11)
Ma c’è un’altra Odissea nella letteratura italiana, ed è quella vissuta da Renzo
nei Promessi sposi. E’ stato Raimondi a mostrare come,
essendo l’Iliade e l’Odissea i due archetipi fondamentali per
tutto il romanzo occidentale, i Promessi sposi siano riconducibili al
poema di Ulisse: è Renzo che, come succede ad Ulisse, compie un percorso (che è
un viaggio lontano dalla “patria”, ricco di peripezie e di ostacoli da
superare), al termine del quale tornerà a casa vincitore e con una coscienza
superiore (è un cercatore di giustizia, e alla fine apprende che la più alta
forma di giustizia risiede nel perdono, come gli ha insegnato fra Cristoforo al
lazzaretto). Esemplare l’episodio narrato nel cap. XVI, quando
Renzo, in fuga verso l’Adda, si ferma all’osteria di Gorgonzola. Lì giunge
anche un mercante che narra agli avventori che lo ascoltano a bocca aperta le
grandi vicende (le agitazioni per il pane) che stanno succedendo a Milano; e
narra anche di quel caporione venuto da fuori, che era stato arrestato ma che
era riuscito a fuggire. Anche Renzo ascolta, ben sapendo che si sta parlando di
lui. La situazione ricorda quella di Ulisse, quando, ancora sconosciuto, è
ospite presso la reggia di Alcinoo; e lì, in mezzo ai Feaci, ascolta il cantore
Demodoco che narra le vicende della guerra di Troia e, fra gli eroi, esalta
l’astuto Ulisse, che ha ideato l’inganno del cavallo.
12)
Nel cuore del Novecento, la figura di Ulisse è rievocata dal capolavoro di Joyce.
Il titolo annuncia che quella del protagonista del romanzo (Leopold Bloom) è
una moderna Odissea, e infatti lo stesso autore aveva indicato (nel cosiddetto
“schema Linati”: una lettera del 1920 al suo primo traduttore italiano)
per i diversi capitoli riferimenti precisi ad episodi del poema omerico (Circe
per l’episodio del bordello, Proteo per il monologo interiore di Stephen
sulla spiaggia, Eolo per l’episodio di Leopold al giornale, ecc.). La
vicenda ha come ambientazione non il Mediterraneo, ma la Dublino dei
primi del Novecento e si svolge non nel tempo di dieci anni, ma
di una giornata (precisamente, il 16 giugno del 1904); ha come
protagonisti Leopold Bloom (di professione agente pubblicitario),
Stephen Dedalus (un giovane insegnante, ribelle ed
anticonformista, ossessionato dal ricordo della madre morta e della debolezza
della figura paterna), Molly (la moglie infedele di Leopold,
cantante lirica in declino). L’opera è strutturata in 18 capitoli, suddivisi in
tre sezioni:
a. la “telemachia”
(i primi tre, con al centro Stephen, che in fondo è alla ricerca del padre di
cui ha sempre sentito la mancanza),
b. la vera e propria “odissea”
(i dodici capitoli che seguono, con al centro Leopold e le sue peregrinazioni
dublinesi: più volte incrocia Stephen, finchè lo incontra in un bordello),
c. il “nòstos”
(gli ultimi tre capitoli, che appunto riguardano il ritorno a casa: nel
bordello Leopold soccorre Stephen dopo una rissa e se lo porta a casa; quindi
Stephen se ne va, Bloom si addormenta e l’ultimo episodio è dedicato al celebre
monologo interiore – vero e proprio flusso di coscienza, senza coesione
sintattica e senza punteggiatura – in cui Molly, che non riesce a prendere
sonno, rievoca il suo rapporto con il marito).
13)
E dunque, in questi termini, l’Ulisse di Joyce sembra diventare una parodia
dell’Ulisse omerico: di fatto, non c’è niente di più anti-eroico di
quel personaggio, cui capitano quelle vicende (le vicende della banalità
quotidiana, dove le battaglie diventano risse da bordello) e che ha in moglie
una donna, sensuale e infedele, che può ricordare Penelope solo per
opposizione. Eppure anche questa moderna Odissea si caratterizza per avere al
centro l’esplorazione di un territorio nuovo: e sono i meandri
della psiche, ma anche le tecniche narrative (i narratori
e i tipi di focalizzazione sono molteplici: e la ricerca si spinge fino
all’estremo di registrare i fatti psichici nella forma, sconnessa e
frammentaria, dello stream of consciousness) e infine la lingua
(utilizzata in tutte le sue possibilità espressive, dal drammatico, al
satirico, all’osceno, ecc., in un straordinaria mescolanza).
14)
Concludo ricordando l’interpretazione che Adorno-Horkheimer, in Dialettica
dell’illuminismo, hanno dato dell’episodio dell’incontro con le Sirene.
Il canto delle Sirene non è altro che il richiamo di un mondo diverso da quello
esistente, il mondo della soddisfazione, che si oppone a quello del
sacrificio e della rinuncia. Ma quel richiamo i marinai non lo possono
sentire, a loro è ordinato di turarsi le orecchie con la cera: piegati sui
remi, continuano a lavorare, sul loro lavoro si fondano i rapporti sociali
esistenti, è bene che non sappiano che un mondo diverso è possibile. Il
signore, Ulisse, può sentire quel canto, ma si è fatto legare all’albero
maestro: può sentirne la bellezza e la promessa di felicità, ma non può
abbandonarsi ad esso, perché vorrebbe dire perdere il proprio “sé”, annullare
la propria identità faticosamente costruita in opposizione alla natura,
perdersi nella comunione con il tutto. Quella interpretazione diventava dunque,
per i pensatori di Francoforte, metafora della situazione in cui si trova
il mondo attuale: l’enorme sviluppo tecnologico che caratterizza la nostra
società consentirebbe una vita libera, bella e giocosa per l’umanità
(consentirebbe cioè il passaggio alla cosiddetta dimensione ludico-estetica),
se non fosse che gli interessi costituiti, i detentori del potere reale,
intendono conservare a proprio vantaggio la situazione esistente, basata
sull’oppressione e sul dominio. Il canto delle Sirene indica quella dimensione
liberata, ma noi, come i marinai di Ulisse, siamo incapaci di sentirlo; e chi
lo sente, non vuole lasciarsene sedurre perché ha paura di quell’altra
dimensione in cui non valgono più identità e rapporti esistenti, tutto si
configura in modo radicalmente diverso (il modo, appunto, ludico-estetico).
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