sabato 23 aprile 2016

Petrarca: il sonetto introduttivo del Canzoniere


Lettura di Voi ch'ascoltate in rime sparse



Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond'io nudriva 'l core
in sul mio primo giovenile errore
quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono,


del vario stile in ch'io piango et ragiono
fra le vane speranze e 'l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.


Ma ben veggio or sí come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me mesdesmo meco mi vergogno;


et del mio vaneggiar vergogna è 'l frutto,
e 'l pentersi, e 'l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.




Il sonetto è il primo del Canzoniere, ma certo non in ordine cronologico, perché fa riferimento ad una vicenda ormai conclusa e rispetto alla quale il poeta si sente “in parte” diverso; dunque è stato composto dopo le altre liriche (nel 47 o nel 49-50), funge contemporaneamente da introduzione e conclusione.

Le “rime” sono chiamate “sparse” (e l’espressione riecheggia quella di fragmenta): ma la frammentarietà sarà da riferirsi al loro essere testi distinti e non un unico poema, non certo alla mancanza di organicità dell’opera. Questa infatti, con le sue 365 liriche (più il sonetto introduttivo), vuole invece presentarci, pur nella sua contraddittorietà, lo svolgimento di un amore, dal suo insorgere (il mio primo giovenile errore) al riconoscimento della sua vanità (‘l conoscer chiaramente / che quanto piace al mondo è breve sogno).

Il sonetto ha una struttura bipartita, subito riconoscibile nell’esistenza di due soli periodi che occupano, rispettivamente, le due quartine e le due terzine (a loro volta suddivisi in due unità sintattiche, coincidenti con le singole strofe;  non si può non notare il vistoso anacoluto che caratterizza il primo periodo: il “voi” con cui si apre il componimento non regge alcun verbo). Ma il carattere bipartito, caro al Petrarca, si ritrova anche nelle coppie di termini antitetici che descrivono l’esperienza giovanile (piango et ragiono; fra le vane speranze e ‘l van dolore) e ancora nei versi che evocano il superamento dell’esperienza amorosa (spero trovar pietà, nonché perdono; e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente). 

Al centro l’io del poeta (è il soggetto di tutte le proposizioni, ad eccezione della prima e della settima), a dimostrazione del fatto che il vero argomento dell’opera non è tanto l’amore per Laura quanto il dramma interiore del poeta, il travaglio della sua coscienza.

I due periodi, che si concludono rispettivamente al verso 8 e la verso 14, indicano una progressione di senso, il passaggio da un piano personale ad un piano universale: dalla speranza di “trovar pietà non che perdono” presso i lettori in grado ci capire, si arriva alla affermazione conclusiva, di valore universale, che “quanto piace al mondo è breve sogno”.


Petrarca: l'angoscia della morte


Il senso della caducità in Petrarca



U. BOSCO, Francesco Petrarca,

Laterza 1973, pp. 52-57.



In una lettera all’amico di giovinezza, divenuto vescovo, Filippo di Cabassole (Fam. XXIV, 1), Petrarca, ormai vecchio, analizza quel senso della caducità che gli è stato compagno per tutta la vita.

Dice che, sin da giovane studente, nei classici notava (e sottolineava: lo attestano i suoi vecchi libri), più che le questioni grammaticali, l’espressione di un’angoscia per la vita che fugge (in Orazio, Seneca, Cicerone). E questa è una dolorosa verità esistenziale che poi ha sperimentato in tutta la vita.

Si tratta quindi di un sentimento congenito allo spirito di Petrarca, senz’altro anteriore all’esperienza dell’amore; tale esperienza diverrà centrale perchè in essa si verifica, paradigmaticamente, l’angoscia dell’esistere: Laura è la bellezza e la giovinezza; la visione di lei è fissata in questi termini (anche nel ricordo), quasi a volere esorcizzare la dimensione del tempo che tutto trasforma (ma invano: la bella immagine è sempre contemplata con la paura che essa si dilegui[1]).

Da questo punto di vista può essere spiegata anche quell’aspirazione, quasi maniacale, alla gloria, che ossessiona Petrarca per tutta la vita: è un altro modo per cercare di sfuggire alla paura della morte; la gloria garantisce una “durata” oltre la brevità della vita.

Ma, soprattutto, anche la meditazione religiosa (lo arguiamo dalla Familiare) è posteriore a quel sentimento “costituzionale”: è l’approdo necessario per chi vuole sfuggire al tempo, al divenire, alla morte (né l’amore, né la gloria servono a ciò); quella dell’altra vita è la dimensione dove il presente è sempre soddisfacente (così nella Senile III, 9: “O lieta e sempre uguale vita celeste, che non conosce nè passato nè futuro: tutto è presente... Là ciò che una volta è piaciuto, sempre piace e sempre piacerà, immutabile ed eterno...”); laddove nella dimensione del tempo “noi odiamo sempre il presente, come odiammo il passato quando era presente, e odieremo il futuro quando verrà. Solo il ricordo e l’aspettativa sono dolci...[2] (ibidem).















[1]Con la certezza, anche: si veda il sonetto Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, costruito proprio sull’antitesi fra ricordo del passato (quando splendeva la bellezza miracolosa - quasi stilnovistica - di Laura) e consapevolezza del presente (in cui - pur conservandosi l’amore -  quella bellezza è irrimediabilmente sfiorita).
[2]Non si può non notare come il passo sembri esattamente leopardiano (si pensi alle riflessioni sulla noia e sul piacere).

domenica 10 aprile 2016

La figura dell'inetto nella letteratura fra Ottocento e Novecento (VIII parte)


Montale: “curarsi” dell’ombra

1)   A tale problematica sembrano ricondurci anche alcuni motivi presenti nella poesia di Montale. E non dovremo stupircene: una vicinanza di sensibilità fra i due autori è facilmente presumibile, se si pensa che Montale, come noto, è stato il primo lettore italiano a segnalare la novità e l’importanza di Svevo. Ebbene, quel senso di totale disarmonia con la realtà che mi circondava” (sono parole dello stesso Montale)[1], o “inadattamento” (davvero significativo il termine usato), rintracciabile in tanti componimenti delle sue raccolte, non può non ricordare il senso di estraneità al mondo circostante che caratterizza, e tormenta, “colui che non si adatta” nei romanzi sveviani; e simile sembra anche il sentimento contraddittorio, di ammirazione e disprezzo, espresso nei confronti di chi si dimostra adatto alla vita. Leggiamo una poesia degli Ossi di seppia di Montale, anzi la poesia introduttiva di quella raccolta:

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.


Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!


Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.


2)   Montale enuncia qui i principi della sua poetica: dichiara di non avere parole forti e chiare (splendenti come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato) che possano comunicare certezze, trasmettere valori, proporre, in positivo, ideali; al contrario, egli può soltanto pronunciare qualche storta sillaba e secca come un ramo e limitarsi a constatare, in negativo, che siamo costretti ad una condizione di inautenticità (e insoddisfazione), che la vita che viviamo è vuota e falsa, ci è estranea, non è quella che vorremmo (Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo).

3)   La strofa centrale esprime contemporaneamente, con grande ambiguità, il desiderio e la deprecazione (tale mi sembra il doppio valore dell’esclamativo iniziale) di un atteggiamento esistenziale diverso, quello dell’uomo che se ne va sicuro perché non avverte, e quindi non patisce, il vuoto e il falso della propria condizione. È un uomo felice, e quindi invidiabile, perché non si guarda vivere, ma vive con immediatezza, è in sintonia con la realtà; ma, proprio perciò, è anche un uomo mediocre, e quindi da commiserarsi, perché incapace di riflettere sul senso del proprio esistere e del proprio rapporto col mondo; proprio perché vive aderendo pienamente alla realtà, al suo sguardo manca la distanza necessaria per vedere e comprendere; l’altra faccia della sua felice immediatezza è appunto questa mancanza di distacco critico, ovvero l’incapacità di guardare dall’esterno, anche solo per un momento, se stesso e la totalità. Ma certo, nel momento in cui si guardasse dall’esterno, si sarebbe già sdoppiato e il dubbio comincerebbe a corrodere le sue sicurezze, prima fra tutte quella sulla compattezza e la unicità del suo stesso io. Proprio questo indica la bella immagine di colui che l’ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro: non prestare attenzione ad un evento usuale, e naturalissimo, quale la proiezione della propria ombra su un muro sgretolato dal sole, è quanto di più normale ci si possa aspettare; ridicolo, fino al patologico, appare invece l’atteggiamento contrario. Ma quell’uomo ridicolo e malato, nel quale il poeta si rispecchia, è l’uomo che non rinuncia all’intelligenza critica, e paga alla volontà di comprensione il prezzo dello sdoppiamento. Costui, di fronte alla propria ombra, si ferma stupefatto: su quello scalcinato muro non vede un’insignificante macchia scura, ma riconosce se stesso fuori di sé: vede se stesso che vive, ed è una vista indimenticabile. Da quel momento, accanto a un io che vive c’è un io che si interroga sul senso di quel vivere, e per ciò stesso rallenta, fino a paralizzarli, i movimenti della vita: lo sguardo su se stesso, denso di interrogativi ormai ineludibili, è uno sguardo che pietrifica come quello della Medusa. La vita, immediata e irriflessa, non è più possibile, ogni solida certezza si dissolve; resta un uomo perplesso e dolente, che non si riconosce nella normalità dominante, e da questa non è riconosciuto; è un uomo che non può essere agli altri ed a se stesso amico”, perché fra lui e gli altri c’è una diversità che non consente amicizia, così come non c’è più pace fra lui e se stesso. È un uomo goffo nei rapporti con le persone, impacciato nei comportamenti, ormai incapace di compiere le più semplici azioni della quotidianità: è un inetto.

4)   C’è una sezione di Ossi di seppia che si intitola Mediterraneo, in cui il mare, il Mediterraneo appunto, è al centro della immaginazione poetica di Montale. Il mare, con il suo ondeggiare, con la naturalità totale del suo essere, diventa il corrispettivo (tecnicamente, il “correlativo oggettivo”) di una dimensione autentica, di ciò che il poeta vorrebbe essere, di ciò in cui il poeta vorrebbe perdersi per porre fine alla disarmonia, per vivere con lo stesso ritmo della natura; ma è un’aspirazione che fallisce, il pensiero che riflette (che fa sì che non si viva, ma ci si guardi vivere) cerca e trova “il male che tarla il mondo”, vede ad uno ad uno gli eventi, gli accadimenti, e la loro insignificanza, rendendo impossibile l’adesione alla naturalità della vita del mare. Per chi è così non c’è salvezza se non nella cultura (altri libri occorrevano a me), il “canto” del mare può essere di conforto in qualche momento doloroso, ma il suo “delirio” appartiene ormai, per il poeta, ad un’altra dimensione, “astrale”, non terrena.

Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale
siccome i ciottoli che tu volvi,
mangiati dalla salsedine;
scheggia fuori del tempo, testimone
di una volontà fredda che non passa.
Altro fui: uomo intento che riguarda
in sé, in altrui, il bollore
della vita fugace - uomo che tarda
all'atto, che nessuno, poi, distrugge.
Volli cercare il male
che tarla il mondo, la piccola stortura
d'una leva che arresta
l'ordegno universale; e tutti vidi
gli eventi del minuto
come pronti a disgiungersi in un crollo.
Seguìto il solco d'un sentiero m'ebbi
l'opposto in cuore, col suo invito; e forse
m'occorreva il coltello che recide,
la mente che decide e si determina.
Altri libri occorrevano
a me, non la tua pagina rombante.
Ma nulla so rimpiangere: tu sciogli
ancora i groppi interni col tuo canto.
Il tuo delirio sale agli astri ormai.

5)   Ma l’inettitudine di cui parliamo a proposito di Montale, o meglio, quel senso di totale disarmonia con la realtà che mi circondava”, come dice lui stesso, ha una sua specificità. Se leggiamo le sue poesie, capiamo che la disarmonia non è altro che la sensazione di vivere in un mondo falso e ingannevole; come se la realtà, gli oggetti della quotidianità fossero solo oggetti illusori, dietro cui si intravede, ma sempre sfuggente, una verità più profonda. In questo mondo che sente falso e ingannevole il poeta è un disadattato, un inetto, ma a lui sono concessi momenti privilegiati, occasioni miracolose, in cui il velo che ci impedisce la vista sembra squarciarsi, la rete che ci avviluppa e ci imprigiona sembra spezzarsi e per un attimo ci troviamo nel mezzo della verità: sentite questi versi, tratti da I limoni:

Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest'odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l'odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità

Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case,
la luce si fa avara - amara l'anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d'oro della solarità

Pirandello: l’ombra come segno dello sdoppiamento

6)      Abbiamo visto come in Montale il “curarsi” della propria ombra, sia segno di una più alta umanità, che può appartenere solo a chi ha acquisito la consapevolezza del proprio sdoppiamento; o a chi, per dirla con Svevo, “ha lo spazio nel proprio cervello per contenere due concezioni della vita”, e perciò si differenzia – doloroso privilegio – in natura dall’animale, in società dall’“uomo che se ne va sicuro”. Ma il motivo dell’ombra come manifestazione concreta (o “correlativo oggettivo”) dello sdoppiamento, ci rimanda ad un altro significativo autore del Novecento, a Pirandello, che del resto ha fatto della crisi d’identità, e della connessa perdita delle certezze, il tema centrale della sua produzione. Si pensi alla condizione patita da Mattia Pascal, il protagonista del più famoso dei romanzi pirandelliani. Costui non solo è sdoppiato per definizione, in quanto titolare di una doppia identità (Mattia Pascal / Adriano Meis), ma emblematicamente si ritrova, a un certo punto della storia, proprio a combattere con la sua stessa ombra (cap. xv, Io e l’ombra mia). Frustrato nella sua aspirazione a vivere pienamente la vita (si accorge di essere stato derubato, ma non può denunciare il ladro, per la stessa ragione per cui non può legalizzare il suo amore: non ha identità anagrafica) esce di casa e passeggia per Roma. Alla vista della propria ombra, comincia a parlarle rabbiosamente come se fosse un’entità reale, un altro se stesso che vorrebbe annientare, ma da cui non riesce a separarsi (“se mi metto a correre, mi seguirà”):

Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per la via Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi s’affisarono su l'ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non potevo calpestarla, l’ombra mia.

Chi era più ombra di noi due? io o lei?

Due ombre!

Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto; l'ombra, zitta.

L'ombra d’un morto: ecco la mia vita...

Passò un carro: rimasi lì fermo, apposta: prima il cavallo, con le quattro zampe, poi le ruote del carro.

Là, così! forte, sul collo! Oh, oh, anche tu, cagnolino? Sù, da bravo, sì: alza un’anca! alza un’anca!

Scoppiai a ridere d’un maligno riso; il cagnolino scappò via, spaventato; il carrettiere si voltò a guardarmi. Allora mi mossi; e l’ombra, meco, dinanzi. Affrettai il passo per cacciarla sotto altri carri, sotto i piedi de’ viandanti, voluttuosamente. Una smania mala mi aveva preso, quasi adunghiandomi il ventre; alla fine, non potei più vedermi davanti quella mia ombra; avrei voluto scuotermela dai  piedi. Mi voltai; ma ecco; la avevo dietro, ora.

“E se mi metto a correre,” pensai, “mi seguirà!”

Mi stropicciai forte la fronte, per paura che stessi per ammattire, per farmene una fissazione. Ma sì! così era! il simbolo, lo spettro della mia vita era quell'ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercé dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma.

Ma aveva un cuore, quell’ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell’ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era la testa di un’ombra, e non l’ombra d’una testa. Proprio così!

Allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa, come il cavallo e le ruote del carro e i piedi de’ viandanti ne avessero veramente fatto strazio. E non volli lasciarla più lì, esposta, per terra. Passò un tram, e vi montai.

7)      Del resto Pirandello, in un passo del suo saggio su L’umorismo, descrive la condizione dei propri personaggi in termini che ricordano le caratteristiche dell’inetto sveviano:

Nella sua anormalità, non può esser che amaramente comica la condizione d’un uomo che si trova ad esser sempre quasi fuori di chiave, ad essere a un tempo violino e contrabbasso, d’un uomo a cui un pensiero non può nascere, che subito non gliene nasca un altro opposto, contrario; a cui per una ragione ch’egli abbia di dir , subito un’altra e due e tre non ne sorgano che lo costringono a dir no; e tra il sì e il no lo tengan sospeso, perplesso, per tutta la vita; d’un uomo che non può abbandonarsi a un sentimento, senza avvertir subito qualcosa dentro che gli fa una smorfia e lo turba e lo sconcerta e lo indispettisce. (…)

È una speciale fisionomia psichica, a cui è assolutamente arbitrario attribuire una causa determinante; può esser frutto d’una esperienza amara della vita e degli uomini, d’una esperienza che se, da un canto, non permette più al sentimento ingenuo di metter le ali e di levarsi come un’allodola perché lanci un trillo nel sole, senza ch’essa la trattenga per la coda nell’atto di spiccare il volo, dall’altro induce a riflettere che la tristizia degli uomini si deve spesso alla tristezza della vita, ai mali di cui essa è piena e che non tutti sanno o possono sopportare (…)



Chamisso: l’ombra è l’anima

8)      L’ombra è dunque l’emblema visibile della scissione dell’io, ma è anche il corrispettivo dell’anima. Chi se ne avvede (chi si cura della propria ombra), ha perso l’immediatezza che la vita richiede, è spezzato fra un io che vive e un io che riflette su quel vivere, è dunque irrimediabilmente inibito alla vita. Ma chi non se ne avvede (chi non si cura della propria ombra, o, che è lo stesso, chi per una “storia straordinaria” l’avesse persa), ha perso l‘anima. È appunto questo il senso che si ricava da quel racconto di Chamisso (Storia straordinaria di Peter Schlemihl), vero e proprio archetipo letterario costruito sul motivo, fantastico e inquietante, della perdita dell’ombra: troppo tardi lo sventurato Peter si rende conto che, cedendo al diavolo la propria ombra in cambio di ricchezza e successo, si è privato della propria umanità (la mancanza dell’ombra è una deformità che lo esclude dal consorzio umano); e troppo tardi riconosce l’equivalenza dell’ombra con l’anima, visto che solo in cambio dell’anima il diavolo è disposto a restituirgliela. Il cerchio si chiude. Se l’ombra è l’anima, non accorgersi della propria ombra “che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro” vuol dire non accorgersi della propria anima. E non ci si accorge della propria anima perché la si è persa, adattandosi alla realtà. Chi l’ha persa, “se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico”. Ma perdere l’anima significa perdere ciò che le è più proprio, cioè, come avvertiva Leopardi, “soprabbondanza di vita interna”, capacità di “ponderare seco medesimi”, “vivacità di immaginazione”. E solo chi conserva tutto ciò, conserva integra, pur a prezzo del “malcontento” e dell’inettitudine, la propria umanità.





[1] E. Montale, Il secondo mestiere. Arte, musica, società, Milano 1996, p. 1592.

La figura dell'inetto nella letteratura fra Ottocento e Novecento (VII parte)


Svevo: la galleria degli “atti a vivere”

1)   Se rintracciamo nei diversi romanzi i cosiddetti “atti a vivere”, scopriamo che Svevo ne fa una descrizione spietata che mette in risalto proprio quella mediocrità intellettuale di cui parla Leopardi. Il primo che vediamo è Creglingi, in Una vita: si tratta di un vecchio amico d’infanzia di Alfonso, che costui incontra quando torna al paese, fuggendo da Trieste con la scusa di dovere andare a trovare la madre malata (in verità, si sente incapace di reggere il rapporto con Annetta). Creglingi amministra con successo i beni della famiglia e, in più, si è fidanzato con Rosina, una bella ragazza di cui Alfonso era stato innamorato. Ecco come viene descritto:

(…) Creglingi, un giovine forte, dai tratti volgari, la pelle macchiata dal sole e nel viso quasi rotondo gli occhi piccoli dell'astuzia (…)

Era un'amicizia di prima gioventù ed era durata fino alla partenza di Alfonso ad onta che con l'avanzarsi dell'età la differenza fra i due giovani fosse divenuta sempre maggiore. L'intelligenza di Creglingi era stata poco sviluppata o meglio soffocata dal lavoro manuale. Mai Alfonso si sarebbe risolto a tagliare quella relazione conservando un culto superstizioso alle memorie della sua prima giovinezza. Ebbe qualche avvilimento al vedersi lui respinto. Creglingi era il possessore di due o tre idee in tutto e dovevano servirgli per tutta la vita e Alfonso lo aveva sopportato per una certa simpatia per la forza e risolutezza che scorgeva in lui.

2)   Ecco poi Leardi, in Senilità: un bellimbusto che aveva successo con le donne, di cui si diceva che avesse avuto una relazione con Angiolina; e così lo descrive Emilio:

Chissà con chi Angiolina lo avrebbe tradito quel giorno, forse con delle persone ch'egli non conosceva neppure. Come era superiore a lui il Leardi, quell'imbecille privo di idee! Quella calma era la vera scienza della vita. - Sì, - pensò il Brentani, e gli parve di dire una parola che avrebbe dovuto far vergognare insieme a lui l'umanità più eletta - l'abbondanza d'immagini nel mio cervello forma la mia inferiorità. - Infatti se il Leardi avesse pensato che Angiolina lo tradiva, non se la sarebbe saputa rappresentare in un'immagine così piena di rilievo, di colore e di movimento come faceva lui figurandosela accanto al Leardi.

3)   Ma è ne La coscienza di Zeno che si trovano le più significative rappresentazioni degli “atti a vivere”. Così Zeno descrive il proprio padre (un padre che negli affari ci ha saputo fare, visto che lascia un discreto patrimonio che, non fidandosi delle capacità del figlio, affida ad un amministratore, certo Olivi) :

Avevamo tanto poco di comune fra di noi, ch’egli mi confessò che una delle persone che più l’inquietavano a questo mondo ero io. Il mio desiderio di salute m’aveva spinto a studiare il corpo umano. Egli, invece, aveva saputo eliminare dal suo ricordo ogni idea di quella spaventosa macchina. Per lui il cuore non pulsava e non v’era bisogno di ricordare valvole e vene e ricambio per spiegare come il suo organismo viveva (chi è “atto a vivere” vive con immediatezza, con naturalezza, non si pone domande su come funziona la vita; invece l’inetto si guarda vivere, si pone problemi sul senso e sui modi della vita, e questo rallenta, fino a bloccarla, la capacità di agire; ricordare il passo in cui Zeno non riesce a camminare dopo che un amico gli ha detto che si mettono in moto 54 muscoli). Niente movimento perché l’esperienza diceva che quanto si moveva finiva coll’arrestarsi. Anche la terra era per lui immobile e solidamente piantata su dei cardini. Naturalmente non lo disse mai, ma soffriva se gli si diceva qualche cosa che a tale concezione non si conformasse. M’interruppe con disgusto un giorno che gli parlai degli antipodi. Il pensiero di quella gente con la testa all’ingiù gli sconvolgeva lo stomaco.

4)   E così descrive il vecchio Malfenti (anche lui uomo di successo negli affari, capace di operare in borsa con vantaggio), quello che lo psicanalista ha definito “un secondo padre”:

Il desiderio di novità che c'era nel mio animo veniva soddisfatto da Giovanni Malfenti ch'era tanto differente da me e da tutte le persone di cui io fino ad allora avevo ricercato la compagnia e l'amicizia. Io ero abbastanza còlto essendo passato attraverso due facoltà universitarie eppoi per la mia lunga inerzia, ch'io credo molto istruttiva. Lui, invece, era un grande negoziante, ignorante ed attivo. Ma dalla sua ignoranza gli risultava forza e serenità ed io m'incantavo a guardarlo, invidiandolo.

Il Malfenti aveva allora circa cinquant'anni, una salute ferrea, un corpo enorme alto e grosso del peso di un quintale e più. Le poche idee che gli si movevano nella grossa testa erano svolte da lui con tanta chiarezza, sviscerate con tale assiduità, applicate evolvendole ai tanti nuovi affari di ogni giorno, da divenire sue parti, sue membra, suo carattere. Di tali idee io ero ben povero e m'attaccai a lui per arricchire.

5)   Ma è nella descrizione di Augusta (la moglie non desiderata, ma poi rivelatasi ottima), nella descrizione della sua bella salute e delle sue solide certezze, che emerge con chiarezza come l’opposizione fra malattia e salute, ovvero fra inettitudine e attitudine alla vita corrisponda all’opposizione fra capacità e incapacità di pensiero, fra un vivere istintivo e naturale che rifugge dai problemi e un vivere problematico, un vivere che riflette su se stesso, che si guarda vivere:

Non so più se dopo o prima dell’affetto, nel mio animo si formò una speranza, la grande speranza di poter finire col somigliare ad Augusta ch’era la salute personificata. Durante il fidanzamento io non avevo neppur intravvista quella salute, perché tutto immerso a studiare me in primo luogo eppoi Ada e Guido (…)

Altro che il suo rossore! Quando questo sparve con la semplicità con cui i colori dell’aurora spariscono alla luce diretta del sole, Augusta batté sicura la via per cui erano passate le sue sorelle su questa terra, quelle sorelle che possono trovare tutto nella legge e nell’ordine o che altrimenti a tutto rinunziano. Per quanto la sapessi mal fondata perché basata su di me, io amavo, io adoravo quella sicurezza (...)

 Però mi sbalordiva; da ogni sua parola, da ogni suo atto risultava che in fondo essa credeva la vita eterna. Non che la dicesse tale: si sorprese anzi che una volta io, cui gli errori ripugnavano prima che non avessi amati i suoi, avessi sentito il bisogno di ricordargliene la brevità. Macché! Essa sapeva che tutti dovevano morire, ma ciò non toglieva che oramai ch’eravamo sposati, si sarebbe rimasti insieme, insieme, insieme. Essa dunque ignorava che quando a questo mondo ci si univa, ciò avveniva per un periodo tanto breve, breve, breve, che non s’intendeva come si fosse arrivati a darsi del tu dopo di non essersi conosciuti per un tempo infinito e pronti a non rivedersi mai più per un altro infinito tempo (è un pensiero di una profondità abissale, il pensiero di quanto breve sia la vita rispetto all’infinità del tempo che sta prima e dopo la vita; tutti siamo un po’ come Augusta: lo sappiamo ma non ci pensiamo; solo un pensatore maniacale come l’inetto può sprofondare in questo pensiero). Compresi finalmente che cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva segregarsi e starci caldi. Cercai di esservi ammesso e tentai di soggiornarvi risoluto di non deridere me e lei, perché questo conato non poteva essere altro che la mia malattia ed io dovevo almeno guardarmi dall'infettare chi a me s'era confidato.

Anche perciò, nello sforzo di proteggere lei, seppi per qualche tempo movermi come un uomo sano.

Essa sapeva tutte le cose che fanno disperare, ma in mano sua queste cose cambiavano di natura. Se anche la terra girava non occorreva mica avere il mal di mare! Tutt'altro! La terra girava, ma tutte le altre cose restavano al loro posto (notate: quello di Augusta è un modo di essere simile a quello del padre, anche lui non poteva soffrire l’idea degli antipodi; entrambi diffidano di, anzi, rifiutano di accettare ciò che fuoriesce da schemi semplici e rassicuranti). E queste cose immobili avevano un'importanza enorme: l'anello di matrimonio, tutte le gemme e i vestiti, il verde, il nero, quello da passeggio che andava in armadio quando si arrivava a casa e quello di sera che in nessun caso si avrebbe potuto indossare di giorno, né quando io non m'adattavo di mettermi in marsina. E le ore dei pasti erano tenute rigidamente e anche quelle del sonno. Esistevano, quelle ore, e si trovavano sempre al loro posto (la salute di Augusta consiste nell’adeguarsi totalmente alla convenzioni, alle tradizioni, alle abitudini; non si pone problemi, non sa e non vuole fuoriuscire dai binari su cui si è sempre mossa) .

Di domenica essa andava a Messa ed io ve l'accompagnai talvolta per vedere come sopportasse l'immagine del dolore e della morte. Per lei non c'era, e quella visita le infondeva serenità per tutta la settimana. Vi andava anche in certi giorni festivi ch'essa sapeva a mente. Niente di più, mentre se io fossi stato religioso mi sarei garantita la beatitudine stando in chiesa tutto il giorno.

C'erano un mondo di autorità anche quaggiù che la rassicuravano. Intanto quella austriaca o italiana che provvedeva alla sicurezza sulle vie e nelle case ed io feci sempre del mio meglio per associarmi anche a quel suo rispetto. Poi v'erano i medici, quelli che avevano fatto tutti gli studii regolari per salvarci quando - Dio non voglia - ci avesse a toccare qualche malattia. Io ne usavo ogni giorno di quell'autorità: lei, invece, mai. Ma perciò io sapevo il mio atroce destino quando la malattia mortale m'avesse raggiunto, mentre lei credeva che anche allora, appoggiata solidamente lassù e quaggiù, per lei vi sarebbe stata la salvezza. (l’analisi della salute di Augusta diventa sempre più perfida e corrosiva: lei sta bene perché non si pone problemi, si affida totalmente alla routine delle abitudini, stagionali e giornaliere; anche il frequentare la chiesa non è religiosità, ma un’abitudine rassicurante; e infine c’è una fiducia incrollabile, a-problematica, nelle istituzioni ufficiali, nelle autorità politiche e in quelle mediche).   

Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco perché m'accorgo che, analizzandola, la converto in malattia. E, scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d'istruzione per guarire. Ma vivendole accanto per tanti anni, mai ebbi tale dubbio. (vedete l’ambiguità di Zeno: da una parte vorrebbe essere anche lui come Augusta, vorrebbe integrarsi in quel mondo “normale”, con i suoi valori e le sue abitudini piccolo borghesi; dall’altra si rende conto che quella salute corrisponde ad una assenza di pensiero, è una salute che dovrebbe “guarire” – dunque è una malattia – e che la propria malattia corrisponde ad una estraneità irriducibile e critica rispetto a quel mondo. Certo, Augusta, nella sua ignorante superficialità, vive bene, non soffre; Zeno invece sta male, è continuamente angosciato da mille dubbi e mille problemi, ma questo è il prezzo della sua disposizione al pensiero, alla riflessione, all’analisi e all’auto-analisi, al “guardarsi vivere”) (…)

Ma mi colse allora un’altra piccola malattia da cui non dovevo più guarire. Una cosa da niente: la paura d’invecchiare e sopra tutto la paura di morire. Io credo abbia avuto origine da una speciale forma di gelosia. L’invecchiamento mi faceva paura solo perché m’avvicinava alla morte. Finché ero vivo, certamente Augusta non m’avrebbe tradito, ma mi figuravo che non appena morto e sepolto, dopo di aver provveduto acché la mia tomba fosse tenuta in pieno ordine e mi fossero dette le Messe necessarie, subito essa si sarebbe guardata d’intorno per darmi il successore ch’essa avrebbe circondato del medesimo mondo sano e regolato che ora beava me. Non poteva mica morire la sua bella salute perché ero morto io. Avevo una tale fede in quella salute che mi pareva non potesse perire che sfracellata sotto un intero treno in corsa.

Mi ricordo che una sera, a Venezia, si passava in gondola per uno di quei canali dal silenzio profondo ad ogni tratto interrotto dalla luce e dal rumore di una via che su di esso improvvisamente s'apre. Augusta, come sempre, guardava le cose e accuratamente le registrava: un giardino verde e fresco che sorgeva da una base sucida lasciata all'aria dall'acqua che s'era ritirata; un campanile che si rifletteva nell'acqua torbida; una viuzza lunga e oscura con in fondo un fiume di luce e di gente. Io, invece, nell'oscurità, sentivo, con pieno sconforto, me stesso. Le dissi del tempo che andava via e che presto essa avrebbe rifatto quel viaggio di nozze con un altro. Io ne ero tanto sicuro che mi pareva di dirle una storia già avvenuta. E mi parve fuori di posto ch'essa si mettesse a piangere per negare la verità di quella storia. Forse m'aveva capito male e credeva io le avessi attribuita l'intenzione di uccidermi. Tutt'altro! Per spiegarmi meglio le descrissi un mio eventuale modo di morire: le mie gambe, nelle quali la circolazione era certamente già povera, si sarebbero incancrenite e la cancrena dilatata, dilatata, sarebbe giunta a toccare un organo qualunque, indispensabile per poter tener aperti gli occhi. Allora li avrei chiusi, e addio patriarca! Sarebbe stato necessario stamparne un altro.

Essa continuò a singhiozzare e a me quel suo pianto, nella tristezza enorme di quel canale, parve molto importante. Era forse provocato dalla disperazione per la visione esatta di quella sua salute atroce? Allora tutta l'umanità avrebbe singhiozzato in quel pianto. Poi, invece, seppi ch'essa neppur sapeva come fosse fatta la salute. La salute non analizza se stessa e neppur si guarda nello specchio. Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi.

6)   Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi” E dunque, se le cose stanno così, la malattia, o inettitudine, corrisponde ad intelligenza critica: esattamente come dice Leopardi, che associa l’inettitudine (perché di questo si tratta, quando parla di difficoltà nel decidere e nell’agire e di goffaggine, mancanza di disinvoltura, nei rapporti interpersonali) alla grandezza delle facoltà intellettive, ovvero “della ragione e della immaginativa”. Gli “adatti a vivere”, al contrario, oltre che capaci di decidere e di agire, sono anche brillanti nella vita sociale; ma lo sono, inevitabilmente, a prezzo (o in virtù) della loro mediocrità intellettuale.

Svevo: la superiorità di “chi non si adatta” e la lettera a Jahier

7)   Del resto, se leggiamo certi saggi sveviani, quali L’uomo e la teoria darwiniana e La corruzione dell’anima[1] non possiamo che trovare riscontri a questa teoria che fa dell’inadatto a vivere l’uomo per eccellenza. Vi si sostiene anzitutto che la superiorità dell’uomo sull’animale è data dal fatto che, mentre quest’ultimo perde l’anima (e con essa il “malcontento”, ovvero l’insoddisfazione) nel momento in cui adatta il proprio organismo alle necessità ambientali, l’uomo è l’essere che conserva l’anima – e l’inquietudine vitale che le è propria – proprio perché non c’è adattamento che lo soddisfi. L’uomo dunque, pur a prezzo dell’infelicità (è “torvo e malcontento”), mantiene integre le potenzialità di sviluppo ed è sempre disponibile ad affrontare il mutamento ambientale, laddove l’animale vive, sì, soddisfatto della funzionalità del proprio organismo, ma rimane “identico a se stesso, definitivamente cristallizzato”, “non accorgendosi di aver perduto la vera vita” (la “vera” vita: non sfugga il giudizio di valore). Ne consegue paradossalmente che, rovesciando l’assunto darwiniano, il vero vincitore nella lotta per la sopravvivenza è l’uomo in quanto animale che non si adatta, e cioè l’uomo in quanto inetto (etimologicamente in-aptus, ovvero “non-atto”, “che non si adatta”); ma, di più, trasponendo questa verità sul piano della vita sociale, si ha un corollario altrettanto paradossale, perché si conclude che l’uomo di successo è il mediocre che ha perduto l’anima (e con essa la vera vita), assimilando, con istinto quasi animalesco, i valori dominanti (appunto, adattandovisi)[2], laddove l’inetto, in quanto incapace di far propri quei valori (in quanto renitente ad adattarvisi), è l’uomo che vive la vera vita, l’uomo in senso pieno, dotato di anima, dunque eternamente insoddisfatto, straniero in ogni tempo e in ogni luogo, mai in pace con se stesso e con gli altri. E che questa sia l’ottica giusta con cui guardare i protagonisti dei suoi romanzi, ce lo conferma lo stesso autore nella lettera a Valerio Jahier del 27 dicembre 1927 (Jahier gli aveva scritto dicendo che si sentiva simile a Zeno e gli chiedeva consigli sulla terapia psicanalitica):

Egregio Signore, non vorrei poi averle dato un consiglio che potrebbe attenuare la speranza ch’Ella ripone nella cura che vuole intraprendere. Dio me ne guardi. Certo è ch’io non posso mentire e debbo confermarle che in un caso trattato dal Freud in persona non si ebbe alcun risultato. Per esattezza debbo aggiungere che il Freud stesso, dopo anni di cure implicanti gravi spese, congedò il paziente dichiarandolo inguaribile. Anzi io ammiro il Freud, ma quel verdetto dopo tanta vita perduta mi lasciò un’impressione disgustosa (...)

Letterariamente Freud è certo più interessante. Magari avessi fatto io una cura con lui. Il mio romanzo sarebbe risultato più intero.

E perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere all’umanità quello ch’essa ha di meglio? Io credo sicuramente che il vero successo che mi ha dato la pace è consistito in questa convinzione. Noi siamo una vivente protesta contro la ridicola concezione del superuomo come ci è stata gabellata (soprattutto a noi italiani). Io rileggo la Sua lettera come lessi molte volte le precedenti. Ma rispondendo alle precedenti credevo davvero di parlare di letteratura. Invece da questa Sua ultima risulta proprio un’ansiosa speranza di guarigione. E questa deve esserci; è parte della nostra vita. Ed anche la speranza di ottenerla deve esserci. Sola la meta è oscura.

Ma intanto -con qualche dolore- spesso ci avviene di ridere dei sani. Il primo che seppe di noi è anteriore al Nietzsche: Schopenhauer, e considerò il contemplatore come un prodotto della natura, finito quanto il lottatore. Non c’è cura che valga. Se c’è differenza allora la cosa è differente: Ma se questa può scomparire per un successo (p. e. la scoperta d’essere l’uomo più umano che sia stato creato) allora si tratta proprio di quel cigno della novella di Andersen che si credeva un’anitra male riuscita perché era stato covato da un’anitra. Che guarigione quando arrivò tra i cigni!

8)   Il riferimento alla novella del brutto anatroccolo è perfetto: significa scoprire di non essere malato, in quanto diverso dagli altri, ma semplicemente di appartenere ad un’altra specie, degna quanto quella degli altri, anzi più degna, tanto quanto il cigno è più bello dell’anatra.



[1] Più che di saggi veri e propri, si ha l’impressione di studi rimasti allo stato di abbozzo. Si tratta di testi di poche pagine, formalmente poco curati, a volte incompiuti, non databili con precisione, ma collocabili alla fine del primo decennio del Novecento. Si possono leggere in I. Svevo, Opera omnia, vol. III, Milano 1968 (p. 637 e p.641)
[2] In questa tipologia umana saranno da riconoscere, pur con le debite differenze, gli antagonisti dell’inetto nei diversi romanzi: Macario, Stefano Balli, Guido Speier.