martedì 26 maggio 2015

Ulisse nella letteratura (II parte)


7)                  Ritroviamo la figura di Ulisse in ben tre testi della produzione di Pascoli. Il ritorno (da Odi e inni). Ulisse, accompagnato dai Feaci, sbarca ad Itaca. Dorme, viene depositato sulla spiaggia insieme a tutti i suoi beni e i Feaci ripartono. Quando l’eroe si sveglia, crede di essere stato ingannato, perché non riconosce in quella terra aspra e rocciosa la sua Itaca, l’isola dei suoi ricordi, della fonte Aretusa, dell’antro delle ninfe, degli alberi fioriti. E’ una fanciulla che viene alla fonte per lavare le vesti a rivelargli che quella è proprio Itaca, e lo invita a guardare la trasparenza dell’acqua per riconoscere che quella è proprio la fonte Aretusa. Ulisse guarda, si specchia nella fonte, vede se stesso vecchio e rugoso, stenta a riconoscersi. Con amarezza capisce che non è l’isola ad essere cambiata, ma lui stesso (“Io era, io era mutato! / Tu, patria, sei come a quei giorni! / Io, sì, mio soave passato, / ritorno, ma tu non ritorni…/”). La gloria e la bellezza sono nel ricordo, non esistono più; il presente è la triste banalità del quotidiano. Nel finale, il coro delle ninfe lo invita a mordere il fiore del loto: solo così troverà la serenità e potrà rivedere, in sogno, le vicende irrevocabili del passato.

8)                  L’ultimo viaggio (dai Poemi conviviali). Il vecchio Ulisse è stanco della vita in Itaca, vuole riprendere il mare insieme ai vecchi compagni (che lo hanno sempre aspettato, tenendo pronta la nave) al pitocco Iro e all’aedo Femio; vuole rivedere i luoghi indimenticabili del passato, rivivere le proprie avventure, accompagnato dal canto eternatore dell’aedo. Ma ciò che la prima volta era sembrato grande ed eroico si rivela ora banale e quotidiano (o meglio: demitizzato da una spiegazione naturalistica). All’isola di Circe non si sentono i leoni che ruggiscono, né si sente il canto della maga, se non di notte, come in sogno. L’aedo muore, e la sua cetra resta appesa a un albero. All’isola di Polifemo non ci sono ciclopi, ma, in quello che fu l’antro del gigante, solo un pastore che li accoglie ospitale; dice di non avere mai visto ciclopi, ma bensì l’occhio rosso di un monte (un vulcano) che faceva piovere (eruttava) pietre nel mare. All’isola delle Sirene, dove l’eroe vorrebbe ora sentire quel canto senza essere legato da funi all’albero maestro, non vede altro che scogli, dall’aspetto di sirene, verso cui una corrente “rapida e soave” trascina la nave. Ulisse vorrebbe sapere la verità su se stesso e sul senso della vita (“Son io! Son io, che torno per sapere!”), anche a costo di aggiungere le sue alle altre ossa che biancheggiano sugli scogli (“Solo mi resta un attimo. Vi prego! / Ditemi almeno chi son io! Chi ero!”). Sugli scogli si sfascia la nave di Ulisse, ma le onde del mare lo trasportano fin sulla spiaggia dell’isola di Calypso, la Nasconditrice. La dea (l’unica che dunque esiste veramente) ritrova morto l’uomo che rifiutò il suo amore e rifiutò l’immortalità che lei gli offriva, per ritornare al mare e al suo dolore. Ed è lei che svela l’attesa verità: “Non esser mai! Non esser mai! Più nulla, / ma meno morte, che non esser più!”; il segreto è il non essere mai nato; questo, rispetto alla morte, al “non esser più”, è un nulla maggiore, un “più nulla”, ma meno doloroso della morte, “meno morte”, in quanto esclude l’attraversamento della vita, l’esperienza del dolore e, soprattutto, la coscienza del nulla da cui si emerge e in cui si precipita). E dunque il vecchio Ulisse è come un Don Chisciotte cui Sancho Panza mostra l’inconsistenza dei suoi sogni: non sirene, ma scogli, non il ciclope, ma un vulcano (non i giganti, ma i mulini a vento). La vita eroica è pura illusione, esiste nel canto degli aedi, nel sogno, nel ricordo; nella vita reale esiste la banalità del quotidiano, incapace di riempire di senso la vita. Ma d’altra parte non c’è altro senso che quello rivelato da Calypso, ed è la terribile verità della sapienza silenica.

9)                  Il sonno di Odisseo (dai Poemi conviviali). Partendo del testo omerico (Odissea, X, 28-55) che racconta in pochi versi del momento in cui, dopo nove giorni di navigazione, i compagni di Ulisse, invidiosi delle ricchezze che presumono che lui stia portando ad Itaca, aprono gli otri in cui Eolo aveva benevolmente rinchiusi i venti contrari alla navigazione, Pascoli costruisce un poemetto (sette strofe) carico di significati allusivi ed inquietanti (come è proprio della sua sensibilità). Ulisse vede all’orizzonte “non sapea che nero: nuvola o terra?”, ma sfinito si addormenta. Le strofe che seguono descrivono l’avvicinarsi della nave all’isola e, come in una ripresa cinematografica, il comparire del porcaro Eumeo intento al suo lavoro, dell’”eccelsa casa” di Ulisse (da cui si sente provenire il suono del “garrulo telaio” di Penelope), di Telemaco che aspetta nel porto appoggiato alla lancia “dalla bronzea punta”, del cane Argo che corre scodinzolando, di Laerte che interrompe il lavoro dei campi per guardare “l’infinito mare” appoggiato alla marra. Ma poi gli otri vengono aperti, la nave è trascinata lontano, Odisseo si sveglia e vede ancora quel “non sapea che nero”. Non sappiamo se tutto ciò che è stato descritto sia apparso realmente mentre Ulisse dormiva, o si sia trattato di un sogno: le formule verbali o avverbiali che introducono le apparizioni sono volutamente ambigue (“e venne incontro”, “apparve”, “ed ecco”, ecc.). Ma l’ipotesi del sogno sembra più convincente: le immagini appaiono in una loro fissità a-temporale (come è proprio del ricordo e del sogno) e il preciso parallelismo fra il momento dell’addormentamento e quello del risveglio fanno pensare che l’unica cosa reale che Ulisse vede sia quel “non sapea che nero” (allusione al male, alla morte?) e che tutto ciò che sta nel mezzo sia la visione sognata (espressione di un desiderio che mai si realizza, sempre sfugge?), come sembra testimoniare l’uso ripetuto del “forse” nell’ultima strofa.

10)                  Le strofe (7, di 18 endecasillabi sciolti) hanno tutte una loro autonomia (nel senso che ognuna si sofferma su un elemento della visione), ma sono collegate da precise simmetrie, richiami, parallelismi). La sequenza narrativa (se di narrazione si può parlare, perché in Pascoli, come sempre, si tratta piuttosto di una sequenza di immagini) si può schematizzare così:

a.       la prima strofa è introduttiva (indica la situazione di partenza) e si conclude con l’addormentamento di Ulisse; la seconda strofa descrive l’avvicinamento ad Itaca (e sembra che sia l’isola che “veleggia” incontro alla nave, non viceversa); la terza e la quarta descrivono altri elementi che compaiono mentre la nave si avvicina (il porcaro Eumeo che intaglia pali per il recinto, le api che “filano” il miele, l’ “eccelsa casa”), ma già indicano, in un crescendo segnalato dai paragoni (prima “volar parole, simili ad uccelli”, poi “simili a frecce, andavano parole”), il prender corpo della congiura dell’equipaggio; la quinta e la sesta rappresentano la tempesta che si scatena e quindi l’allontanarsi irrimediabile delle cose e dei personaggi (si allontanano Telemaco, il cane Argo, Laerte); la settima descrive il risveglio di Ulisse e, come in un riassunto, riprende tutte le cose e i personaggi che avrebbe voluto vedere e che invece non vede.

b.      I versi finali delle strofe collegano come in un cerchio la successione degli avvenimenti: del “cuore d’Odisseo” si dice, al centro (strofa IV) che è “perduto nel sonno”; nelle due strofe precedenti e nelle due seguenti si dice, in ordine chiastico, “notando nel sonno” e “tuffato nel sonno”; nella prima e nell’ultima si dice, rispettivamente, “s’immerse nel sonno” ed “emerso dal sonno”. Oltre a ciò si deve notare che i verbi usati sono appropriati ad una metafora che identifica il sonno con il mare (dove ci si immerge, si nuota, ci si tuffa). Ma la simmetria è rintracciabile anche in un altro aspetto: nella strofa centrale si dice che Ulisse “non udì e non vide” ciò che si avvicinava; nelle due precedenti e nelle due seguenti si dice, ancora in ordine chiastico, “non già lo vide” e “non già li udiva”; nella prima e nell’ultima ritorna, associato rispettivamente all’addormentamento e al risveglio, lo stesso aggettivo, “lontano” .

c.       E questa, che apre e chiude il componimento, può esserne la parola chiave: parola leopardiana, carica di indeterminatezza e, nel caso di Pascoli, di mistero; a indicare, forse, la inattingibilità del vero, che è sempre un po’ più in là della diretta esperienza sensibile? Certo, il cuore di Ulisse che si immerge “lontano” sembra entrare in un’altra dimensione (quella del sogno, che è “l’infinita ombra del vero”, come si dice in Alèxandros); e il “nero” che dilegua “lontano” sembra essere una verità che sfugge, anche se nel colore luttuoso e minaccioso è riconoscibile l’allusione alla morte.

 

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