giovedì 28 maggio 2015

Plauto: la vita e l'opera


Plauto


Nacque a Sàrsina, nell’entroterra riminese (oggi in provincia di Forlì, ma allora considerata terra umbra), attorno al 260 a. C.; morì a Roma attorno al 184 a. C.. Ci sono incertezze anche sul nome, Titus Maccius Plautus: Maccius era probabilmente un nomignolo, affibbiatogli, è da presumere, perché come attore recitava la parte di Maccus, un personaggio dell’atellana; Plautus rimanderebbe ad una forma umbra Plotus, “piedi piatti”, ma potrebbe significare anche “dalle orecchie penzolanti” (come si dice di certi cani); e infatti nel prologo della Càsina l’autore è chiamato “Plautus cum latranti nomine”.

Secondo Varrone (grande erudito dell’età di Cesare), Plauto era arrivato a Roma al seguito di una compagnia teatrale, aveva male investito in commerci i suoi proventi e quindi, ridotto in miseria, aveva dovuto girare la macina di un mulino; allora si sarebbe messo a scrivere commedie e avrebbe ottenuto uno straordinario successo, sicché, dopo la sua morte, gli venivano attribuite centotrenta commedie; Varrone ne identificò ventuno come autentiche e diciannove come dubbie: le ventuno - o meglio venti, perché la Vidularia, o “commedia del bauletto”, è quasi completamente perduta - sono quelle tramandateci dai codici.

La struttura prevede il prologo (recitato da una divinità, o da un attore col nome di Prologus o da un personaggio della commedia), l’azione (divisa in scene; la ripartizione in cinque atti è di età umanistica) e l’epilogo (con il lieto fine e il plàudite  rivolto al pubblico). Parti recitate (i deverbia, in senari giambici) si alternano a parti con accompagnamento musicale (“recitativi”, in versi “lunghi”, accompagnati dal flauto; o cantica, in versi lirici, veri e propri pezzi cantati): talché qualcuno paragona la palliata plautina all’operetta o al musical moderno.

Gli intrecci sono quelli tipici della commedia nea: complicati, ma anche molto ripetitivi. Buona parte delle commedie presenta questo schema di base: il giovane (adulescens  o erilis filius) si innamora di una donna (spesso una etéra, o una fanciulla di condizione sociale troppo umile); l’amore è avversato dal padre (tradizionalista e gretto, non è disposto a concedere né danaro né consenso all’amore del figlio), dagli avidi mezzani (la lena e il leno, quest’ultimo, in particolare, vero e proprio “malommo” della fabula), dal miles gloriosus (fanfarone e prepotente); il giovane è aiutato da un amico, o da un parassita, o, più spesso, dal servus callidus (audace e intelligente, trova gli espedienti per raggirare padri e mezzani); topos conclusivo è quello dell’agnitio, o “riconoscimento” (la etéra è in realtà una libera, perduta o rapita da bambina; la fanciulla troppo umile si rivela di condizione sociale adeguata), che consente il matrimonio e la riconciliazione finale fra padri e figli.

Manca l’attenzione sia per la coerenza della trama (ciò che conta è la comicità immediata della singola scena), sia per l’approfondimento psicologico (ciò che conta non è la verisimiglianza, ma la comicità che si ottiene accentuando i tratti caricaturali: gli innamorati sono languidi, le mogli sono bisbetiche, i parassiti sono voraci, ecc.); sono commedie motoriae  (di movimento, di azione) e non statariae  (statiche, di introspezione).

Nel servus sembra identificarsi il poeta (Pseudolus, il protagonista dell’omonima commedia, lo dice chiaramente[1]); ma poiché il servus trionfa sul vecchio padrone, cosiccome sul miles (e a Roma tanto la figura paterna quanto quella del soldato sono figure tradizionalmente positive), dobbiamo vedere nel teatro plautino una critica dei valori dominanti nella società romana? Non è da credersi, ma piuttosto (secondo la lettura che Bachtin[2] fa del carnevale, come momento del rovesciamento burlesco della realtà) dobbiamo pensare a quell’elemento tipico del comico che consiste nell’immaginare un mondo alla rovescia.

Altri invece ci vogliono vedere una difesa del mos maiorum (sulla linea anti-ellenica di Catone) ed una denuncia dei mores Graecorum[3], di cui sono rappresentative quelle figure umane (che fanno ridere, ma sono negative: dal giovane scioperato, al parassita, al lenone). La verità è che in Plauto non è riconoscibile una chiara posizione ideologica; di volta in volta si fa portavoce di opinioni e giudizi contrastanti; vuole divertire, non ammaestrare.

Circa i rapporti con i modelli della nea, è lo stesso Plauto che usa in qualche prologo l’espressione vortere barbare (“tradurre in barbaro”, cioè dal greco al latino); ma, da quel che sappiamo sulla nea (maggiori erano la compostezza stilistica e l’interesse psicologico)[4], più che di traduzioni si tratta di libere rielaborazioni (certamente anche con l’uso della contaminatio). Il ritrovamento nel 1968 di un papiro che riporta una parte del Dis exapatòn (“colui che inganna due volte”) di Menandro, consente il confronto con la corrispondente parte delle Bacchides: non solo i nomi sono cambiati, ma è diverso il modo di trattare l’equivoco (il protagonista crede, a torto, di essere stato tradito dall’amico): in Menandro ha rilievo l’aspetto psicologico, sottolineato da monologhi, e l’incontro tra i due amici assume toni patetici; in Plauto scompaiono psicologismi e patetismi, per dare spazio alla comicità (nell’incontro, il presunto traditore non sa che l’amico ce l’ha con lui).

La comicità è piuttosto “grossa” (e questo spiega il suo successo popolare): è affidata agli equivoci, alle esagerazioni caricaturali, ai giochi di parole, ai doppi sensi, ai cumuli (ad esempio, di insulti: si veda, nello Pseudolus, la sequenza degli improperi di Calidoro e del suo schiavo Pseudolo nei confronti del mezzano Ballione). La lingua è varia: ci sono grecismi (moechissare, “comportarsi da adultera”), incredibili neologismi realizzati per fusione di parole (in Persa, “Il persiano”, lo schiavo dice di chiamarsi Vaniloquidorus Virginesvendonides ecc.; cioè “Frottolidoro Vendileragazze ecc.”), forme del parlato.

Tipica è anche la tendenza a sottolineare il carattere fittizio dell’evento teatrale: si attua cioè la rottura dell’illusione scenica (nell’Aulularia, “La commedia della olla, o pignatta”, Euclione chiede agli spettatori di aiutarlo a ritrovare la pentola col suo tesoro; nella Cistellaria, “La commedia della cesta”, una serva che ha perduto la sua cesta chiede aiuto al pubblico; ecc.); a volte si tratta di vero e proprio metateatro (ciò che è oggetto del teatro è il teatro stesso: nel Mercator, “Il mercante”: “Hai paura di svegliare gli spettatori che si sono addormentati?” ; nel Poenulus , “Il cartaginese”, un personaggio spiega che le monete d’oro contenute in una borsa sono “oro da commedia”, cioè lupini, non vero oro; nel Persa, dovendo trovare gli abiti per un travestimento, il servo dice: “Chiedili al capocomico; è tenuto a fornirli, visto che gli edìli glieli hanno dati in appalto perché li metta a disposizione degli attori” ; ecc.).




[1]“Come un poeta che, quando piglia in mano le tavolette, cerca e ricerca ciò che non esiste in nessuna parte del mondo e tuttavia finisce per trovarlo e rendere credibile quello che è solo una pura invenzione, be’, ora io farò conto di essere un poeta: le venti mine, che non esistono in nessun angolo della terra, saprò trovarle comunque.”
[2]M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi 1979.
[3]Nel Curculio  il protagonista si scaglia contro i greci fannulloni, ubriaconi e profittatori. Nella Mostellaria  si usa il verbo pergraecari  col significato di “gozzovigliare”, cioè “vivere in maniera dissoluta alla maniera dei greci”.
[4]Come è noto, sulla nea  sappiamo poco, perché disponiamo solo di frammenti (anche ampi) e di una sola commedia intera di Menandro (il Dyskolos, o “Misantropo”, che, fra l’altro, non fu il modello di nessuna delle palliate latine a noi pervenute).

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