giovedì 14 maggio 2015

Traduzione da Seneca (Epistulae ad Lucilium, V, 2-5)

Gli schiavi non ci sono nemici: siamo noi che li rendiamo tali.
 
Rideo istos qui turpe existimant cum servo suo cenare: quare[1], nisi quia superbissima consuetudo cenanti domino stantium servorum turbam circumdedit? Est[2] ille[3] plus quam capit, et ingenti aviditate onerat distentum ventrem. At infelicibus servis movere labra ne in hoc[4] quidem, ut loquantur, licet; virga murmur omne compescitur, et ne fortuita quidem verberibus excepta sunt, tussis, sternumenta, singultus; magno malo ulla voce interpellatum silentium luitur; nocte tota ieiuni mutique perstant. Sic fit ut isti de domino loquantur quibus coram domino loqui non licet. At illi quibus non tantum coram dominis sed cum ipsis erat sermo, quorum os non consuebatur, parati erant pro domino porrigere cervicem, periculum inminens in caput suum avertere; in conviviis loquebantur, sed in tormentis tacebant. Deinde eiusdem adrogantiae[5] proverbium iactatur, totidem hostes esse quot servos: non habemus illos hostes sed facimus.
 
Seneca, Epistulae ad Lucilium (V, 2-5)
 

 

[1] E’ espressione interrogativa (sottintende quello che ha appena detto, cioè “quare turpe existimant….?").
[2] Terza persona singolare del presente indicativo del verbo “edo”.
[3] Si intende il padrone.
[4] Prolettico del successivo “ut loquantur” (che, appunto, lo spiega).
[5]Eiusdem adrogantiae” è genitivo di qualità, riferito a “proverbium” (in italiano bisognerà trovare un’espressione appropriata).
 
Traduzione
 
Rido di costoro che ritengono vergognoso cenare con il proprio servo: per quale ragione, se non perché una superbissima consuetudine ha collocato attorno al padrone che cena una folla di servi che stanno in piedi? Quello mangia più di quanto è capace di contenere (lett.: contiene) e con smodata ingordigia riempie il pancione (lett.: il ventre gonfio). Invece agli infelici servi neppure per questo (lett.: in questo), cioè per parlare, è consentito muovere le labbra; ogni mormorio è represso con il bastone, e nemmeno i rumori accidentali, (come) tosse, starnuti, singhiozzi, sono esclusi dalle bastonate; il silenzio interrotto da qualche voce si sconta con una dolorosa punizione (lett.: con un grande male); per tutta la notte stanno in piedi, muti e affamati. Così accade che parlino (male) del padrone costoro (cioè, i servi) ai quali non è consentito parlare davanti al padrone. Ma quelli che avevano (lett.: per i quali c'era, in latino c'è la costruzione con il dativo di possesso) la possibilità di parlare (lett.: il discorso) non soltanto davanti ai padroni ma (anche) con gli stessi (padroni), quelli la cui bocca non era cucita, erano pronti a porgere il collo (cioè, a farsi uccidere) per il padrone, a far ricadere sul proprio capo un pericolo imminente; parlavano nei banchetti, ma tacevano sotto tortura. Quindi circola (lett.: viene diffuso) un proverbio dettato dalla stessa arroganza, (che dice che) ci sono altrettanti nemici quanti servi: (invece) non li abbiamo nemici, ma li rendiamo tali.

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