l’elegia nel senso originario di “poesia del lamento”: esprime infatti il suo dolore per la sventura capitatagli, la nostalgia per la patria lontana e per le persone care, implora il perdono dell’imperatore - prima di Augusto, poi di Tiberio, ma senza risultato (39).

Al periodo dell’esilio appartiene anche un poemetto in distici elegiaci, Ibis (40), ad imitazione di un omonimo componimento di Callimaco. Si tratta di un lunga invettiva, sostenuta da eruditi riferimenti mitologici, contro un avversario di cui viene taciuto il nome. Di attribuzione incerta è invece un frammento di 130 esametri, intitolato Halieutica, sui pesci e sull’arte della pesca.

Ma il capolavoro di Ovidio è senz’altro le Metamorfosi, un poema in 15 libri, in esametri, con cui il poeta si propone – come dice nel proemio – di abbandonare l’elegia per comporre “un canto continuo (carmen perpetuum), dalla prima origine del mondo sino ai tempi miei” (41). E’ un poema epico (lo dice anche l’espressione carmen continuum, usata già da Callimaco per indicare componimenti di ampia estensione), ma di genere non eroico (sull’esempio di Virgilio o dei poemi omerici), bensì mitologico, secondo il modello della Teogonia di Esiodo (42). Non è, come vorrebbe il canone epico, un’opera con un protagonista e con una vicenda unitaria che si svolge entro tempi limitati, ma è una narrazione che inizia dal Caos primitivo (così è anche in Esiodo), si sviluppa attraverso una serie di generazioni mitiche e giunge fino all’età contemporanea (all’apoteosi di Cesare e alla celebrazione di Augusto). Su questo impianto, cronologicamente piuttosto generico, si innesta la successione dei miti di trasformazione (più di 250), connessi l’uno all’altro con “cerniere” che spesso si rivelano abili, ma artificiosi e forzati espedienti (43). A volte la tecnica è quella del “racconto a cornice”, che consiste nell’ inserire un racconto nel racconto, per cui i personaggi di storie narrate dal poeta diventano a loro volta narratori di altre storie (44). Con il libro XII si giunge all’età della guerra di Troia, seguono il viaggio di Enea e le leggende relative alle origini di Roma. Nell’ultimo libro ben 400 versi sono dedicati al discorso che Pitagora rivolge al re Numa Pompilio: non solo gli predice l’avvento di Cesare e la sua divinizzazione (si trasformerà in una cometa), ma anche gli espone la teoria della metempsicosi e teorizza la metamorfosi come principio universale, secondo cui ogni forma di vita muta continuamente in una forma nuova (45). Dunque la metamorfosi è il fondamentale principio unificatore del poema, principio esplicato nei miti narrati, ma anche verità filosofica, riconosciuta nella vita dell’universo.

Nei versi finali il poeta celebra Augusto, signore della terra (46), e gli augura lunga vita; per se stesso e per il proprio poema prevede orgogliosamente – in modi che ricordano quelli di Orazio nell’ode III, 30 – l’immortalità (47).

E’ un’opera grandiosa, per la concezione e per la ricchezza di personaggi e di storie stupefacenti. Alla straordinaria inventiva si associa un’abilità quasi virtuosistica nel descrivere le metamorfosi, tanto negli aspetti spettacolari quanto nei connessi risvolti psicologici: il mutamento – che è quasi sempre passaggio dalla condizione umana a quella animale o vegetale – è rappresentato soprattutto nel momento in cui il protagonista sperimenta la perdita della facoltà di movimento e/o di comunicazione. Altrettanto notevole è l’abilità linguistica, che si manifesta in vari modi nella descrizione di quelle vicende paradossali: si va dalla frase fulminea e precisa (48) al raffinato gioco di parole (49).
_______________________________________________________________
                                                                                                                                                                   
29) Sono tutte informazioni che ci dà lui stesso nei Tristia. A questo proposito ci dice, ad esempio, che il padre gli rimproverava la passione per la poesia, ma lui era talmente predisposto che tutto ciò che scriveva, anche in prosa, assumeva il ritmo dei versi.
30) Meglio sarebbe dire “soggiorno obbligato”, perché conservò sia i beni che la cittadinanza.
31) Oggi Costanza, in Romania.
32) Che si tratti di questo ce lo suggerisce il fatto che nello stesso anno Giulia Minore (figlia di Giulia, a sua volta figlia di Augusto) venne relegata nelle isole Tremiti.
33) Un precedente si può ritrovare in Properzio, IV, 3 (la lettera di Aretusa a Licota).
34) Ad esempio, Penelope ad Ulisse, Didone ad Enea, Medea a Giàsone, ecc.
35) Paride ed Elena, Leandro ed Ero (lui, che abitava nella sponda asiatica dell’Ellesponto, si era innamorato di lei, sacerdotessa di Afrodite, che viveva sulla sponda europea; per stare con lei, Leandro attraversava  a nuoto lo stretto ogni notte, guidato da una fiaccola che lei teneva accesa in cima a una torre; ma una notte il vento spense la fiaccola e lui morì andando a sbattere contro gli scogli; lei disperata si gettò dall’alto della torre), Aconzio e Cidippe (lui, pellegrino a Delo, presso il tempio di Artemide, si era innamorato di lei; per averla, ricorre a un’astuzia: incide sulla buccia di una mela le parole “Giuro su Artemide di sposare Aconzio”; lei legge ad alta voce e a questo punto è vincolata dal giuramento; non le sarà possibile sposare altri che lui).
36) “ Simplicitas rudis ante fuit: nunc aurea Roma est, / et domiti magnas possidet orbis opes. /…. Prisca iuvent alios: ego me nunc denique natum / Gratulor: haec aetas moribus apta meis.” (III, 113-14, 121-22). “C’è stata un tempo la rozza semplicità; ora c’è una Roma d’oro, che possiede le grandi ricchezze del mondo soggiogato…. Piacciano ad altri i tempi antichi; io sono contento di essere nato adesso; questa età si addice ai miei gusti.”
37) “Discite sanari, per quem didicistis amare: / Una manus vobis vulnus opemque feret( (vv.43-44). “Imparate a guarire, da colui dal quale imparaste ad amare: una stessa mano vi darà la ferita e la salvezza”
38) Grande erudito, vissuto fra il 116 e il 27 a.C., aveva composto, tra l’altro, 25 libri di Antiquitates rerum humanarum e 16 di Antiquitates rerum divinarum (opere andate perdute).
39) Il II libro dei Tristia è un’unica grande implorazione rivolta ad Augusto. Quanto a Tiberio, Ovidio se ne vuole accattivare la benevolenza elogiando Germanico (Ep. ex Ponto, IV, 8) nipote dell’imperatore ed erede predestinato. Del resto a Germanico sono anche dedicati i Fasti (è da presumere che in esilio questa nuova dedica abbia sostituito quella originaria ad Augusto, ormai morto).
40) E’ il nome di un uccello egiziano, noto per l’abitudine di cibarsi di escrementi.
41) In nova fert animus mutatas dicere formas / corpora; di, coeptis (nam vos mutastis et illas) / adspirate meis primaque ab origine mundi / ad mea perpetuum deducite tempora carmen!” “L’animo mi spinge a narrare le trasformazioni in nuovi corpi; o dèi (infatti voi avete compiuto anche quei mutamenti), ispirate la mia impresa e ordite un carme ininterrotto dall’origine del mondo sino ai miei tempi”.
42) Vissuto fra l’VIII e il VII sec. a.C., nella Teogonia (un poema in esametri) Esiodo aveva narrato le vicende mitologiche dal Caos primordiale fino allo stabilirsi del regno di Zeus.
43) Ad esempio, nel libro VI, il legame fra la storia di Niobe (aveva offeso Latona, i cui figli, Artemide e Apollo, la vendicarono sterminando i figli di Niobe; costei, per il dolore, divenne un blocco di pietra che continua a lacrimare) e quella di Aracne (aveva sfidato Atena nell’arte del filare; sconfitta, era stata trasformata in ragno) è dato dal fatto che la prima aveva conosciuto la seconda, ma dal suo esempio non aveva imparato. O anche, nel libro III, quando si narra di Cadmo, di suo nipote Atteone e di sua figlia Sémele (madre di Bacco),  si inseriscono le vicende estranee di Tiresia (il pretesto è che sia contemporaneo all’infanzia di Bacco), di Narciso ed Eco (come esempio delle capacità divinatorie di Tiresia).
44) Ad esempio, nel libro X è Orfeo che narra una serie di miti metamorfici; o anche, nel libro IV le Minieidi (figlie di Minia), destinate a trasformarsi in pipistrelli, raccontano le storie d’amore e di trasformazione di Piramo e Tisbe, di Ermafrodito e Salmacide.
45) nihil est toto, quod perstet, in orbe. / cuncta fluunt, omnisque vagans formatur imago; / ipsa quoque adsiduo labuntur tempora motu, / non secus ac flumen” (XV, 177-180). “Non c’è niente che persista in tutto il mondo. Tutto scorre, e incerta si forma ogni immagine; il tempo stesso scivola via con moto continuo, non diversamente da un fiume”.
46) Iuppiter arces / temperat aetherias et mundi regna triformis, / terra sub Augusto est” (XV, 858-60) “Giove governa le rocche del cielo e i regni del mondo triforme, la terra soggiace ad Augusto”.
47) Iamque opus exegi, quod nec Iovis ira nec ignis / nec poterit ferrum nec edax abolere vetustas. / Cum volet, illa dies, quae nil nisi corporis huius / ius habet, incerti spatium mihi finiat aevi: / parte tamen meliore mei super alta perennis  / astra ferar, nomenque erit indelebile nostrum, / quaque patet domitis Romana potentia terris, / ore legar populi, perque omnia saecula fama, / siquid habent veri vatum praesagia, vivam.” (XV, 870-79) “Ormai ho compiuto l’opera che non potrà cancellare né l’ira di Giove, né il fuoco, né il ferro, né il tempo che corrode. Venga quando vorrà quel giorno che ha giurisdizione solo sul mio corpo e ponga fine al tempo incerto della mia vita: salirò tuttavia per sempre con la parte migliore di me alle stelle e il mio nome sarà indistruttibile; e fin dove si estende la potenza romana sulle terre assoggettate, reciteranno i miei versi le labbra del popolo ed io, grazie alla fama, se hanno qualcosa di vero le profezie dei poeti, vivrò per tutti i secoli.”
48) Così, in I 721, è descritta la morte di Argo, dotato di cento occhi: “centumque oculos nox occupat una”, “un’unica notte invade i cento occhi”.
49) Così, in III 425-26, si descrive Narciso che s’innamora di se stesso: “Se cupit imprudens et, qui probat, ipse probatur, / dumque petit petitur, pariterque accendit et ardet”, “Senza saperlo, desidera se stesso; quello stesso che apprezza è apprezzato, mentre cerca è cercato, nello stesso tempo accende e brucia.”


 

Properzio: la vita e l'opera


 

Properzio

Nacque ad Assisi (16) intorno al 50 a.C., da famiglia agiata che però dovette subire l’espropriazione di terre (17). Venuto a Roma, fra il 29 e il 28 pubblicò il suo primo libro di elegie d’amore, che attirò l’attenzione di Mecenate e dei suoi amici. Entrò quindi a far parte del “circolo”, tant’è che il secondo libro è dedicato a Mecenate, indicato come patrono e protettore. Seguirono altri due libri e si presume che sia morto nel 15 a.C.

Il tema dominante nei primi tre libri è quello dell’amore per Cinzia (il cui vero nome pare fosse Hostia) (18), un tema dichiarato nell’elegia proemiale del I libro, in cui l’autore si presenta subito come l’innamorato infelice (miser), che, sottomesso ad un padrona (domina) crudele, ha perso dignità e ragionevolezza, pertanto chiede aiuto alla magia perché lo liberi dall’incantesimo, alla medicina perché lo guarisca dalla malattia, agli amici perché lo conducano lontano.

Già nel primo libro (detto anche Monòbiblos (19), contiene 22 elegie) – ma poi più chiaramente nelle recusationes rivolte a Mecenate nel secondo – Properzio, contrapponendo Mimnermo ad Omero, afferma la sua predilezione per la poesia leggera (lenia carmina) ispirata dall’amore, rispetto alla poesia “alta”, qual è quella epica (20). E’ una scelta poetica che corrisponde ad una scelta di vita, accettata pur sapendo che è una scelta che comporta nequitia (abiezione morale, dissolutezza) e che contrasta con i valori tradizionali (di impegno politico, di servizio per la patria) che dovrebbe seguire un cittadino romano (21). 

Il secondo libro (contiene 34 componimenti) si apre con la dedica a Mecenate e con la recusatio (il rifiuto) di dedicarsi alla poesia epica (evidentemente richiestagli dal patrono e forse dallo stesso Augusto): Properzio ribadisce che la sua fonte di ispirazione è e resta la puella (22). Addirittura in II, 7 - laddove esulta per il ritiro di una proposta di legge che l’avrebbe costretto al matrimonio (23) - osa contraddire gli orientamenti ideologici del regime: “Unde mihi patriis natos praebere triumphis? / Nullus de nostro sanguine miles erit./… Tu mihi sola places; placeam tibi, Cynthia, solus: / hic erit et patrio nomine pluris amor.” (24)

Nel terzo libro (25 elegie) le tematiche si ampliano, forse perchè il poeta ritiene di avere ampiamente sfruttato il tema amoroso o forse a seguito delle insistenti sollecitazioni che provengono da Mecenate. L’epica viene ancora rifiutata a favore dell’elegia (Properzio si dichiara degno di stare accanto ai grandi elegiaci alessandrini, Callimaco e Filita), tuttavia ora troviamo anche carmi celebrativi (una celebrazione di Augusto, un compianto per la morte di Marcello, un elogio dell’Italia). Le ultime due elegie sono quelle del discidium (rottura, separazione), in cui il poeta annuncia, con anche una serie topica di maledizioni e imprecazioni, la fine del suo amore per Cinzia. Non sappiamo se si tratti di un evento biograficamente reale o se si alluda, in termini simbolici, all’intenzione di abbandonare la poesia d’amore. Di fatto, ritornano i motivi (enunciati proprio nella prima elegia del primo libro) dei rimedi inutilmente tentati (la magia, l’aiuto degli amici, il viaggio) e quindi si esprime la gioia per essere finalmente guarito dalle ferite d’amore (25).

Nel quarto libro (11 elegie) sembra che le richieste di Mecenate abbiano trovato accoglienza. Nell’elegia proemiale infatti Properzio enuncia un programma di poesia eziologica -Sacra diesque canam et cognomina prisca locorum” (26) - , pur sempre ad imitazione del grande modello alessandrino, quel Callimaco, autore degli Aitia, di cui egli stesso si sente erede al punto di definirsi “Callimaco romano” (IV, 1, 64). Abbiamo così le cosiddette “elegie romane”, anche se, su undici complessive sono soltanto sei - dopo la proemiale, la 2, la 4, la 6, la 9, la 10 (27). Quattro sono di carattere amoroso (in due di esse addirittura ricompare Cinzia: nella 7 è il fantasma di lei ormai morta ad apparire al poeta per garantirgli la propria fedeltà e rimproverare a lui i tradimenti; nella 8 invece è viva e vegeta, ha tradito il poeta ma, col tipico atteggiamento da domina autoritaria, con durezza rimprovera lui per essersi voluto vendicare passando una serata con due allegre ragazze) (28).

A sè stante è la 11, detta “regina elegiarum”: non ha carattere eziologico, ma può rientrare fra le elegie “romane” in quanto in essa si celebrano valori patriottici e morali. E’ una matrona defunta che parla, Cornelia, la quale, rivolgendosi al marito, descrive la propria vita di sposa e madre esemplare: sono dunque gli affetti famigliari e l’amore coniugale che si esaltano, non l’amore passionale e dissennato; sono le virtù romane, che appartengono alla sana tradizione italica, quella tradizione che in quegli stessi anni Augusto intende restaurare.  
_____________________________________________________________________________

16) E’ probabile, perché in IV, 1, 125 si parla di Asis (Assisi), ma alcuni leggono arcis (rocca). Ma è vero che ad Assisi si trovano iscrizioni relative alla gens Propertia.
17) Probabilmente perché si schierò dalla parte di Antonio nella guerra di Perugia del 40 a.C.
18) Ce lo dice Apuleio in Apologia ,10. Da notare come lo pseudonimo scelto (Cinzia), al pari di quello della donna di Tibullo (Delia), abbia a che fare c on le due divinità (Apollo e Diana) nate sul monte Cinto, nell’isola di Delo.
19) “Libro unico”, perché il suo contenuto è omogeneo, essendo quasi totalmente dedicato all’amore per Cinzia.
20) “Plus in amore valet Mimnermi versus Homero; / carmina mansuetus lenia quaerit Amor.” (I, 7, 11-12). “In amore vale più il verso di Mimnermo che Omero; il pacifico Amore vuole carmi leggeri”.
21) Nell’elegia I, 6 (un propemptikòn per l’amico Tullo che sta partendo per l’Oriente, al seguito dello zio, proconsole d’Asia) rifiuta di seguire l’amico adducendo la malattia d’amore che, colpevolmente, lo trattiene (“Me sine…. Hanc animam extremae reddere nequitiae”, “Lascia che io consegni la mia anima all’estrema abiezione”) e la constatazione (fra il rammarico e il compiacimento) di non essere adatto ad altra militia che a quella d’amore (“Non ego sum laudi, non natus idoneus armis: / hanc me militiam fata subire volunt.”, “Non sono nato per la gloria, non sono adatto alle armi: i fati vogliono che io subisca questa milizia”).
22) “Non haec Calliope, non haec mihi cantat Apollo: / ingenium nobis ipsa puella facit.” (II, 1, 3-4).”Questi versi non me li detta Calliope, non Apollo: è la fanciulla stessa che mi dà l’ispirazione”
23) E’ una questione molto controversa. Se  Properzio esulta per il suo ritiro, vuol dire che non avrebbe potuto sposare Cinzia. Ciò significa (lo deduciamo dalla lex Iulia promulgata nel 18 a.C., supponendola simile a quella a cui si riferisce Properzio e che era ancora un progetto su cui si discuteva) che Cinzia era o una cortigiana o una liberta (la legge, che voleva favorire l’incremento delle nascite e sanzionava il celibato, impediva matrimoni fra persone di rango sociale diverso).
24) II, 7, 13-14; 19-20. (“Perché dovrei offrire i miei figli per i trionfi della patria? Nessun soldato nascerà dal mio sangue… Tu sola mi piaci; io solo possa piacerti, Cinzia: questo amore conterà di più del nome di padre.”)
25) “Nunc demum vasto fessi resipiscimus aestu, / vulneraque ad sanum nunc coiere mea.” (III, 24, 17-18). “Ora finalmente, spossato dalla grande tempesta, ritrovo la salute, ora le mie ferite, sanate, si sono richiuse.”.
26) IV, 1, 69 (“Canterò i riti sacri, i giorni e i nomi antichi dei luoghi”).
27) Famosa la 4, in cui si spiega l’origine del nome della rupe Tarpea, narrando la storia della Vestale che, innamoratasi del re sabino Tito Tazio, aveva tradito la patria.
28) La 3 è una lettera d’amore di una sposa (Aretusa) al marito (Licota) impegnato in una spedizione militare in Oriente (dunque ricorda le Heroides di Ovidio); la 5 è una invettiva contro una lena, colpevole di corrompere la puella.

Tibullo: la vita e l'opera


Tibullo

I dati biografici, deducibili dalle sue elegie, sono incerti. Nacque attorno al 50 a.C. a Gabii, nel Lazio, da una famiglia equestre, piuttosto agiata (3), anche se dovette subire la confisca di terreni nel corso delle guerre civili.

Fece parte del “circolo” (o cohors amicorum) di Messalla Corvino (4) (che seguì nelle spedizioni militari, sia in Aquitania che in Oriente). Morì nel 19 a.C., poco dopo Virgilio.

Di lui ci resta il cosiddetto corpus tibullianum, che consta di tre libri di elegie, di cui i primi due certamente autentici, il terzo  comprende prevalentemente poesie di altri poeti, non precisamente identificabili, ma presumibilmente facenti parte del circolo di Messalla.

Il primo libro contiene 10 elegie, in maggior parte (cinque) dedicate ad una donna chiamata Delia (ma ce ne sono anche tre dedicate a un giovinetto di nome Màrato, una è un elogio di Messalla in occasione del suo compleanno, la decima celebra la pace e la vita agreste). La prima ha un evidente valore programmatico: qui infatti il poeta afferma la sua predilezione per la vita semplice in campagna, accanto all’amata Delia; non desidera ricchezze né gloria, e dunque disdegna la vita pericolosa del mercante e del soldato (5); si dedichi Messalla alle imprese gloriose, a Tibullo basta la militia d’amore e il pensiero che Delia gli sarà accanto piangente nel giorno della morte (6). Il motivo dell’amore per la vita campestre torna anche nella decima, ove si deplora la guerra e si esalta funzione civilizzatrice della pace: allora si arrugginiscono le armi e luccicano gli attrezzi del contadino; allora ci si può dedicare ad un’altra militia, quella d’amore; ed è una battaglia che implica litigi ed anche violenza (si sfondano porte, si strappano vesti, si provoca il pianto della fanciulla – ma senza essere troppo maneschi…).

Il secondo libro contiene 6 elegie, in maggior parte (tre) dedicate a una donna chiamata Nemesi (7) (mentre la prima descrive la festa rurale degli Ambarvalia (8), la seconda celebra il compleanno dell’amico Cornuto, la quinta è dedicata al figlio di Messalla, Messalino, in occasione del suo ingresso in un collegio sacerdotale).

Il terzo libro raccoglie 20 elegie, di cui solo le ultime due sono sicuramente autentiche (sono elegie d’amore per una puella di cui non viene fatto il nome). Nelle prime sei un poeta di nome Lìgdamo (9) canta il suo amore infelice per una certa Neèra. La settima è il cosiddetto Panegyricum Messallae (in esametri, celebra le arti oratorie e le virtù militari del mecenate). Nei restanti componimenti (8-18) si canta l’amore di Sulpicia (forse era la nipote di Messalla) per un giovinetto di nome Cerinto: ci sono sia elegie (di Cerinto a Sulpicia) che epigrammi (di Sulpicia a Cerinto) (10).

I temi trattati - quello amoroso soprattutto, ma anche altri: quello del rifiuto della guerra (11), dell’amore per la campagna (12), del disprezzo per le ricchezze (13) - riprendono motivi convenzionali, luoghi comuni consolidati dalla tradizione letteraria, in particolare con riferimento ai modelli alessandrini (Callimaco soprattutto, ma nella idealizzazione della vita dei campi non si può non riconoscere l’influenza dell’opera di Virgilio). Non è un caso che fra le elegie (d’amore, ma non solo) di Tibullo e quelle di Properzio ci siano tante affinità, si presentino situazioni sentimentali analoghe (l’infedeltà della donna e la conseguente gelosia, la condanna al servitium amoris (14), il vagheggiamento della morte confortata dalla presenza dell’amata (15), ecc). Sicchè non è possibile capire fino a che punto quelle liriche rappresentino esperienze realmente vissute o invece si tratti di pure rielaborazioni letterarie.

E’ quasi del tutto assente l’erudizione mitologica, invece caratteristica dell’elegia alessandrina e fondamentale nell’opera di Properzio.

______________________________________________________________________________________________ 

3) Nell’ Epistola I, 4 Orazio invita Albio (Tibullo) a godere dei beni che la sorte gli ha concesso: della ricchezza (dunque era ricco), oltre che della bellezza, dell’intelligenza e della sapienza.
4) Messalla aveva combattuto a Filippi con i cesaricidi, ma era poi passato con Ottaviano (suo collega nel consolato del 31, comandante di una parte della flotta ad Azio, comandante di spedizioni militari), di cui quindi non fu certo un oppositore (checché ne dica Tacito in Ann., VI, 11). Dunque gli intellettuali che si riunivano attorno a lui non rappresentavano tanto una corrente letteraria di opposizione al regime, quanto piuttosto un modo diverso di intendere la poesia (non sostegno e celebrazione del regime, ma disimpegno e autonomia dalla politica; e dunque, come si può vedere in Tibullo, ripresa dei topoi di antica e più recente tradizione letteraria, quali la passione d’amore, la serenità della vita in campagna, la pace contrapposta alla guerra).
5) E’ il confronto fra le diverse scelte di vita, presente anche in Orazio, Carmina I, 1 (ma anche in Satire, I, 1).
6) E’ un motivo che si ritrova anche in Properzio, I, 17.
7) Probabilmente il nome identifica una donna con la quale Tibullo intende “vendicarsi” della infedeltà di Delia.
8) Era una festa campestre che si celebrava all’inizio della primavera e che si incentrava nel rito della purificazione dei campi (lustratio agrorum).
9) Visto che indica nel 43 la propria data di nascita, si crede che possa trattarsi di Ovidio ancora giovane (era nato proprio in quell’anno).
10) Si può credere che dietro quei nomi si nascondano poeti del circolo.
11) Come già visto, nella I, 10. L’esaltazione della pace converge oggettivamente con la politica del princeps (che appunto intendeva presentarsi come colui che aveva posto fine a un lungo periodo di guerre civili), ma è anche un topos a cui, nella poesia tibulliana, si associano le gioie dell’amore e di una vita sobria e serena in campagna.
12) Particolarmente nella II, 1 (per la festa di Ambarvalia), ma anche nella I, 1.
13) Ad esempio, nella I, 1.
14) E’ la “schiavitù d’amore”, ad esempio in II, 4
15) Come già visto, in Tibullo nella I, 1, in Properzio nella I, 17.

L'elegia, dalla Grecia a Roma


L’elegia

L’elegia è un componimento in distici, detti appunto “elegiaci”, composti da un esametro e un pentametro. L’etimologia è incerta (forse da “eleghos”, canto di lamento funebre). Di fatto le tematiche sono varie e poco hanno a che fare con la morte. Già dalla fase più arcaica si distinguono:

1)        l’elegia guerresca, di Callino e Tirteo (VII sec.), che esorta alla battaglia, all’esercizio dell’aretè;

2)        l’elegia politica di Solone (VII-VI sec.);

3)        l’elegia gnomica (o sentenziosa) di Teognide (VI-V sec.), che esalta i valori morali, che si vanno perdendo, del mondo aristocratico.

4)        l’elegia erotica (o amorosa) di Mimnermo (VII-VI sec.), che canta l’amore e la giovinezza che fugge.

Nell’età ellenistica c’è una ripresa del genere, che però si caratterizza soprattutto per la tematica amorosa e per l’erudizione mitologica (così in Callimaco e in Filita di Cos). L’elegia latina riprende quella alessandrina, ma si diversifica perché il mito non è più l’elemento principale e quindi il carattere lirico-soggettivo prevale su quello narrativo-oggettivo. Non è da escludere una contaminazione con l’epigramma alessandrino, che, pur sempre in distici elegiaci, era più breve dell’elegia e trattava tematiche personali.

Catullo può essere considerato il primo autore di elegie (il carmen doctum 68, che collega l’amore mitologico fra Protesilao e Laodamia (1) a quello del poeta per Lesbia, è in linea coi modelli alessandrini). Del resto è proprio Properzio che lo indica come uno dei poeti d’amore, in versi elegiaci, di cui egli stesso si sente successore. Ovidio invece (in Tristia, IV, 10, 51-54) indica come iniziatore Cornelio Gallo (2), e come continuatori Tibullo, Properzio e se stesso (“Vergilium vidi tantum, nec avara Tibullo / tempus amicitiae fata dedere meae. / Successor fuit hic tibi, Galle, Propertius illi; / quartus ab his serie temporis ipse fui”). Quintiliano (nelle Institutiones oratoriae, X, 1, 93) ci indica gli stessi quattro poeti, non in ordine cronologico, ma di valore (“Elegia quoque Graecos provocamus, cuius mihi tersus atque elegans maxime videtur auctor Tibullus. Sunt qui Propertium malint. Ovidius utroque lascivior, sicut durior Gallus”).
_________________________________________________________________

1) Appena sposato, Protesilao dovette partire per Troia. Fu il primo a sbarcare e quindi, secondo la profezia dell’oracolo, il primo a morire. Ottiene dagli dei degli Inferi di poter tornare per un giorno da Laodamia, la moglie inconsolabile. Quando lui ridiscende negli Inferi, lei costruisce una statua di cera con le sue fattezze e ci dorme insieme. Il padre (Acasto) la scopre e fa bruciare la statua. Lei si uccide (buttandosi nel fuoco o pugnalandosi).
2) Nato, secondo alcuni a Forlì (Forum Livi), secondo altri a Frejus (Forum Iulii, fra Nizza e Marsiglia) nel 69-68 a.C., dopo una carriera politica, al seguito di Ottaviano, che l’aveva portato alla prefettura d’Egitto, cadde in disgrazia, fu condannato all’esilio e si diede la morte (27-26 a.C.). La perdita della sua produzione poetica (una raccolta intitolata Amores, in cui cantava, con ricchezza di riferimenti mitologici, il suo amore per una Licoride) è probabilmente dovuta alla damnatio memoriae che dovette subire.

venerdì 29 maggio 2015

Augusto e la cultura


Augusto e la cultura


Augusto, vinto Antonio, si presenta come il difensore dell’Italia e delle sue tradizioni, in contrapposizione alla minaccia dell’Oriente (di quei costumi molli e corrotti dal troppo lusso); e quindi intende recuperare il mos maiorum  (vedi le leggi contro il celibato e l’adulterio) e la religione tradizionale (vedi la restaurazione di antichi culti e riti). Ma, più specificamente, intende rilanciare la piccola agricoltura, ritenuta la base della sanità italica (il “coltivatore diretto” Cincinnato è la personificazione del mos maiorum ).

Le grandi ricchezze accumulate a seguito dell’espansione imperialistica erano state, in parte, investite nell’agricoltura, e precisamente nelle colture pregiate (che richiedono non solo grossi capitali per l’acquisto di terreni, strumenti e schiavi, ma anche l’immobilizzazione di detti capitali, e cioè la capacità di attendere la remunerazione per un tempo relativamente lungo): vite e olivo, allevamento. Ciò aveva comportato l’espulsione dei piccoli proprietari, l’eliminazione della piccola azienda a conduzione famigliare, incapace di reggere la concorrenza di chi produce disponendo di grande quantità di manodopera servile. Il conseguente prevalere del latifondo (e quindi della coltura estensiva a scapito di quella intensiva) aveva comportato, alla lunga, la necessità di importazioni alimentari (vino dalla Gallia, olio dall’Africa), ovvero la passività della bilancia commerciale italiana; sul piano sociale, la riduzione del piccolo proprietario a bracciante agricolo o proletario urbano. Le Bucoliche  virgiliane risentono di questa condizione di precarietà in cui si trova il piccolo proprietario; le Georgiche invece corrispondono al programma augusteo di rilancio della piccola proprietà.

Per quanto riguarda la letteratura, Augusto ne capisce l’importanza propagandistica: in particolare, si tratta di superare il neoterismo (poesia come lusus, rivolta ad un pubblico ristretto), senza per questo rinunciare alle conquiste di raffinatezza stilistica. Ciò che si vuole, è una letteratura impegnata, moralmente e civilmente: in concreto, Augusto auspica la rinascita del teatro (vedi Epistole II, 1, in cui Orazio obietta alle direttive culturali del princeps ) e del poema epico (l’Eneide ).

 Lui stesso si dilettò di letteratura, ma la sua autobiografia (De vita sua) e la raccolta delle Epistulae  sono andate perdute: ci resta il Monumentum Ancyranum  (o Res gestae Divi Augusti), una iscrizione, su due tavole di bronzo, ritrovata ad Ankara (ma dovevano essercene altre in altri luoghi dell’impero) che, in uno stile semplice e lapidario, riassumeva e propagandava il senso della sua opera politica.

Ma un vero e proprio ministro della cultura fu Mecenate (70-9 a. C.), dell’ordine equestre, lui stesso dilettante di poesia, ma famoso, piuttosto, per l’opera di organizzazione culturale (riunì nel suo “circolo” Virgilio, Orazio, Properzio) e di mediazione fra le predilezioni individuali degli autori e la funzione civile cui il regime chiamava la letteratura.

Una funzione di opposizione hanno invece i circoli di Asinio Pollione (cesariano, si era ritirato dalla politica attiva; fondò la prima biblioteca pubblica ed introdusse l’uso delle recitationes di opere poetiche in pubblico; Virgilio gli dedicò l’ecloga IV) e di Messalla Corvino (aveva combattuto ad Azio con Ottaviano, poi si era ritirato dalla politica, vedendo perdersi gli ideali repubblicani; protesse poeti, fra cui Tibullo, in nome di una poesia disimpegnata, di ispirazione arcadica).