7)
Ritroviamo la figura di Ulisse in ben tre testi della produzione di Pascoli.
Il ritorno (da Odi e inni). Ulisse, accompagnato
dai Feaci, sbarca ad Itaca. Dorme, viene depositato sulla spiaggia insieme a
tutti i suoi beni e i Feaci ripartono. Quando l’eroe si sveglia, crede di
essere stato ingannato, perché non riconosce in quella terra aspra e rocciosa
la sua Itaca, l’isola dei suoi ricordi, della fonte Aretusa, dell’antro delle
ninfe, degli alberi fioriti. E’ una fanciulla che viene alla fonte per lavare
le vesti a rivelargli che quella è proprio Itaca, e lo invita a guardare la
trasparenza dell’acqua per riconoscere che quella è proprio la fonte Aretusa.
Ulisse guarda, si specchia nella fonte, vede se stesso vecchio e rugoso, stenta
a riconoscersi. Con amarezza capisce che non è l’isola ad essere cambiata, ma
lui stesso (“Io era, io era mutato! / Tu, patria, sei come a quei giorni! /
Io, sì, mio soave passato, / ritorno, ma tu non ritorni…/”). La gloria e la
bellezza sono nel ricordo, non esistono più; il presente è la triste banalità
del quotidiano. Nel finale, il coro delle ninfe lo invita a mordere il fiore
del loto: solo così troverà la serenità e potrà rivedere, in sogno, le vicende
irrevocabili del passato.
8)
L’ultimo viaggio (dai Poemi conviviali). Il vecchio
Ulisse è stanco della vita in Itaca, vuole riprendere il mare insieme ai vecchi
compagni (che lo hanno sempre aspettato, tenendo pronta la nave) al pitocco Iro
e all’aedo Femio; vuole rivedere i luoghi indimenticabili del passato, rivivere
le proprie avventure, accompagnato dal canto eternatore dell’aedo. Ma ciò
che la prima volta era sembrato grande ed eroico si rivela ora banale e
quotidiano (o meglio: demitizzato da una spiegazione
naturalistica). All’isola di Circe non si sentono i leoni che
ruggiscono, né si sente il canto della maga, se non di notte, come in sogno.
L’aedo muore, e la sua cetra resta appesa a un albero. All’isola di Polifemo
non ci sono ciclopi, ma, in quello che fu l’antro del gigante, solo un pastore
che li accoglie ospitale; dice di non avere mai visto ciclopi, ma bensì
l’occhio rosso di un monte (un vulcano) che faceva piovere (eruttava) pietre
nel mare. All’isola delle Sirene, dove l’eroe vorrebbe ora sentire quel canto
senza essere legato da funi all’albero maestro, non vede altro che scogli,
dall’aspetto di sirene, verso cui una corrente “rapida e soave” trascina
la nave. Ulisse vorrebbe sapere la verità su se stesso e sul senso della vita
(“Son io! Son io, che torno per sapere!”), anche a costo di aggiungere
le sue alle altre ossa che biancheggiano sugli scogli (“Solo mi resta un
attimo. Vi prego! / Ditemi almeno chi son io! Chi ero!”). Sugli scogli si
sfascia la nave di Ulisse, ma le onde del mare lo trasportano fin sulla
spiaggia dell’isola di Calypso, la Nasconditrice. La dea (l’unica che dunque
esiste veramente) ritrova morto l’uomo che rifiutò il suo amore e rifiutò
l’immortalità che lei gli offriva, per ritornare al mare e al suo dolore. Ed è
lei che svela l’attesa verità: “Non esser mai! Non esser mai! Più nulla, /
ma meno morte, che non esser più!”; il segreto è il non essere mai nato;
questo, rispetto alla morte, al “non esser più”, è un nulla maggiore, un
“più nulla”, ma meno doloroso della morte, “meno morte”, in
quanto esclude l’attraversamento della vita, l’esperienza del dolore e,
soprattutto, la coscienza del nulla da cui si emerge e in cui si precipita). E
dunque il vecchio Ulisse è come un Don Chisciotte cui Sancho Panza mostra
l’inconsistenza dei suoi sogni: non sirene, ma scogli, non il ciclope,
ma un vulcano (non i giganti, ma i mulini a vento). La vita eroica è pura
illusione, esiste nel canto degli aedi, nel sogno, nel ricordo; nella vita
reale esiste la banalità del quotidiano, incapace di riempire di senso la vita.
Ma d’altra parte non c’è altro senso che quello rivelato da Calypso, ed è la
terribile verità della sapienza silenica.
9)
Il sonno di Odisseo (dai Poemi conviviali).
Partendo del testo omerico (Odissea, X, 28-55) che racconta in pochi
versi del momento in cui, dopo nove giorni di navigazione, i compagni di
Ulisse, invidiosi delle ricchezze che presumono che lui stia portando ad Itaca,
aprono gli otri in cui Eolo aveva benevolmente rinchiusi i venti contrari alla
navigazione, Pascoli costruisce un poemetto (sette strofe) carico di
significati allusivi ed inquietanti (come è proprio della sua sensibilità).
Ulisse vede all’orizzonte “non sapea che nero: nuvola o terra?”, ma
sfinito si addormenta. Le strofe che seguono descrivono l’avvicinarsi della
nave all’isola e, come in una ripresa cinematografica, il comparire del porcaro
Eumeo intento al suo lavoro, dell’”eccelsa casa” di Ulisse (da cui si
sente provenire il suono del “garrulo telaio” di Penelope), di Telemaco
che aspetta nel porto appoggiato alla lancia “dalla bronzea punta”, del
cane Argo che corre scodinzolando, di Laerte che interrompe il lavoro dei campi
per guardare “l’infinito mare” appoggiato alla marra. Ma poi gli otri
vengono aperti, la nave è trascinata lontano, Odisseo si sveglia e vede ancora
quel “non sapea che nero”. Non sappiamo se tutto ciò che è stato
descritto sia apparso realmente mentre Ulisse dormiva, o si sia trattato di un
sogno: le formule verbali o avverbiali che introducono le apparizioni sono
volutamente ambigue (“e venne incontro”, “apparve”, “ed ecco”,
ecc.). Ma l’ipotesi del sogno sembra più convincente: le immagini appaiono in
una loro fissità a-temporale (come è proprio del ricordo e del sogno) e il
preciso parallelismo fra il momento dell’addormentamento e quello del risveglio
fanno pensare che l’unica cosa reale che Ulisse vede sia quel “non sapea che
nero” (allusione al male, alla morte?) e che tutto ciò che sta nel mezzo
sia la visione sognata (espressione di un desiderio che mai si realizza, sempre
sfugge?), come sembra testimoniare l’uso ripetuto del “forse”
nell’ultima strofa.
10)
Le strofe (7, di 18 endecasillabi sciolti) hanno tutte una loro autonomia (nel
senso che ognuna si sofferma su un elemento della visione), ma sono collegate
da precise simmetrie, richiami, parallelismi). La sequenza
narrativa (se di narrazione si può parlare, perché in Pascoli, come sempre, si
tratta piuttosto di una sequenza di immagini) si può schematizzare così:
a. la prima strofa
è introduttiva (indica la situazione di partenza) e si conclude con
l’addormentamento di Ulisse; la seconda strofa descrive l’avvicinamento ad
Itaca (e sembra che sia l’isola che “veleggia” incontro alla nave, non
viceversa); la terza e la quarta descrivono altri elementi che compaiono mentre
la nave si avvicina (il porcaro Eumeo che intaglia pali per il recinto, le api
che “filano” il miele, l’ “eccelsa casa”), ma già indicano, in un
crescendo segnalato dai paragoni (prima “volar parole, simili ad uccelli”,
poi “simili a frecce, andavano parole”), il prender corpo della congiura
dell’equipaggio; la quinta e la sesta rappresentano la tempesta che si scatena
e quindi l’allontanarsi irrimediabile delle cose e dei personaggi (si
allontanano Telemaco, il cane Argo, Laerte); la settima descrive il risveglio
di Ulisse e, come in un riassunto, riprende tutte le cose e i personaggi che
avrebbe voluto vedere e che invece non vede.
b. I versi finali
delle strofe collegano come in un cerchio la successione degli avvenimenti:
del “cuore d’Odisseo” si dice, al centro (strofa IV) che è “perduto
nel sonno”; nelle due strofe precedenti e nelle due seguenti si dice, in
ordine chiastico, “notando nel sonno” e “tuffato nel sonno”;
nella prima e nell’ultima si dice, rispettivamente, “s’immerse nel sonno”
ed “emerso dal sonno”. Oltre a ciò si deve notare che i verbi usati sono
appropriati ad una metafora che identifica il sonno con il mare (dove ci si
immerge, si nuota, ci si tuffa). Ma la simmetria è rintracciabile anche in un
altro aspetto: nella strofa centrale si dice che Ulisse “non udì e non vide”
ciò che si avvicinava; nelle due precedenti e nelle due seguenti si dice,
ancora in ordine chiastico, “non già lo vide” e “non già li udiva”;
nella prima e nell’ultima ritorna, associato rispettivamente all’addormentamento
e al risveglio, lo stesso aggettivo, “lontano” .
c. E questa, che
apre e chiude il componimento, può esserne la parola chiave:
parola leopardiana, carica di indeterminatezza e, nel caso di Pascoli, di
mistero; a indicare, forse, la inattingibilità del vero, che è sempre un po’
più in là della diretta esperienza sensibile? Certo, il cuore di Ulisse che si
immerge “lontano” sembra entrare in un’altra dimensione (quella del sogno, che
è “l’infinita ombra del vero”, come si dice in Alèxandros); e il
“nero” che dilegua “lontano” sembra essere una verità che sfugge, anche se nel
colore luttuoso e minaccioso è riconoscibile l’allusione alla morte.
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