SENECA (traduzioni)


Epicurei e stoici di fronte al problema della partecipazione alla vita politica
 
Duae maxime et in hac re dissident sectae Epicureorum et Stoicorum, sed utraque ad otium diversa via mittit. Epicurus ait: "non accedet ad rem publicam sapiens, nisi si quid intervenerit"; Zenon ait: "accedet ad rem publicam, nisi si quid impedierit." Alter otium ex proposito petit, alter ex causa. Causa autem illa late patet: si res publica corruptior est quam ut adiuvari possit, si occupata est malis, non nitetur sapiens in supervacuum nec se nihil profuturus inpendet; si parum habebit auctoritatis aut virium nec illum erit admissura res publica, si valetudo illum impediet, quomodo navem quassam non deduceret in mare, quomodo nomen in militiam non daret debilis, sic ad iter quod inhabile sciet non accedet.
 
Seneca, De otio (III, 2-3)
 
 
Traduzione
 
Anche (et) su questo punto sono discordanti le due scuole filosofiche degli epicurei e degli stoici, ma entrambe indirizzano, anche se (nel testo non c'è, ma è un valore concessivo che ci sta bene) per una strada diversa (ablativo di moto per luogo), al disimpegno dalla politica (anche: alla vita ritirata, alla libertà dalle occupazioni, ma non "ozio", che per noi ha un'accezione negativa). Epicuro dice: "Il saggio non si darà alla politica (lett.: non si avvicinerà allo Stato), a meno che non (nisi si) intervenga qualcosa (di eccezionale)"; Zenone (1) dice: "Il saggio si dedicherà alla politica, a meno che qualcosa (qualche circostanza) non glielo impedisca". L'uno ricerca il disimpegno in via di principio, l'altro per una ragione. Ma di ragioni ce ne sono molte (lett.: quella ragione si estende ampiamente): se lo Stato è troppo corrotto perché lo si possa aiutare, se è ottenebrato dai mali, il saggio non si sforzerà a vuoto, né si sacrificherà sapendo che non servirà a niente (lett.: nihil profuturus = essendo destinato a giovare a niente); se avrà poca autorità o poca forza (lett.: poco di forze, virium è genitivo partitivo) e lo Stato lo respingerà (lett.: lo Stato non è intenzionato ad accoglierlo), se la salute glielo impedirà, come non condurrebbe in mare una nave scassata, come uno debole non si arruolerebbe (lett.: non darebbe il nome) nell'esercito, così (il saggio, secondo gli stoici) non imboccherà una strada che sa (lett.: saprà) impraticabile.
 
(1) E' il maestro della scuola stoica (cosiccome Epicuro lo è di quella epicurea)
 
La vita spesso viene sprecata
 
Maior pars mortalium de naturae malignitate conqueritur, quod haec dati nobis temporis spatia tam velociter, tam rapide decurrant (1), adeo ut, exceptis admodum paucis, ceteros in ipso vitae apparatu vita destituat. Nec huic publico malo (2) turba tantum et inprudens vulgus ingemuit: clarorum quoque virorum hic adfectus querellas evocavit. Aristoteles quoque de natura queritur, cum scribit illam animalibus tantum indulsisse ut quina aut dena saecula educerent (3), homini, in tam multa ac magna genito, tanto citeriorem terminum stare. Non exiguum temporis habemus, sed multum perdimus. Satis longa vita et in maximarum rerum consummationem large data est, si tota bene collocaretur; sed ubi per luxum ac neglegentiam diffluit, ubi nulli bonae rei inpenditur, ultima demum necessitate cogente (4), quam (5) ire non intelleximus, eam transisse sentimus.
 
Seneca, De brevitate vitae (I, 1-3)
 
NOTE
 
1)  Congiuntivo obliquo.
2) Huic publico malo è dativo retto da ingemuit.
3) Educerent = Prolungano la vita, vivono.
4) E' un ablativo assoluto. Bisogna capire il significato e rendere in un buon italiano.
5) Prolessi del relativo (anticipa “eam”, che, a sua volta, sottintende “vitam”).
                                                     
Traduzione
 
 
La maggior parte degli uomini (lett.: dei mortali) si lamenta della malignità della natura, poiché questo periodo (haec spatia, letteralmente è plurale) di tempo concesso a noi scorre tanto velocemente, tanto rapidamente che, eccettuati pochissimi (uomini), tutti gli altri la vita li abbandona (cioè, muoiono) proprio mentre si preparano alla vita (lett.: in mezzo allo stesso preparativo di vita). E di questo male collettivo non si è lagnata soltanto la massa e la gente ignorante: questo sentimento ha suscitato le lamentele anche di uomini illustri. Anche Aristotele si lamenta della natura, quando scrive che è stata generosa con gli animali tanto che (questi) prolungano la vita per cinque o dieci generazioni (quina aut dena saecula è accusativo di tempo continuato; e saeculum, con un po' di buon senso, significherà "generazione", non "secolo"), (invece) per l’uomo, generato per (in più accusativo esprime un complemento di fine)  tante e tanto grandi imprese (multa ac magna sono aggettivi all’accusativo neutro plurale), il termine (della vita) è tanto più vicino. Non abbiamo poco tempo, ma molto (ne) perdiamo. La vita è abbastanza lunga e (ci) è stata generosamente concessa per la realizzazione (in consummationem è, come sopra, complemento di fine) di altissimi compiti (lett.: di grandissime cose), se fosse tutta bene impiegata; ma quando scivola via in mezzo al lusso e all’indifferenza, quando non viene impegnata per nessuna nobile impresa (lett.: per nessuna buona cosa), alla fine, sotto l'incalzare della morte (lett.: costringendoci infine l’ultima necessità), sentiamo che è passata quella vita che non abbiamo capito che stava passando.
 
Gli schiavi non ci sono nemici: siamo noi che li rendiamo tali.
 
Rideo istos qui turpe existimant cum servo suo cenare: quare (1), nisi quia superbissima consuetudo cenanti domino stantium servorum turbam circumdedit? Est (2) ille (3) plus quam capit, et ingenti aviditate onerat distentum ventrem. At infelicibus servis movere labra ne in hoc (4) quidem, ut loquantur, licet; virga murmur omne compescitur, et ne fortuita quidem verberibus excepta sunt, tussis, sternumenta, singultus; magno malo ulla voce interpellatum silentium luitur; nocte tota ieiuni mutique perstant. Sic fit ut isti de domino loquantur quibus coram domino loqui non licet. At illi quibus non tantum coram dominis sed cum ipsis erat sermo, quorum os non consuebatur, parati erant pro domino porrigere cervicem, periculum inminens in caput suum avertere; in conviviis loquebantur, sed in tormentis tacebant. Deinde eiusdem adrogantiae (5)  proverbium iactatur, totidem hostes esse quot servos: non habemus illos hostes sed facimus.
 
Seneca, Epistulae ad Lucilium (V, 2-5)

NOTE
 
1) E’ espressione interrogativa (sottintende quello che ha appena detto, cioè “quare turpe existimant….?").
2) Terza persona singolare del presente indicativo del verbo “edo”.
3) Si intende il padrone.
4) Prolettico del successivo “ut loquantur” (che, appunto, lo spiega).
5) Eiusdem adrogantiae” è genitivo di qualità, riferito a “proverbium” (in italiano bisognerà trovare un’espressione appropriata).
 
 
Traduzione
 
Rido di costoro che ritengono vergognoso cenare con il proprio servo: per quale ragione, se non perché una superbissima consuetudine ha collocato attorno al padrone che cena una folla di servi che stanno in piedi? Quello mangia più di quanto è capace di contenere (lett.: contiene) e con smodata ingordigia riempie il pancione (lett.: il ventre gonfio). Invece agli infelici servi neppure per questo (lett.: in questo), cioè per parlare, è consentito muovere le labbra; ogni mormorio è represso con il bastone, e nemmeno i rumori accidentali, (come) tosse, starnuti, singhiozzi, sono esclusi dalle bastonate; il silenzio interrotto da qualche voce si sconta con una dolorosa punizione (lett.: con un grande male); per tutta la notte stanno in piedi, muti e affamati. Così accade che parlino (male) del padrone costoro (cioè, i servi) ai quali non è consentito parlare davanti al padrone. Ma quelli che avevano (lett.: per i quali c'era, in latino c'è la costruzione con il dativo di possesso) la possibilità di parlare (lett.: il discorso) non soltanto davanti ai padroni ma (anche) con gli stessi (padroni), quelli la cui bocca non era cucita, erano pronti a porgere il collo (cioè, a farsi uccidere) per il padrone, a far ricadere sul proprio capo un pericolo imminente; parlavano nei banchetti, ma tacevano sotto tortura. Quindi circola (lett.: viene diffuso) un proverbio dettato dalla stessa arroganza, (che dice che) ci sono altrettanti nemici quanti servi: (invece) non li abbiamo nemici, ma li rendiamo tali.
 

 

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