domenica 31 maggio 2015

Ovidio: la vita e l'opera


Ovidio

Nacque a Sulmona, nel 43 a.C. da famiglia di rango equestre. Trasferitosi a Roma – e dopo viaggi di studio in Grecia e Asia minore – rinunciò alla carriera politica per dedicarsi alla poesia (29). Entrato nel circolo di Messalla, ottenne subito successo con la sua prima raccolta di elegie (Amores). Seguirono le Heroides, quindi l’Ars amatoria, accompagnata dai Remedia amoris e dai Medicamina faciēi feminĕae. Fra l’1 e l’8 d.C. si dedica alla poesia eziologica (i Fasti) e al poema mitologico (le Metamorfosi). Nell’8 d.C. c’è la condanna all’esilio (30) a Tomi (31), sul mar Nero (o Pontus Euxinum). Non del tutto chiare le ragioni di tale punizione, cui lo stesso Ovidio allude nei Tristia parlando di duo crimina, carmen et error: quanto al carmen si può presumere che la sua poesia eccessivamente licenziosa fosse sgradita al regime, che intendeva restaurare i buoni costumi della tradizione (e invece l’Ars amatoria in particolare sembrava istigare all’adulterio); ma forse più colpevole era l’error, e cioè il possibile coinvolgimento in uno scandalo di corte con protagonista Giulia, la nipote, piuttosto dissoluta, dell’imperatore (32). La pena non gli fu condonata né da Augusto, né dal suo successore Tiberio, malgrado le implorazioni ricorrenti nelle elegie composte a Tomi (cioè, nei Tristia e nelle Epistulae ex Ponto). Rimase a Tomi fino alla morte, nel 18 d.C.

Negli Amores (tre libri, 50 componimenti dedicati a una donna chiamata Corinna) ritornano i temi tipici dell’elegia amorosa: la militia amoris, il lamento per l’infedeltà della donna, la gelosia, la soggezione alla domina, i riferimenti mitologici. Ma in lui si avverte la mancanza di una partecipazione passionale, la vicenda amorosa sembra un gioco divertente, l’elegia un brillante esercizio letterario teso alla ricerca di effetti sorprendenti, quando non paradossali. Qualche esempio: in II, 4 passa in rassegna una serie di tipi di donne e confessa di essere attratto da tutte; in II, 19 se la prende con il custos della puella (da intendersi come il marito o l’amante ufficiale, solitamente detestato dal poeta elegiaco) perché non custodisce bene la donna – e dunque a sottrargliela c’è poco gusto; di un cinismo spudorato la II, 8 e la II, 9: nella prima giura solennemente a Corinna di non averla tradita con la schiava Cypassis, nella seconda si rivolge alla stessa Cypassis che vorrebbe interrompere la relazione, e la ricatta minacciando di dire tutto alla padrona.

Una variante del genere elegiaco (33) sono le Heroides, un’opera costituita da 21 lettere divise in due gruppi: 15 sono scritte da eroine mitiche ai rispettivi mariti o amanti (34), 6 sono scambi epistolari fra tre coppie mitiche (35). Si tratta in genere di componimenti in cui le donne, rivendicando la propria fedeltà e ricordando il passato felice, lamentano o la lontananza o il tradimento del proprio marito o amante.

Un poemetto in distici che si sviluppa in tre libri è l’Ars amatoria, con cui il poeta, atteggiandosi a praeceptor amoris, intende insegnare ad uomini (nei primi due libri) e a donne (nel terzo libro) le tecniche della seduzione amorosa. Per l’uomo si tratta di una specie di caccia (espressioni come venari, tendere retia, laqueos ponere sono frequenti): la donna è una preda che va cercata nei teatri, nei templi, nei conviti, e va “catturata” facendo ricorso a diversi espedienti (ad esempio, ingraziandosi il marito, cercando la complicità di ancelle compiacenti, ecc.); corteggiandola e lusingandola con tenacia si vincerà la sua resistenza, perché la libido della donna è senza limiti ed in realtà essa vuole ciò che finge di rifiutare. Viceversa alle donne che vogliono piacere agli uomini si danno consigli sulla cura della persona (acconciatura, vestiti, trucco) e sul comportamento: la donna deve essere allegra e disponibile, deve saper danzare e cantare, soprattutto deve farsi desiderare, fingendo resistenza alle profferte dell’uomo. L’amore diventa così un frivolo gioco mondano, fatto di galanterie e abili schermaglie, il cui obiettivo è il piacere sessuale (spes Veneris) a prescindere da ogni sincera passione. Si capisce dunque come tale opera potesse non piacere al regime, che voleva restaurare i buoni costumi della tradizione: Ovidio – pur proponendo un enfatico elogio del principe nel primo libro – contrappone esplicitamente la rusticitas degli avi al cultus, cioè alla raffinata eleganza, dello stile di vita moderno che lui dichiara di prediligere (36).

Di poco successivo è il poemetto, sempre in distici, Remedia amoris, con cui il praeceptor diventa il medicus che prescrive i rimedi necessari per guarire dalla “malattia”, e quindi dalle sofferenze, d’amore. La mano che ha inferto la ferita è ora quella che dona la cura (37). Dunque bisognerà fare il contrario di quello che si è insegnato precedentemente: non frequentare i suddetti luoghi d’incontro, preferire la campagna alla città, dedicarsi allo sport, ai viaggi; più specificamente, concentrarsi sui difetti della puella di cui si è innamorati (da notare che i consigli sono rivolti solo agli uomini, e dunque il poemetto si collega ai primi due libri dell’Ars amatoria).

Del contemporaneo Medicamina faciēi feminĕae (“I cosmetici femminili”) ci restano un centinaio di versi contenenti consigli e ricette per creme di bellezza.

Con i Fasti (dovevano essere 12 libri, uno per ogni mese dell’anno, ma ci restano solo i primi 6, da gennaio a giugno: presumibilmente l’opera si interruppe a seguito dell’esilio) Ovidio si dedica alla poesia eziologica, che aveva come grande modello gli Aitia di Callimaco e come riferimento romano il IV libro delle elegie di Properzio. L’intento è quello di spiegare l’origine – mescolando storia e leggende, narrando aneddoti e vicende dell’antichità – delle festività (appunto, i dies fasti), delle celebrazioni religiose, dei loro nomi. Si tratta dunque di una poesia erudita, secondo il gusto alessandrino, per la quale il poeta utilizza svariate fonti - sia l’opera storica di Livio, sia l’imponente opera antiquaria di Varrone Reatino (38).

Con le due raccolte di poesie scritte in esilio (5 libri di Tristia e 4 di Epistulae ex Ponto), Ovidio adotta l’elegia nel senso originario di “poesia del lamento”: esprime infatti il suo dolore per la sventura capitatagli, la nostalgia per la patria lontana e per le persone care, implora il perdono dell’imperatore - prima di Augusto, poi di Tiberio, ma senza risultato (39).

Al periodo dell’esilio appartiene anche un poemetto in distici elegiaci, Ibis (40), ad imitazione di un omonimo componimento di Callimaco. Si tratta di un lunga invettiva, sostenuta da eruditi riferimenti mitologici, contro un avversario di cui viene taciuto il nome. Di attribuzione incerta è invece un frammento di 130 esametri, intitolato Halieutica, sui pesci e sull’arte della pesca.

Ma il capolavoro di Ovidio è senz’altro le Metamorfosi, un poema in 15 libri, in esametri, con cui il poeta si propone – come dice nel proemio – di abbandonare l’elegia per comporre “un canto continuo (carmen perpetuum), dalla prima origine del mondo sino ai tempi miei” (41). E’ un poema epico (lo dice anche l’espressione carmen continuum, usata già da Callimaco per indicare componimenti di ampia estensione), ma di genere non eroico (sull’esempio di Virgilio o dei poemi omerici), bensì mitologico, secondo il modello della Teogonia di Esiodo (42). Non è, come vorrebbe il canone epico, un’opera con un protagonista e con una vicenda unitaria che si svolge entro tempi limitati, ma è una narrazione che inizia dal Caos primitivo (così è anche in Esiodo), si sviluppa attraverso una serie di generazioni mitiche e giunge fino all’età contemporanea (all’apoteosi di Cesare e alla celebrazione di Augusto). Su questo impianto, cronologicamente piuttosto generico, si innesta la successione dei miti di trasformazione (più di 250), connessi l’uno all’altro con “cerniere” che spesso si rivelano abili, ma artificiosi e forzati espedienti (43). A volte la tecnica è quella del “racconto a cornice”, che consiste nell’ inserire un racconto nel racconto, per cui i personaggi di storie narrate dal poeta diventano a loro volta narratori di altre storie (44). Con il libro XII si giunge all’età della guerra di Troia, seguono il viaggio di Enea e le leggende relative alle origini di Roma. Nell’ultimo libro ben 400 versi sono dedicati al discorso che Pitagora rivolge al re Numa Pompilio: non solo gli predice l’avvento di Cesare e la sua divinizzazione (si trasformerà in una cometa), ma anche gli espone la teoria della metempsicosi e teorizza la metamorfosi come principio universale, secondo cui ogni forma di vita muta continuamente in una forma nuova (45). Dunque la metamorfosi è il fondamentale principio unificatore del poema, principio esplicato nei miti narrati, ma anche verità filosofica, riconosciuta nella vita dell’universo.

Nei versi finali il poeta celebra Augusto, signore della terra (46), e gli augura lunga vita; per se stesso e per il proprio poema prevede orgogliosamente – in modi che ricordano quelli di Orazio nell’ode III, 30 – l’immortalità (47).

E’ un’opera grandiosa, per la concezione e per la ricchezza di personaggi e di storie stupefacenti. Alla straordinaria inventiva si associa un’abilità quasi virtuosistica nel descrivere le metamorfosi, tanto negli aspetti spettacolari quanto nei connessi risvolti psicologici: il mutamento – che è quasi sempre passaggio dalla condizione umana a quella animale o vegetale – è rappresentato soprattutto nel momento in cui il protagonista sperimenta la perdita della facoltà di movimento e/o di comunicazione. Altrettanto notevole è l’abilità linguistica, che si manifesta in vari modi nella descrizione di quelle vicende paradossali: si va dalla frase fulminea e precisa (48) al raffinato gioco di parole (49).
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29) Sono tutte informazioni che ci dà lui stesso nei Tristia. A questo proposito ci dice, ad esempio, che il padre gli rimproverava la passione per la poesia, ma lui era talmente predisposto che tutto ciò che scriveva, anche in prosa, assumeva il ritmo dei versi.
30) Meglio sarebbe dire “soggiorno obbligato”, perché conservò sia i beni che la cittadinanza.
31) Oggi Costanza, in Romania.
32) Che si tratti di questo ce lo suggerisce il fatto che nello stesso anno Giulia Minore (figlia di Giulia, a sua volta figlia di Augusto) venne relegata nelle isole Tremiti.
33) Un precedente si può ritrovare in Properzio, IV, 3 (la lettera di Aretusa a Licota).
34) Ad esempio, Penelope ad Ulisse, Didone ad Enea, Medea a Giàsone, ecc.
35) Paride ed Elena, Leandro ed Ero (lui, che abitava nella sponda asiatica dell’Ellesponto, si era innamorato di lei, sacerdotessa di Afrodite, che viveva sulla sponda europea; per stare con lei, Leandro attraversava  a nuoto lo stretto ogni notte, guidato da una fiaccola che lei teneva accesa in cima a una torre; ma una notte il vento spense la fiaccola e lui morì andando a sbattere contro gli scogli; lei disperata si gettò dall’alto della torre), Aconzio e Cidippe (lui, pellegrino a Delo, presso il tempio di Artemide, si era innamorato di lei; per averla, ricorre a un’astuzia: incide sulla buccia di una mela le parole “Giuro su Artemide di sposare Aconzio”; lei legge ad alta voce e a questo punto è vincolata dal giuramento; non le sarà possibile sposare altri che lui).
36) “ Simplicitas rudis ante fuit: nunc aurea Roma est, / et domiti magnas possidet orbis opes. /…. Prisca iuvent alios: ego me nunc denique natum / Gratulor: haec aetas moribus apta meis.” (III, 113-14, 121-22). “C’è stata un tempo la rozza semplicità; ora c’è una Roma d’oro, che possiede le grandi ricchezze del mondo soggiogato…. Piacciano ad altri i tempi antichi; io sono contento di essere nato adesso; questa età si addice ai miei gusti.”
37) “Discite sanari, per quem didicistis amare: / Una manus vobis vulnus opemque feret( (vv.43-44). “Imparate a guarire, da colui dal quale imparaste ad amare: una stessa mano vi darà la ferita e la salvezza”
38) Grande erudito, vissuto fra il 116 e il 27 a.C., aveva composto, tra l’altro, 25 libri di Antiquitates rerum humanarum e 16 di Antiquitates rerum divinarum (opere andate perdute).
39) Il II libro dei Tristia è un’unica grande implorazione rivolta ad Augusto. Quanto a Tiberio, Ovidio se ne vuole accattivare la benevolenza elogiando Germanico (Ep. ex Ponto, IV, 8) nipote dell’imperatore ed erede predestinato. Del resto a Germanico sono anche dedicati i Fasti (è da presumere che in esilio questa nuova dedica abbia sostituito quella originaria ad Augusto, ormai morto).
40) E’ il nome di un uccello egiziano, noto per l’abitudine di cibarsi di escrementi.
41) In nova fert animus mutatas dicere formas / corpora; di, coeptis (nam vos mutastis et illas) / adspirate meis primaque ab origine mundi / ad mea perpetuum deducite tempora carmen!” “L’animo mi spinge a narrare le trasformazioni in nuovi corpi; o dèi (infatti voi avete compiuto anche quei mutamenti), ispirate la mia impresa e ordite un carme ininterrotto dall’origine del mondo sino ai miei tempi”.
42) Vissuto fra l’VIII e il VII sec. a.C., nella Teogonia (un poema in esametri) Esiodo aveva narrato le vicende mitologiche dal Caos primordiale fino allo stabilirsi del regno di Zeus.
43) Ad esempio, nel libro VI, il legame fra la storia di Niobe (aveva offeso Latona, i cui figli, Artemide e Apollo, la vendicarono sterminando i figli di Niobe; costei, per il dolore, divenne un blocco di pietra che continua a lacrimare) e quella di Aracne (aveva sfidato Atena nell’arte del filare; sconfitta, era stata trasformata in ragno) è dato dal fatto che la prima aveva conosciuto la seconda, ma dal suo esempio non aveva imparato. O anche, nel libro III, quando si narra di Cadmo, di suo nipote Atteone e di sua figlia Sémele (madre di Bacco),  si inseriscono le vicende estranee di Tiresia (il pretesto è che sia contemporaneo all’infanzia di Bacco), di Narciso ed Eco (come esempio delle capacità divinatorie di Tiresia).
44) Ad esempio, nel libro X è Orfeo che narra una serie di miti metamorfici; o anche, nel libro IV le Minieidi (figlie di Minia), destinate a trasformarsi in pipistrelli, raccontano le storie d’amore e di trasformazione di Piramo e Tisbe, di Ermafrodito e Salmacide.
45) nihil est toto, quod perstet, in orbe. / cuncta fluunt, omnisque vagans formatur imago; / ipsa quoque adsiduo labuntur tempora motu, / non secus ac flumen” (XV, 177-180). “Non c’è niente che persista in tutto il mondo. Tutto scorre, e incerta si forma ogni immagine; il tempo stesso scivola via con moto continuo, non diversamente da un fiume”.
46) Iuppiter arces / temperat aetherias et mundi regna triformis, / terra sub Augusto est” (XV, 858-60) “Giove governa le rocche del cielo e i regni del mondo triforme, la terra soggiace ad Augusto”.
47) Iamque opus exegi, quod nec Iovis ira nec ignis / nec poterit ferrum nec edax abolere vetustas. / Cum volet, illa dies, quae nil nisi corporis huius / ius habet, incerti spatium mihi finiat aevi: / parte tamen meliore mei super alta perennis  / astra ferar, nomenque erit indelebile nostrum, / quaque patet domitis Romana potentia terris, / ore legar populi, perque omnia saecula fama, / siquid habent veri vatum praesagia, vivam.” (XV, 870-79) “Ormai ho compiuto l’opera che non potrà cancellare né l’ira di Giove, né il fuoco, né il ferro, né il tempo che corrode. Venga quando vorrà quel giorno che ha giurisdizione solo sul mio corpo e ponga fine al tempo incerto della mia vita: salirò tuttavia per sempre con la parte migliore di me alle stelle e il mio nome sarà indistruttibile; e fin dove si estende la potenza romana sulle terre assoggettate, reciteranno i miei versi le labbra del popolo ed io, grazie alla fama, se hanno qualcosa di vero le profezie dei poeti, vivrò per tutti i secoli.”
48) Così, in I 721, è descritta la morte di Argo, dotato di cento occhi: “centumque oculos nox occupat una”, “un’unica notte invade i cento occhi”.
49) Così, in III 425-26, si descrive Narciso che s’innamora di se stesso: “Se cupit imprudens et, qui probat, ipse probatur, / dumque petit petitur, pariterque accendit et ardet”, “Senza saperlo, desidera se stesso; quello stesso che apprezza è apprezzato, mentre cerca è cercato, nello stesso tempo accende e brucia.”


 

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