ALFIERI (lezioni)

Alfieri
La vita e l’opera
 
Nasce ad Asti nel 1749 da famiglia nobile e ricca[1]. Fra il 1767 e il 1772, dopo gli studi presso la Reale Accademia di Torino[2], viaggia freneticamente per l’Italia e per l’Europa. Quella del viaggiare era un’abitudine particolarmente diffusa nell’età dei Lumi, caratterizzata dallo spirito cosmopolita e quindi dal desiderio di conoscere altre terre ed altri popoli. Ma nel caso di Alfieri non sembra essere un’ansia conoscitiva a spingerlo al continuo spostamento, bensì – come ci documenta la Vita –  un’irrequietezza caratteriale, una perenne insoddisfazione, accompagnata da un senso di scontentezza, di noia, di vuoto.
Legge gli illuministi francesi e si appassiona per Le vite parallele di Plutarco[3]. Quando torna a Torino, dopo un tristo amore” per la marchesa Gabriella Turinetti de Prié (che lo conduce sull’orlo della disperazione), scopre la propria vocazione letteraria e nel 1775 scrive la sua prima tragedia (Antonio e Cleopatra), cui seguono, poco dopo, il Filippo e il Polinice. Si dedica con furore allo studio[4], rinnega il francese (che in Piemonte era la lingua di corte) per apprendere correttamente la lingua italiana. A tal fine si stabilisce in Toscana: a Pisa, Siena, poi a Firenze dove conosce Luisa Stolberg, contessa d’Albany[5], che sarà la sua compagna fino alla morte. Infine, per “spiemontizzarsi” e liberarsi da ogni sudditanza nei confronti del re di Sardegna, cede tutti i suoi possedimenti alla sorella, in cambio di una rendita vitalizia.
Fra il 1777 e il 1778 scrive i due trattati, Della tirannide e Del principe e delle lettere, ma quelli in Toscana sono anche gli anni della produzione di quasi tutte le tragedie.
Nel 1787 si trasferisce a Parigi, dove aveva preso dimora la  contessa d’Albany. Qui inizia la stesura della Vita e si dedica alla composizione delle Rime. Assiste con entusiasmo allo scoppio della rivoluzione francese (scrive l’ode Parigi sbastigliato), ma poi si ritrae disgustato di fronte al “mostruoso governo” popolare e alla crescente violenza giacobina. Nel 1792, insieme alla Stolberg, rientra a Firenze, dove vive gli ultimi anni in sdegnosa solitudine, sempre più animato da sentimenti anti-francesi: scrive il Misogallo (contro l’egualitarismo della rivoluzione e contro il turbamento dell’ordine sociale e di potere: le sue idee finiscono per coincidere con quelle della reazione monarchica e legittimistica), scrive le Satire, le Commedie, la seconda parte della Vita e delle Rime. Muore nel 1803 ed è sepolto in Santa Croce.
 
La Vita
 
La Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso si inserisce  nel contesto di quella letteratura autobiografica, tesa alla scoperta dell’io, che ebbe particolare sviluppo nell’età dei Lumi[6]. Nel caso di Alfieri, è evidente come l’autobiografia non sia una rievocazione nostalgica della vita passata, ma una vera e propria indagine sulla propria personalità, un’esplorazione che seleziona gli eventi per mettere a fuoco quell’inquietudine esistenziale destinata a trovare sbocco (e pace) nella “conversione” letteraria. E’ l’autore stesso ad usare la parola “conversione” a proposito della scoperta della propria vocazione tragica: il percorso compiuto è infatti paragonabile a quello di un’ascesi religiosa, la meta raggiunta (la scrittura poetica) significa la piena realizzazione di sé, comporta “la salute dell’anima”. Ma è anche raggiungimento di una altezza del sentire che lo condanna ad una solitudine disperata, lo mette in conflitto con la mediocrità del mondo, lo colloca su un piano di titanismo eroico, i cui germi si trovano già nelle cupe malinconie di un’infanzia solitaria e scontrosa[7], nell’inquietudine ribelle dell’adolescenza[8], in quel frenetico viaggiare che sembra piuttosto un fuga continua da un luogo all’altro[9], nell’odio per la tirannide e nel disprezzo per il gregge vile che la sopporta[10], nella consonanza infine trovata con l’aspetto orrido e selvaggio, col “vasto indefinibile silenzio” dei paesaggi nordici[11].
 
Le Rime
 
Carattere autobiografico hanno anche le Rime, che nascono da occasioni, luoghi e vicende concrete[12]. Il modello è Petrarca, riconoscibile nel ricorrere di parole ed espressioni. Ma è un petrarchismo interpretato in modo nuovo, coerentemente con quella violenta ed esasperata passionalità che caratterizza la sensibilità alfieriana. Così, mentre il linguaggio di Petrarca mira alla limpidezza, all’armonia, alla musicalità, Alfieri – con le pause e gli enjambement, con gli scontri di consonanti, con un ritmo aspro e spezzato, con la predilezione per formule secche e lapidarie – tende ad una espressività carica di tensione. Anche la rappresentazione della natura, spesso orrida e selvaggia (ad esempio, nel sonetto Tacito orror di solitaria selva), corrisponde all’animo tempestosamente titanico del poeta; ed è la consonanza fra quel paesaggio e quell’animo che, ben diversamente dal modello petrarchista[13], consente “calma e gioia”, secondo i canoni di una sensibilità che è senz’altro pre-romantica[14].
Alla tematica amorosa (del resto, sempre occasione per esprimere il proprio animo tormentato e il conflitto con il mondo) si affianca la tematica politica, intesa – in coerenza con i motivi contemporaneamente presenti nelle tragedie – come polemica contro l’oppressione del potere e contro la viltà diffusa. L’immagine che il poeta dà di sé è la stessa che emerge dalla Vita e da opere politiche quali Della tirannide (1777) e Del principe e delle lettere (1778-1786): quella di un individuo dotato di forte sentire, “titanicamente” in lotta contro ogni limitazione della libertà, sdegnosamente solitario, non contaminato dalla servitù dominante.
 
La posizione ideologica
 
Sottolineare il carattere “titanico di tale posizione vuol dire già riconoscerne l’inconsistenza politica: la libertà che Alfieri rivendica non ha determinazioni politiche, economiche, giuridiche (non è libertà di pensiero, di parola, di commercio, ecc.), ma è una libertà astratta, una petizione di principio, il frutto di un individualismo eroico radicalmente antisociale. Nel Della tirannide l’avversione al potere oppressivo (un’oppressione che si può manifestare in forme sia “assolutiste” che “moderate”) non si concretizza come progetto di un nuovo ordine sociale, ma resta un atteggiamento anarchico-libertario che rifiuta il potere in sé: esalta la ribellione, ma poi la condanna quando questa, volendo dare un nuovo assetto alla società, si struttura necessariamente in nuovo potere.[15] La conclusione è che non ci può essere possibilità di libertà se non nel suicidio o nel tirannicidio.
Una terza possibilità di vivere da uomo libero è quella indicata nel successivo trattato Del principe e delle lettere. Lo scrittore non solo si sottrae alla schiavitù del tiranno, ma illumina i popoli con la sua opera che insegna l’opposizione alla tirannide.[16] Lo scrittore è un uomo libero, dunque rifiuta ogni forma di mecenatismo, perché dietro la maschera della protezione del principe-mecenate si cela sempre l’imposizione del tiranno (si cela il controllo del potere politico sull’atto creativo). Di qui la condanna nei confronti di poeti antichi e moderni che subirono il mecenatismo (da Virgilio a Orazio, da Ariosto a Tasso, a Metastasio).
 
Le tragedie
 
Ma il genere letterario in cui una simile personalità può pienamente esprimersi è senz’altro quello della tragedia, dove si mettono in scena personaggi eroici, fortemente conflittuali, tesi all’affermazione di se stessi. Non esisteva in Italia un teatro tragico di valore, a differenza della Francia e dell’Inghilterra, che avevano visto nel secolo precedente rispettivamente i capolavori di Corneille e Racine e la grande tragedia di Shakespeare.
Le tragedie alfieriane sono 19 e attingono gli argomenti dal mito (Antigone, Agamennone, Mirra, ecc.), dalla storia antica (Cleopatra, Virginia, Bruto I, Bruto II, ecc.), dalla storia moderna (Filippo, La congiura dei Pazzi, ecc.), dalla Bibbia (Saul).
Come spiega lo stesso autore nella Vita, l’elaborazione dell’opera si articola in tre momenti (“respiri”): “ideare”, “stendere”, “verseggiare”. E vuol dire che, sull’onda di “un tumulto di pensieri e di affetti” nasce l’ideazione del soggetto, ovvero la sua progettazione schematica (per atti e scene); segue quindi la stesura dei dialoghi in prosa, e infine la trasposizione in versi (endecasillabi), che comporta un minuzioso lavoro di lima, sia come selezione dei materiali precedentemente elaborati sia come accurata ricerca della forma (lessicale, sintattica) definitiva.
La tragedia si attiene al canone classico (aristotelico) delle tre unità (di luogo, di tempo[17], di azione), è divisa in cinque atti e presenta un numero ridotto di personaggi (da quattro a sei), una trama drasticamente semplificata e una scenografia ridotta all’essenziale: ciò corrisponde alla intenzione di una forte concentrazione drammatica ed espressiva, una concentrazione che si può riscontrare anche nella essenzialità del linguaggio (classicamente scelto ed elevato, ma insieme aspro e talvolta oscuro) e dello scambio di battute (famoso, nell’Antigone, l’endecasillabo che contiene cinque battute di dialogo fra la protagonista e Creonte, che le impone la scelta fra le nozze con suo figlio Emone o la morte[18]). Lo stile vuole evitare la facile cantabilità del melodramma metastasiano, per cui ricorrono variazioni di ritmo, pause all’interno del verso, arditi enjambements, inversioni nella costruzione sintattica[19], duri scontri di consonanti. Se a ciò si aggiunge che tali tragedie non erano rappresentate in teatri pubblici, ma privatamente, fra gruppi di amici aristocratici, da attori dilettanti (fra cui il poeta stesso), si capisce come Alfieri non intenda il teatro come occasione di divertimento per un pubblico borghese (quel pubblico che tanto amava le commedie di Goldoni), ma come scena in cui si rappresentano azioni nobili ed eroiche, non frivole e volgari, e dunque luogo e tempo rivestiti di un’alta funzione civile, in cui gli uomini devono imparare “ad essere liberi, forti, generosi, trasportati per la vera virtù, insofferenti di ogni violenza, amanti della patria”.
Al centro delle tragedie alfieriane c’è sempre lo scontro fra forti personalità: nel Filippo è la virtù eroica di Carlo (figlio di Filippo) e di Isabella (promessa a Carlo, ma sposa forzata di Filippo) che si oppone, fino al sacrificio della vita, alla volontà del tiranno di affermare il proprio potere. Nelle  cosiddette “tragedie della libertà”, è l’eroe della libertà (Icilio in Virginia, Raimondo ne La congiura dei Pazzi) che si oppone fino alla morte al potere tirannico (rispettivamente, di Appio Claudio e di Lorenzo il Magnifico): Icilio muore combattendo, Virginia si fa uccidere dal padre piuttosto che cedere al decemviro (ma il suo gesto suscita la sollevazione popolare); Raimondo, vinto nel tentativo di abbattere il tiranno, si uccide (ma il suo atto di protesta, pur magnanimo, resta sterile e disperato).
Le tragedie più riuscite (Saul e Mirra) sono quelle in cui il contrasto micidiale tra due forze si sviluppa all’interno stesso del personaggio. Mirra è vittima, fino al suicidio, di una lotta perduta in partenza con quella insana passione amorosa (per il padre Ciniro) che lei stessa non vuole accettare. Nel Saul la “tragedia della libertà” si amplia: lo scontro è fra la volontà di potenza del tiranno e l’avvertimento di una potenza superiore (quella di Dio), limitante e opprimente. Saul si fa tiranno perché non sa accettare la vecchiaia che incombe (e la conseguente necessità di “passare la mano” a David); si aggrappa al potere in una titanica ribellione alle leggi di natura e alla volontà di Dio. Eppure riconosce il torto che compie nei confronti dei figli (Gionata e Micol) e del genero David, ma una forza oscura lo spinge, fino al suicidio, a non rinunciare alla propria grandezza.
 
 
 



[1] E dunque, a differenza di Parini e Goldoni, riveste il carattere dell’intellettuale che può dedicarsi alla letteratura perché vive di rendita.
[2] Disprezzò sempre la formazione lì ricevuta, in quanto improntata ad insegnamento pedantesco e disciplina militare.
[3] E’ un rilievo significativo, visto che il suo atteggiamento per tutta la vita (così come quello dei protagonisti delle sue tragedie) sarà improntato ad una immagine di solitaria, sdegnosa ed eroica grandezza, su cui ha certamente influito la suggestiione dei personaggi plutarchiani.
[4] Famoso l’episodio di lui che si faceva legare alla sedia da un servo.
[5] Si separerà dal marito, che era niente meno che Carlo Edoardo Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra.
[6] L’esempio più significativo sono le Confessioni di Rousseau, ma si pensi anche alle Memorie di Goldoni.
[7] Si veda la pagina in cui racconta di aver tentato di uccidersi da bambino, ingoiando in gran quantità l’erba del giardino, nella speranza che ci fosse la cicuta.
[8] Un ribellismo che già si manifesta nel’Accademia militare.
[9]Per la via di Piacenza, Parma, e Modena, si giunse in pochi giorni a Bologna; né ci arrestammo in Parma che un sol giorno, ed in Modena poche ore, al solito senza veder nulla, o prestissimo e male quello che ci era da vedersi. Ed il mio maggiore, anzi il solo piacere ch'io ricavassi dal viaggio, era di ritrovarmi correndo la posta su le strade maestre, e di farne alcune, e il più che poteva, a cavallo da corriere. Bologna, e i suoi portici e frati, non mi piacque gran cosa; dei suoi quadri non ne seppi nulla; e sempre incalzato da una certa impazienza di luogo, io era lo sprone perpetuo del nostro aio antico, che sempre lo instigava a partire.” (III, 1)
[10] A Parigi gli ripugna il “contegno giovesco” del re: “Avendomi proposto l'ambasciatore di presentarmi a corte in Versailles, io accettai per una certa curiosità di vedere una corte maggiore delle già vedute da me sin allora, benché fossi pienamente disingannato su tutte… Ancorché io fossi prevenuto che il re non parlava ai forestieri comuni, e che certo poco m'importasse di una tal privazione, con tutto ciò non potei inghiottire il contegno giovesco di quel regnante, Luigi XV, il quale squadrando l'uomo presentatogli da capo a piedi, non dava segno di riceverne impressione nessuna; mentre se ad un gigante si dicesse: " Ecco ch'io gli presento una formica ": egli pure guardandola, o sorriderebbe, o direbbe forse: " Oh che piccolo animaluzzo! "; o se anche il tacesse, lo direbbe il di lui viso per esso. Ma quella negativa di sprezzo non mi afflisse poi più allorquando, pochi momenti dopo, vidi che il re andava spendendo la stessa moneta delle sue occhiate sopra degli oggetti tanto più importanti che non m'era io.” (III, 6).
A Vienna si indigna a vedere Metastasio fare la “genuflessioncella d’uso” alla sovrana: “… avendo veduto il Metastasio a Schoenbrunn nei giardini imperiali fare a Maria Teresa la genuflessioncella di uso, con una faccia sì servilmente lieta e adulatoria, ed io giovenilmente plutarchizzando, mi esagerava talmente il vero in astratto, che io non avrei consentito mai di contrarre né amicizia né familiarità con una Musa appigionata o venduta all'autorità despotica da me sì caldamente abborrita.” (III, 8).
A Berlino inorridisce di fronte alla “universal caserma prussiana”: “Fui presentato al re. Non mi sentii nel vederlo alcun moto né di maraviglia né di rispetto, ma d'indegnazione bensì e di rabbia; moti che si andavano in me ogni giorno afforzando e moltiplicando alla vista di quelle tante e poi tante diverse cose che non istanno come dovrebbero stare, e che essendo false si usurpano pure la faccia e la fama di vere. Il conte di Finch, ministro del re, il quale mi presentava, mi domandò perché io, essendo pure in servizio del mio re, non avessi quel giorno indossato l'uniforme. Risposigli: "Perché in quella corte mi parea ve ne fossero degli uniformi abbastanza". Il re mi disse quelle quattro solite parole di uso; io l'osservai profondamente, ficcandogli rispettosamente gli occhi negli occhi; e ringraziai il cielo di non mi aver fatto nascer suo schiavo. Uscii di quella universal caserma prussiana verso il mezzo novembre, abborrendola quanto bisognava.” (III, 8).
A Pietroburgo si rifiuta di presentarsi a Caterina II per “odio purissimo per la tirannide in astratto”: “… neppure mi volli far presentare a quella famosa autocratrice Caterina Seconda; ed infine neppure vidi materialmente il viso di codesta regnante, che tanto ha stancata a' giorni nostri la fama. Esaminatomi poi dopo, per ritrovare il vero perché di una così inutilmente selvaggia condotta, mi son ben convinto in me stesso che ciò fu una mera intolleranza di inflessibil carattere, ed un odio purissimo della tirannide in astratto.” (III, 9).
[11]Verso il fin di marzo partii per la Svezia; e benché io trovassi il passo del Sund affatto libero dai ghiacci, indi la Scania libera dalla neve; tosto ch'ebbi oltrepassato la città di Norkoping, ritrovai di bel nuovo un ferocissimo inverno, e tante braccia di neve, e tutti i laghi rappresi, a segno che non potendo più proseguire colle ruote, fui costretto di smontare il legno e adattarlo come ivi s'usa sopra due slitte; e così arrivai a Stockolm. La novità di quello spettacolo, e la greggia maestosa natura di quelle immense selve, laghi, e dirupi, moltissimo mi trasportavano; e benché non avessi mai letto l'Ossian, molte di quelle sue immagini mi si destavano ruvidamente scolpite, e quali le ritrovai poi descritte allorché più anni dopo le lessi studiando i ben architettati versi del celebre Cesarotti…. Nella sua salvatica ruvidezza quello è un dei paesi d'Europa che mi siano andati più a genio, e destate più idee fantastiche, malinconiche, ed anche grandiose, per un certo vasto indefinibile silenzio che regna in quell'atmosfera, ove ti parrebbe quasi esser fuor del globo.” (III, 8-9).
[12] I componimenti indicano sempre la data e il luogo della loro scrittura.
[13] Il motivo della ricerca della solitudine nei “più deserti campi” risale a Petrarca (Canzoniere, XXXV), ma in lui c’era il desiderio di nascondere agli altri – e, invano, di scordare – le proprie sofferenze d’amore, Alfieri invece vuole esprimere una incompatibilità assoluta con “il vil mio secol”. Anche il linguaggio, caratterizzato dalla ricorrenza del suono aspro delle vibranti (r) e delle sibilanti (s), è ben lontano dalla musicalità di Petrarca.
[14] L’”orrore” che dà “gioia” ricorda te teorizzazioni del contemporaneo Edmund Burke, che associava il “sublime” a un “delightful horror”. Del resto, proprio nella Vita Alfieri non può fare a meno di citare i canti di Ossian per esprimere i propri sentimenti di fronte alla “greggia maestosa natura” dei paesaggi nordici.
[15] Basterà osservare il mutamento di pensiero di Alfieri di fronte alla rivoluzione francese: all’esaltazione del momento rivoluzionario (l’ode a Parigi sbastigliato) fa seguito un’opera decisamente reazionaria e legittimistica quale il Misogallo, in cui si condanna il nuovo potere borghese come una tirannide peggiore di quella monarchica, si sostiene il ruolo subalterno del terzo stato, si riserva solo ai nobili il pieno godimento dei diritti politici. Si potrebbe dire che, alla resa dei conti, l’aristocratico Alfieri –  nel suo sublime anelito alla libertà e nel suo disprezzo per la viltà delle plebi e l’avidità della borghesia – finisce per difendere gli interessi e i privilegi del suo ceto.
[16] A differenza di quel che aveva sostenuto nel Della tirannide (la scrittura è una soluzione di ripiego e lui avrebbe abbandonato volentieri la penna per la spada), qui proclama la superiorità dello scrivere su ogni altra attività (Omero è più grande di Achille, perché dà fama eterna all’eroe – e dunque è eroe egli stesso).
[17] In genere, 24 ore.
[18] “Cr.: Scegliesti? An:  Ho scelto. Cr: Emon? An: Morte. Cr.: L’avrai
[19] Ancora nell’Antigone, si veda ad esempio il secondo verso del seguente distico: “I’ lo tengo io finora / quel, che non vuoi tu, trono

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